rivista anarchica
anno 43 n. 383
ottobre 2013


donne

Tra deformazione ed eliminazione

di Francesca Cuccarese e di Milena Scioscia


Dall'immagine deformata e stravolta delle donne in tv e nei media in generale, all'escalation di violenza che termina col femminicidio, punta dell'iceberg di episodi sommersi e, il più delle volte, ignorati.
Intervengono in queste pagine Francesca, impegnata nel Centro Antiviolenza La Nara (Prato) e Milena, operatrice del Centro Antiviolenza Frida Kahlo
(San Miniato - Pi).

donne e media

Una televisione del genere...

di Francesca Cuccarese

La discriminazione di genere ha carattere pressoché universale, non ha confini né tempo; è un fenomeno globale, interessa la maggior parte dei paesi del mondo, nei quali si manifesta come fenomeno complesso, eterogeneo e trasversale. Come scrive Maria Clara Donato sulla rivista Genesis “le donne ne sono investite in maniera differenziata, a seconda di come il loro essere genere femminile si intreccia con le appartenenze etniche, culturali, di classe o con la pura casualità del luogo in cui capita di nascere e vivere”. E se è vero che in occidente le donne sono riuscite nel tempo a conquistare spazi di autodeterminazione e libertà, il cammino verso una reale e concreta parità di trattamento e dignità è ancora lungo e tortuoso.
In molti paesi occidentali infatti, le forme della discriminazione sono apparentemente meno nette, visibili, materiali, rispetto ad altre parti del mondo, ma ciò non rende immuni le donne da trattamenti ingiusti, prevaricatori e violenti. La discriminazione si fa più insidiosa, velata, velenosa, annidandosi e sviluppandosi in seno alla società, con devastanti conseguenze sia a livello individuale che collettivo.
Veicolata da prassi istituzionali, corroborata da attitudini irresponsabili della classe politica, entra con prepotenza nel quotidiano mediante la grande macchina massmediatica, che enfatizza stereotipi e pregiudizi, innescando un circolo vizioso di legittimazione della discriminazione in cui cambiano i mezzi ma non i fini.

Anni 50 . In questo annuncio per Chase & Sandborn caffè
un uomo punisce così la moglie
che non gli ha comprato quel caffe

Basta spegnere la tv?

Noi siamo il cibo che mangiamo, l'aria che respiriamo, l'acqua che beviamo. Detto ciò potremo altresì sostenere che siamo anche le parole che ascoltiamo e le immagini che vediamo. Queste nutrono e sostengono le identità individuali e collettive, orientando le nostre azioni e collocandoci nel mondo.
Molti sono gli autori contemporanei che hanno fatto luce sulla natura pervasiva dei media all'interno delle nostre vite e sulle loro ricadute a livello sociale ed educativo, attraverso un approccio semiologico, cioè attraverso un'analisi di quel sistema dei segni che consente di indagare tanto il contenuto latente, quanto la dimensione simbolica dei mass media.
“Il medium è il messaggio”, così il noto sociologo canadese, Marshall McLuhan, irrompeva nel testo Gli strumenti del comunicare (1999) svelandoci come “le conseguenze individuali e sociali di ogni medium, cioè di ogni estensione di noi stessi, derivano dalle nuove proporzioni introdotte nelle nostre questioni personali da ognuna di tali estensioni o da ogni nuova tecnologia”, ciò a dire che ogni mezzo tecnologico, che determina i caratteri strutturali della comunicazione, produce effetti pervasivi sull'immaginario collettivo, indipendentemente dai contenuti dell'informazione di volta in volta veicolata.
Dunque è il medium che plasma e controlla e va studiato in base ai criteri strutturali secondo i quali organizza la comunicazione; è proprio la particolare struttura comunicativa di ogni medium che lo rende non neutrale, perché essa suscita negli utenti-spettatori determinati comportamenti e modi di pensare, portando alla formazione di una certa forma mentis. La nostra reazione convenzionale a tutti i media, secondo la quale ciò che conta è il modo in cui vengono usati, è “l'opaca posizione dell'idiota tecnologico”, come afferma McLuhan. Perché, prendendo in prestito le parole dell'autore, “il contenuto di un medium è paragonabile a un succoso pezzo di carne con il quale un ladro cerchi di distrarre il cane da guardia dello spirito”.
Alcuni media assolvono soprattutto alla funzione di rassicurare, e uno di questi è la televisione. La televisione non crea delle novità, piuttosto è un mezzo di conferma: conforta, consola, inchioda gli spettatori in una stasi fisica (stando seduti per del tempo a guardarla) e mentale (poiché favorisce lo sviluppo di una forma mentis non interattiva, al contrario di internet e di altri ambienti comunicativi a due o più sensi).
La tv dunque intrattiene, svaga, diverte, e dopo aver formato i bambini continua a formare, o comunque a influenzare gli adulti informandoli, perché è certo che la televisione è un incredibile formatore di opinione.
Tra gli altri ha scritto sull'argomento Giovanni Sartori, la cui tesi, espressa nel testo Homo videns, si avvicina molto alle posizioni del filosofo austriaco Karl Popper (Cattiva maestra televisione), secondo cui i bambini guardano la televisione per ore e ore, prima di imparare a leggere e a scrivere. Il problema legato alla quantità di violenza che appare sugli schermi televisivi, centrale nella riflessione di Popper, è però per Sartori solo una parte della questione, perché quello che il bambino assorbe è non solo violenza ma anche un imprinting, uno stampo formativo tutto centrato sul vedere: il video sta trasformando l'homo sapiens, prodotto dalla cultura scritta, in homo videns nel quale la parola è spodestata dall'immagine. Tutto diventa visualizzato. “È importante dunque capire che il tele-vedere sta cambiando la natura dell'uomo e in questo processo la tv non è solo strumento di comunicazione ma anche paidèia, strumento ‘antropogenetico', un medium che genera un nuovo ànthropos, un nuovo tipo di essere umano. […] E se il video-bambino si auto realizza come video-dipendente, si traduce successivamente in un cattivo cittadino che mal sostiene la città democratica e il bene collettivo”.
Oggi la tv è caratterizzata da due elementi principali: la pubblicità e l'imitazione della quotidianità. La presenza massiccia della prima orienta e determina ogni aspetto della programmazione; in termini di linguaggio, accattivante e seducente cui fine ultimo, e unico, è quello della vendita; e di contenuti, affinché si arrivi alla più ampia audience possibile, in funzione della pubblicità stessa.
L'altro elemento, l'imitazione della quotidianità, avviene a livello di organizzazione del palinsesto, di generi televisivi e di stile di messa in scena, ma “essendo in realtà un'imitazione artificiosa, che tende a riprodurre modelli più che a ricercare la realtà, si finisce per rappresentare un universo affetto da una distorsione di fondo”.
Ma chi è il lupo cattivo? Le responsabilità sono multiple, per il momento limitiamoci a quelle che ricadono sulla tv stessa, la quale servendo gli interessi delle imprese, le stesse che sponsorizzano senza curarsi dei bisogni del pubblico, sposa incondizionatamente la legge del profitto e della competizione. E per cosa si compete? Ovviamente per accaparrarsi i telespettatori e non certo per fini educativi, per produrre trasmissioni che insegnino ai bambini qualche genere di etica. “Questo aspetto è importante e difficile” spiega Sartori “perché l'etica si può insegnare ai bambini solo fornendo loro un ambiente attraente e buono ma, soprattutto, buoni esempi”.
La tv però sembra non saper o non voler cogliere questa sua portata educativa, esimendosi dalla responsabilità di offrire un prodotto buono, proporzionale alle esigenze formative e informative della società. Ha trasformato il pubblico da soggetto a oggetto della comunicazione, che fa zapping passivamente all'interno di palinsesti scadenti. Il suo livello qualitativo, come osserva Sartori, “è sceso perché le stazioni televisive, per mantenere la loro audience, devono produrre sempre più materia scadente e sensazionale […] e difficilmente la materia sensazionale è anche buona”.
I produttori continuano a giustificare quest'infima offerta televisiva rispondendo: dobbiamo offrire alla gente quello che la gente vuole, come se si potesse sapere quello che la gente preferisce dalle statistiche sugli ascolti delle trasmissioni.
Nel caso italiano, i dati raccolti da Auditel, come ci ricorda Lorella Zanardo in Il corpo delle donne, diventano l'elemento decisivo per la stesura dei palinsesti da parte delle reti, dove la semplice accensione del televisore, da parte di quelle cinquemila famiglie campione, si tramuta in un gradimento implicito.
La legge dell'audience, allora, altro non è che quello che Popper formulava più familiarmente come legge dell'aggiunta di spezie che servono a far mangiare cibi senza sapore che altrimenti nessuno vorrebbe: le spezie sono il mezzo che i produttori hanno più facilmente a disposizione per aiutarsi, sono il congegno sperimentato che è sempre in grado di catturare gli ascolti.
Ma allora come difenderci da questo processo di abbrutimento e omologazione? “Basta spegnere la tv!” urlano a gran voce i più culturalmente preparati o comunque coloro che sono dotati di più strumenti per farlo; ma la questione è assai più complessa. Un'analisi più attenta svela la portata culturale che si cela dietro quel gesto, apparentemente semplice, quale è premere di tasto rosso sul telecomando. Lorella Zanardo lo definisce un gesto elitario, che parte da lontano, dall'aver ricevuto un'educazione capace di fornire gli strumenti necessari a una lettura critica della realtà, capace di aver trasmesso l'interesse per le relazioni, la lettura, il cinema, il teatro, insomma aver creato i presupposti per renderci davvero in grado di scegliere in maniera libera come arricchire il nostro tempo libero e come informarci sul mondo. Ma davvero tutti abbiamo quest'opportunità di scelta? “In un paese dominato dai media”, spiega la Zanardo, “dove i giornali di pettegolezzi trasformano in idoli i personaggi televisivi, la tv rappresenta la forma di intrattenimento più diffusa e più economicamente conveniente”.
E se poi consideriamo che in Italia il piccolo schermo rappresenta la principale fonte d'informazione per l'80 per cento di coloro che la guardano, il gioco è fatto.

Anni 60. Questo magazine per uomini
promette di spiegare “come far fare
a tua moglie ciò che vuoi che lei faccia”

La dittatura dei corpi perfetti

Il principio democratico enunciato nella nostra Costituzione all'articolo 3 secondo cui: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, si rivela in tutta la sua carica meramente formale se, analizzando la programmazione televisiva italiana, adottiamo un'ottica di genere.
In controtendenza rispetto a tutti gli altri settori, dalla vita pubblica e politica a quella lavorativa e dirigenziale, i media promuovono a genere privilegiato quello femminile. Nella programmazione televisiva come nella pubblicità assistiamo a una ossessionante presenza della donna e a un'eccedenza nell'uso delle sua immagine e del suo corpo rispetto ai contenuti veicolati e alle necessità del prodotto venduto-rappresentato.
Due interessanti ricerche svelano senza pietà quanto in questi ambiti l'Italia rappresenti un'anomalia rispetto al resto dei paesi europei, in termini di uso dell'immagine e del corpo della donna.
Nel periodo compreso tra il 18 e il 28 febbraio del 2002 la professoressa Giovanna Campani svolse un'indagine sulla televisione italiana tette-culi: vennero analizzati alcuni programmi, quali quiz, satira, informazione, attualità, politica e varietà delle reti Rai, Mediaset e della allora nuova rete La7 a caccia di stereotipi di genere. Al termine del lavoro venne montato un video che già allora svelava “una sequenza di donne discinte ancheggianti, in balletti ad alto significato erotico, nonché di donne poco vestite usate come soprammobili accanto a signori in giacca e cravatta”.
Come denunciato dal fotografo Ico Gasparri a proposito delle cartellonistica pubblicitaria, nella televisione italiana si assiste da tempo a un'eccedenza dell'uso, in termini quantitativi e qualitativi, dell'immagine e del corpo della donna; infatti, “le comparse delle signorine seminude non hanno niente a che vedere con i temi trattati nei programmi. Quasi sempre […] rappresentano una sorta di accompagnamento o di decorazione per gli uomini che conducono le trasmissioni”.
Più recentemente, nel lasso di tempo che va dal 26 dicembre del 2008 al 31 gennaio del 2009, Lorella Zanardo, affiancata da due colleghi, Cesare Cantù e Marco Malfi Chindemi, hanno condotto un'altra accurata analisi dei palinsesti televisivi nostrani, da cui è nato l'ormai conosciuto documentario Il corpo delle donne, dall'omonimo testo. In ore e ore di visione televisiva emerge un quadro che ha dell'assurdo: una sequela di immagini offensive intrise di una banalità vuota e stereotipata, dove fa da denominatore comune l'erotismo e la costante allusione sessuale ai limiti della pornografia, dominate da “corpi giovani ed esposti, ammiccanti e apparentemente sempre pronti a soddisfare il desiderio maschile”.
La Zanardo lo definisce un erotismo becero e infantile, fatto di immagini svilenti e grottesche, abiti dozzinali, inquadrature ginecologiche, uomini volgari, copioni banali e donne carne da macello.
Dobbiamo offrire alla gente quello che la gente vuole. Ma è davvero questo ciò che il pubblico vuole? Ma davvero siamo spettatori così addomesticati da accontentarsi di così poco e brutto?
Guardando la tv, intuisci fin da piccolissima che il tuo corpo sembra avere un potere enorme sugli uomini, come se il corpo divenisse unico medium delle relazioni fra i generi, come se il corpo, conforme a certi canoni di bellezza, giovinezza, erotismo, divenisse parametro, misura, orizzonte dell'esistenza.
La televisione si fa propagatrice dei peggiori stereotipi di genere, proponendo un'immagine assolutamente distorta e degradante della donna e dei rapporti tra i due sessi, veicolati quasi esclusivamente da relazioni asimmetriche, giocate su un terreno dominato dal sesso e da perversi giochi di potere.
Questa pratica è tristemente diffusa non solo in Italia, ma il problema, o l'anomalia come la si voglia chiamare, è che da nessun altra parte, come da noi, questo è l'unico modo in cui il modello femminile viene proposto in tv.
Ma in tutto questo la donna reale dov'è?
La crudeltà del messaggio coincide con la sua irrazionalità: il modello diventa una donna che non esiste.
La tv da una parte ci propone una figura docile e ammiccante che incarna il sogno della ragazza della porta accanto, la ragazza soprammobile, che con la sua presenza innocente e passiva si limita a decorare la scena, quasi sempre senza parlare, se non per avvalorare le affermazioni dell'uomo; dall'altra parte, sempre più frequentemente, assistiamo a immagini di donne che, con piglio imprenditoriale e comportamenti maschili, gestiscono un corpo iperfemminile: una figura di donna ibrida, erotica e a disposizione dell'uomo (come accade da secoli), ma spesso con uno sguardo e un atteggiamento aggressivi, da schiava-padrona del desiderio maschile, mai arrendevole.

Divieto di invecchiare

La questione si fa ancora più spinosa quando alla variabile genere accostiamo quella anagrafica, quando cioè la questione femminile incontra l'ideologia dell'ageism, ossia la discriminazione in base all'età, così definita da William Graebner.
Dunque, come sono rappresentate le donne mature, in là con l'età, quelle che Eve Ensler nel suo testo Il corpo giusto apostrofa come “l'esercito delle postmestruate”?
È quasi inutile sottolineare come lo stereotipo abbondi nella quotidianità quanto nella rappresentazione massmediatica. Le cose non cambiano quando si invecchia, semmai peggiorano.
Nella stragrande maggioranza dei casi le anziane italiane, nella vita reale, fanno o sono costrette a fare le nonne: come osserva Loredana Lipperini in Non è un paese per vecchie “con la fine della fertilità, il pendolo rallenta la sua oscillazione fra puttana e madonna e si ferma sulla seconda possibilità. Le vecchie sono sante e caste. Appena un po' stupide. Appena un po' invidiose delle giovani”.
E se non sono nonne, tate o comunque persone preposte alla cura, le anziane sono poco interessanti. E in modo simile e più drammatico rispetto alle donne adulte, sono presenti sui media, televisione in primo luogo, non per la loro cultura o per la loro sapienza politica, ma come protagoniste della cronaca nera. Appaiono solo quando sono vittime. Morte per scippo. Morte per caduta. Morte per solitudine. Morte assassinate, anche.
Ma è la pubblicità che ci svela impietosamente qualcosa di più sull'immaginario di questa fase della vita, della nostra vita.
La pubblicità sui vecchi (consentiamoci di usare questo vocabolo affrancandosi dalle trappole del linguaggio politically correct) infatti, si fa portavoce del doppio stereotipo, anagrafico e di genere.
Un'interessante ricerca, La rappresentazione degli anziani nella pubblicità televisiva, condotta da Ludovica Solari nel 2004 per il dipartimento di Scienze demografiche dell'università La Sapienza, prese in esame gli spot Rai e Mediaset del 2002, in cui apparivano personaggi over 50. Ebbene, pur essendo ormai datata, i dati rilevavano una situazione non troppo distante da quella attuale: gli anziani infatti, nel 42 per cento dei casi apparivano come testimonial del settore alimentare. Formaggi, olio, pasta e vino, perché l'anziano ha esperienza e conosce i sapori di una volta, facendosi garante della qualità e della bontà, basti pensare all'esplosione dei patriarchi rurali (uno su tutti Giovanni Rana) nella veste di imprenditori pensionati che, compiaciuti ed ecumenici, passano i propri saperi alle nuove generazioni. Nulla di nuovo anche nel fatto che vecchie signore imprenditrici non ce ne siano, e che le donne over 50 prevalgano invece, nel secondo settore pubblicitario più frequente: i prodotti per la casa. “Perché se l'uomo conosce la tradizione degli antichi sapori, che al suo lavoro si devono, la donna sa come fare il bucato”. Gli stereotipi di genere, insomma, non hanno età.
Scrive Solari: “La donna anziana rimane legata a quei prodotti che da sempre enfatizzano il lato domestico e materno, le occupazioni servili e infermieristiche […]. Gli uomini sono prevalentemente rappresentati nel contesto lavorativo o in attività che riguardano il mondo esterno, le donne, invece, sempre in ambito familiare”; cristallizzate, dunque, in ruoli di nonne impegnate nella cura della casa, mentre è più facile trovare un nonno accanto al nipote, viaggiando la trasmissione dei saperi, in linea maschile.
Loredana Lipperini in Non è un paese per vecchie svela il congegno magico degli stereotipi pubblicitari, scovando, come in un gioco di scatole cinesi, all'interno dello stereotipo di genere – interno a sua volta a quello anagrafico – uno ancora più insidioso: quello della negazione.
Negazione del tempo che passa, negazione della vecchiaia come stagione della vita e condizione dell'esistenza, negazione della essenza stessa della persona.
Il messaggio è velenoso e s'insidia dietro il meccanismo dello scambio madre-figlia, ricorrente nelle campagne pubblicitarie rivolte alle donne. Ti scambiano per tua figlia?: “che si tratti di creme o di prodotti dietetici, di cosmesi o di abiti, il parallelo viene ribadito impietosamente. È la versione aggiornata e consumistica della fiaba di Biancaneve, laddove a Grimilde viene proposto, non di vivere come è stata fino a quel momento e come continua ad essere, semplicemente con alcuni anni in più, ma di vendicarsi, infine e una volta per tutte, della figliastra. Non serve avvelenarla, puoi essere lei”.
È facile intuire come il mondo della pubblicità si sia presto adeguato, e a sua volta abbia fatto da moltiplicatore dell'effetto, alla nuova percezione che le donne over hanno di sé: da un'indagine svolta nel 2008 da Marco Testa, presidente e amministratore delegato della grande azienda pubblicitaria Armando Testa, risulta che solo la metà del campione delle oltre sessantaquattrenni intervistate si definisce anziana. Quindi è logico che la comunicazione pubblicitaria si sia trovata costretta a de-vecchizzare il proprio linguaggio, adeguandolo a un pubblico che non si percepisce tale. Il divieto d'invecchiare si è tradotto nella necessità di identificarsi in personaggi brillanti, per i quali il tempo si è fermato, sintetizzato in figure femminili, giovani ma anziane, dall'effetto destabilizzante.
Ancora una volta siamo di fronte a una donna che non esiste: figure femminili che grazie alla cosmesi e la chirurgia estetica invasiva perdono ogni autenticità, ogni ricchezza interiore psicologica, affettiva e intellettuale, aggrappate ad un fermo immagine perenne, nella vana speranza che a quell'immagine possano aderire per tutta la vita. Osserva ancora Lipperini: “Il culto esasperato dell'immagine tipico del nostro tempo tenta di esorcizzare la vecchiaia, la decadenza, la fine, attraverso la rappresentazione ossessiva di una perenne, inalterata giovinezza che sfida il tempo e dà l'illusione di una vittoria sulla morte”.
La trappola del come se trae in inganno: nonostante l'età è sempre una bella donna, come se avesse sempre vent'anni. E allora, accompagnata dal nonostante, veste come se fosse giovane, fa movimento come se fosse giovane, mostra il proprio corpo, vive la propria sessualità, il proprio tempo libero, come se fosse sua figlia, appunto.
Ma nella realtà è davvero così? Davvero le madri vogliono essere le proprie figlie? Esiste veramente questa agguerrita competizione tra generazioni, giocata esclusivamente a colpi di creme antirighe e glutei scolpiti?
Cosa nascondono quei volti straziati dalla plastica e altri materiali? Perché le donne non possono apparire con la loro vera faccia?
“Nascondendo la nostra faccia stiamo rinunciando alla nostra unicità”, commenta la Zanardo. Il volto ci mette in relazione con l'altro, in contatto diretto con il mondo, esponendoci e mettendo a nudo tutta la nostra vulnerabilità. E come restare noi stesse in un mondo in cui si è accettate solo se ferocemente invulnerabili? Invecchiando la faccia diviene portatrice del vissuto, in tutta la sua originalità e unicità. Ma allora, la parata di volti che ci vengono proposti quotidianamente nei programmi televisivi, cosa sono in grado di trasmetterci, se l'essenza più profonda di queste donne è stata soffocata sotto strati di gomma?
Siamo dunque nel paese dove la giovinezza viene misurata con quello che il poeta Edoardo Sanguineti ha definito “il modello Berlusconi: catastrofico, esagerato, impermeabile alla realtà, compiaciuto della tolleranza-zero che lo sostiene”.

Anni 60. Nella pubblicità di questo ketchup
dal tappo svitabile una donna si stupisce di poterlo aprire
da sola, senza l'aiuto di un uomo

Sex in the city

Nella disputa sull'accendere o spegnere la tv, come gesto politico che si gioca tra la presa di coscienza e il boicottaggio, sicuro è che, almeno una parte dei cittadini può salvarsi dal suo potere seduttivo e di deformazione di genere, appellandosi a un pur velato atto di volontà; altresì, una rivista, o un giornale, si può decidere di strapparlo, cestinarlo,bruciarlo o quanto meno scegliere di non comprarlo. Ma c'è qualcosa da cui è veramente molto difficile salvarsi, tutelarsi: la cartellonistica pubblicitaria stradale.
Poco studiata e ampiamente sottovalutata, la cartellonistica pubblicitaria risulta essere un ambito di grande interesse per un'analisi attraverso un'ottica di genere. Anche perché, a ben vedere, la quasi totalità usa l'immagine femminile, attraverso cui quotidianamente viola il nostro campo visivo e il nostro immaginario.
La principale caratteristica che la denota infatti è la sua natura obbligatoria: non può negarsi alla vista di bambini, bambine, adolescenti, uomini e donne, violentate e violentatori, vittime e carnefici, insomma tutte e tutti coloro che ci passano vicino, come denuncia Ico Gasparri, fotografo, artista che si occupa di comunicazione sessista ormai da anni.
In effetti, come è possibile non vedere un cartellone di 18 metri quadrati per 3 mentre si cammina su un marciapiede di 2? Spesso sostituiscono le facciate degli edifici storici centrali in ristrutturazione, foderano interi palazzi, invadono metropolitane, banchine delle stazioni, fermate degli autobus.
In vent'anni Ico Gasparri ha raccolto più di 4.000 immagini, dandole alle stampe nel suo testo autoprodotto, Chi è il maestro del lupo cattivo?, che a oggi rappresenta il più vasto e articolato archivio di immagini relativo alla cartellonistica sessista, e che lo ha insignito nel 2010 del premio come miglior artista italiano dedito ai diritti delle donne e alle discriminazioni di genere, decretato dalla Commissione Pari o Dispare e consegnato per mano della allora vice presidente del senato Emma Bonino. Questi scatti documentano lo schifo, come lui stesso lo definisce, con cui le nostre città (e in particolare Milano, oggetto dei suoi studi) sono state tappezzate, vestite in maniera violentemente sessista, documentando il peggioramento esponenziale di cui l'Italia si è fatta protagonista.
Gli scatti mostrano un excursus che va dall'immagine della donna vestita, a parti di corpo che via via vanno scoprendosi, agendo sempre di più e sempre più apertamente il sesso, fino alla deriva nella pornografia. Esplicitato dalle immagini fotografiche e rinforzato dal linguaggio usato nel testo scritto che le accompagnano, il sesso esce sempre più dall'allusione conquistando definitivamente l'area declaratoria.
Ico Gasparri sostiene che “niente è fatto per caso, c'è una precisa filosofia che guida i pubblicitari”, anche di grande aziende di fama internazionale nell'usare, per altro senza neanche tanta originalità, l'immagine della donna in maniera così mercificata e degradante.
Interessante sottolineare il fatto che Gasparri parli di immagine e non solo e semplicemente di corpo della donna, ritenendo che l'attacco, l'offesa, la violenza riguardi tutto l'universo femminile, e non solo l'uso del suo corpo o di parti di esso, appunto.
Tanto meglio non va quando ad essere intervistati sono i consumatori: racconta con sarcasmo che, su 50 persone intervistate, ben 48 non avevano capito che il prodotto pubblicizzato su un gigantesco cartellone lungo una delle vie principali di Milano, fosse una nota marca di acqua minerale.
In un interessante intervento tenuto nel novembre del 2009 presso il Coordinamento delle donne dell'Idv di Milano, presenta il suo film (così lo definisce), frutto dell'assemblaggio di tanti, tantissimi frame, foto che in anni di ricerca ha scattato e classificato in base a logiche pubblicitarie ricorrenti. Tra queste l'oggettivazione: le modelle sono spesso distese in terra o su piani di posa fotografici, come oggetti, ridicolizzate al punto da essere trasformate esse stesse in oggetto. Merce da consumare, pronta per l'uso e l'abuso. Un altro aspetto è l'apertura e la gratuita disponibilità: le donne si aprono in pose da contorsioniste, piegate, distorte, arrotolate. Poi, naturalmente, l'eterna gioventù e, particolarmente significativo, il rapporto uomo-donna: talvolta le modelle sono distese davanti a un uomo che non si vede, se non in parte, un braccio muscoloso, una schiena, non importa rappresentarlo ai fini della cattura dello sguardo del consumatore. Se l'uomo si vede, spesso è posizionato dietro, che le sovrasta o, peggio, le prende, le tiene a sé con una stretta ai limiti della violenza; mani forti, di possesso, che la cingono, la trattengono. Se invece appare da solo, l'uomo diviene essere asessuato, nelle misura in cui viene devitalizzato di tutta la sua carica erotica: vestito sobriamente, seduto in un'ambientazione di rango o comunque reale, promosso a un grado accettabile socialmente, non si specula sulla sua vita intima e sessuale; si fa persona. Ma anche il rapporto tra donna e donna fa parte dell'iconografia pubblicitaria. È ricorrente il tema dell'omosessualità femminile, tanto caro all'immaginario erotico maschile, totalmente deprivato di qualunque connotato emotivo, affettivo, relazione, ma legato unicamente alla sua dimensione sessuale. Infine: oltre la donna. Quello che la pubblicità passa spesso è “l'esistenza di un corpo diviso dall'essenza della donna”, certificandoci che la donna ha qualcosa di diverso da essa stessa, che è il corpo; un corpo logicamente perfetto secondo i canoni convenzionali di cui i media ci bombardano quotidianamente (“Il tuo corpo sarà l'unica cosa che ti piacerà indossare”, come sentenzia il testo che accompagna la pubblicità di una nota marca di acqua).
La sequela di immagini montate da Ico Gasparri svela come sia cambiato nel corso degli anni il rapporto tra polis e pubblicità, portando alla ribalta il duplice meccanismo violento del quale siamo vittime. Da una parte infatti, le gigantografie pubblicitarie hanno fagocitato i nostri sguardi e le nostre strade con un torbido mix di biechi interessi economico-misogini, riducendo le nostre città a luoghi insicuri, portatori (non sani) di esplicite forme di discriminazione, verso un genere, e violenza, verso entrambi. Dall'altra, l'obbligatorietà con cui si impongono, trascende il qui e ora con l'aggravante che tutta questa paccottiglia (prendendo in prestito un termine usato da Ico Gasparri) espone senza riserve le nuove generazioni a forme di diseducazione che, anche su quelle immagini, formano i loro modelli di riferimento. L'effetto dell'esposizione a tanta materia scadente è estremamente deviante e, a lungo andare, plasma, colonizza l'immaginario dei minori, quanto degli adulti.

Bombardamento quotidiano

Il problema ruota intorno alla cristallizzazione dei ruoli e degli stereotipi legati all'uno e l'altro sesso, le forme delle relazioni tra i generi, ma anche e soprattutto alla percezione stessa della violenza.
Come testimonia Ico Gasparri, riportando quanto emerge dalla sua attività di sensibilizzazione e formazione rivolta alle e agli adolescenti, l'atto violento viene distorto e minimizzato, ricondotto essenzialmente all'atto sessuale, o quanto meno a un atto colorito di sangue, urla e botte. Solo grazie a un percorso di presa di coscienza, i ragazzi e le ragazze riescono ad avere un occhio più attento, sensibile, critico, tale da smascherare quell'insidia che si cela dietro al fenomeno della “mediatizzazione del corpo femminile”, affrancandosi dall'effetto normalizzatore dovuto all'ossessiva “esposizione agli occhi di tutti di sempre maggiore carne femminile esteticamente conformata in qualsiasi attività della giornata”.
È dunque attraverso i media che si forma quel senso comune plasmato, orientato, violentato dal bombardamento quotidiano di rappresentazioni distorte e discriminatorie, facendo leva su un piano simbolico in maniera così profonda da divenire mezzo di propagazione del backlash (attacco alle donne, concetto coniato dalla giornalista statunitense Susan Faludi). Il danno più grave, dunque, è riconducibile alla colonizzazione del nostro immaginario, concetto introdotto da Augè in La guerra dei sogni. Se lo scontro tra i popoli è spesso accompagnato dall'urto tra immagini, “analogamente si può sostenere che anche lo scontro/incontro fra i generi non può che giocarsi anche sul terreno delle immagini”, osserva Anna Lisa Tota in Gender e media (Molteni editore, Roma, 2008). “In tale prospettiva l'immaginario appare come magazzino simbolico a cui attingere per dare senso alle identità, per elaborare le rappresentazioni sociali con cui misurarsi nella quotidianità. I mutamenti che investono tale sfera, lungi dall'essere accessori o marginali, sono destinati ad avere ripercussioni profonde sull'assetto complessivo di un dato contesto sociale”. Questo è il vero problema: l'immaginario è faccenda davvero complicata, è granitico e infido, e i cambiamenti sono troppo lenti.
Lungi dal pensare che vi sia dietro il disegno di una qualche società segreta che ci vuole tutti sessuopatici, c'è però una certa coerenza tra le rappresentazioni mediatiche, i discorsi politici e la cultura popolare italiana.
Questo sodalizio tra immagini e linguaggio opera un rafforzamento simbolico dei ruoli e dei comportamenti rappresentati, facendoli apparire come comunemente condivisi e socialmente accettati e influenzando profondamente l'esistenza di tutte e di tutti, fino a sfociare nelle mille ingiustizie, discriminazioni e violenze, che le donne subiscono quotidianamente.
Il grave rischio, infatti, è che la discriminazione sul piano simbolico che operano costantemente i media, ne alimenta una reale.

Francesca Cuccarese

Il test di Bechdel

Il test di Bechdel, ideato da Alison Bechdel, autrice di fumetti dedicati al mondo lesbico, sono dei requisiti che servono a valutare (secondo l'ottica del personaggio che li presentava nel fumetto) se un film valeva la pena di essere visto o meno.
I requisiti sono:
1. Devono esserci almeno due donne;
2. Le due donne devono comunicare tra loro;
3. A proposito di qualcosa che non sia un uomo.
Un ulteriore requisito che si è aggiunto in seguito è che le donne abbiano un nome.
In apparenza questi requisiti sembrano abbastanza facili da soddisfare, tuttavia si può vedere (bechdeltest.com) che sono moltissimi i film che non passano il test, da Pirati dei Caraibi a Fight Club, da Midnight in Paris a Shrek, e tanti altri.


donne e violenza

Dare un nome alle cose

di Milena Scioscia

Italia, 2012: 124 donne uccise, più 47 tentati omicidi. Dieci al mese. Una ogni tre giorni. Un paio di articoli di cronaca, ed è finita.
Christine Ockrent ha pubblicato un testo dal titolo eloquente: Il libro nero della donna. Violenze, soprusi, diritti negati (Cairo Editore, Milano, 2007). Il volume presenta quasi novecento pagine di sguardi sulla condizione femminile globale, interpretati attraverso l'ottica dei cinque principi del genere umano individuati nella Carta dei diritti della Comunità Europea: sicurezza, integrità, giustizia, libertà, dignità. L'obiettivo dell'autrice è denunciare quali sono le reali condizioni delle donne in un contesto globale, al fine di poter individuare gli strumenti di lotta più efficaci e mirati a migliorarle fattivamente. Ovunque si ponga, questo sguardo sulle donne si fa cupo e inquietante: “Esse sono, molto semplicemente, inferiori. Impure. Buone soltanto a essere sottomesse, sfruttate, picchiate, violentate, comprate, ripudiate. Creature di cui si può disporre a proprio piacimento. Destinate al silenzio, all'oblio. Disprezzabili, insomma, e prive di dignità”.
Il gap più desolante nella conquista di spazi di autodeterminazione e libertà è nella disparità tra sfera pubblica e privata. Il quotidiano, il vicino, il privato, sono ancora zone d'ombra; in Occidente è la sofferenza di esser nate donne ad aggravare tutte le altre, e questa realtà viene quotidianamente celata, manipolata, strumentalizzata agli occhi dell'opinione pubblica, con obiettivi propagandistici e politici.
Il punto di partenza è senz'altro la consapevolezza contemporanea delle discriminazioni di cui tutte le donne al mondo sono state e sono vittime, incipit necessario per elaborare nuove concezioni politiche, interpretative, giuridiche, costruite sul binomio “uguaglianza e diversità”.
Amartya Sen indica nel suo Many faces of gender inequality “le sette facce della disuguaglianza” che non permettono una vita veramente umana per le donne in molti paesi del mondo: disuguaglianza nella sopravvivenza, nella natalità, nelle opportunità di base, nella proprietà, nella distribuzione di benefici, nei carichi domestici, nella dimensione professionale.

Neologismo controverso

L'album fotografico che emerge dall'incrocio di queste analisi è agghiacciante: alcune tra le forme di violenza perpetrate su donne e bambine risultano essere l'infanticidio, il feticidio, lo stupro come strategia di guerra, i delitti d'onore, la lapidazione, le mutilazioni genitali, passando dalle quotidiane violenze coniugali, dalle discriminazioni in ambito lavorativo, salariale, familiare, sociale ed educativo, fino allo sconcertante fenomeno del femminicidio.
“È la prima causa di morte violenta in Italia per le donne tra i 16 e i 44 anni”, dice Rashida Manjoo, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, citando i dati dell'Organizzazione mondiale della sanità. La prima causa di uccisione delle donne nel mondo è l'omicidio da parte di persone conosciute. La prima causa di morte delle donne. Più del cancro, più degli incidenti stradali.
Femminicidio è un neologismo ed è una brutta parola: significa la distruzione fisica, psicologica, economica, istituzionale della donna in quanto tale, in quanto donna. Avviene per fattori esclusivamente culturali: il considerare la donna una res propria può far sentire l'aguzzino legittimato a decidere sulla sua vita.
L'antropologa messicana Marcela Lagarde, considerata la teorica del femminicidio, lo definisce “la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine – maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale – che comportano l'impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l'uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all'insicurezza, al disinteresse delle istituzioni e alla esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia” (si veda anche l'articolo http://27esimaora.corriere.it/articolo/perche-si-chiama-femminicidio-2/).
È un termine coniato ufficialmente per la prima volta nel 2009 con la sentenza Campo Algodonero, storica non solo perché per la prima volta riconosce una identità giuridica propria al concetto di femminicidio quale omicidio di una donna per motivi di genere e quale violazione dei diritti umani, ma anche perché è stata emessa quando, per la prima volta nella storia della Corte interamericana, a presiedere l'organo giudicante era una donna, la magistrata Cecilia Medina Quiroga.
Con questa sentenza il Messico è stato condannato dalla Corte interamericana dei diritti umani per le donne violentate e uccise dal 1993 nella totale indifferenza delle autorità di Ciudad Juarez, nello stato di Chihuahua, al confine tra Messico e Stati Uniti.
Qui i corpi delle donne venivano barbaramente e impunemente seviziati, torturati, assassinati, straziati, abbandonati, buttati nella spazzatura o sciolti nell'acido.
Dal 1992 più di 4.500 giovani donne sono scomparse e più di 650 stuprate, torturate e poi uccise e abbandonate ai margini del deserto.
Il tutto nel disinteresse delle istituzioni, con la complicità della politica e della criminalità organizzata, attraverso la possibilità di insabbiamento delle indagini esacerbata dalla cultura machista dominante e da leggi che non prevedevano lo stupro coniugale come reato, concedendo la non punibilità nei confronti dello stupratore che avesse sposato la donna violata.
Secondo le denunce si sono macchiati di questi orrori anche uomini delle forze dell'ordine e, laddove non direttamente, attraverso quella forma di omertà che permette anche al nostro paese di mantenere un primato da guerra civile. Certo, in Italia non siamo arrivati a questi livelli.
Un dato però ci pone in classifica dietro al Messico: se là il 60 per cento delle vittime di femminicidio aveva già denunciato episodi di violenza o di maltrattamento, qui invece una ricerca condotta da Anna C. Baldry ha evidenziato che più del 70 per cento delle vittime di femminicidio era già nota per avere contattato le forze dell'ordine, ovvero per aver denunciato, o per aver esposto la propria situazione ai servizi sociali.
Un dato che ci accomuna agli altri paesi europei: le ricerche criminologiche dimostrano che su 10 femmicidi, 7/8 sono in media preceduti da altre forme di violenza nelle relazioni di intimità.
L'uccisione della donna non è che l'atto ultimo, la punta dell'iceberg di un continuum di violenza di carattere economico, psicologico, fisico.
Il termine femicide (femmicidio o femicidio) era già stato coniato precedentemente dalla criminologa Dian Russell, per indicare gli omicidi della donna in quanto donna, ma anche delitti trasversali a tutte le classi sociali: omicidi basati sul genere, ovvero la maggior parte degli omicidi di donne e bambine. Non si riferisce cioè soltanto agli omicidi di donne commessi da parte di partner o ex partner, ma anche delle ragazze uccise dai padri perché rifiutano il matrimonio che viene loro imposto, o il controllo ossessivo sulle loro vite e sulle loro scelte sessuali, delle donne uccise dall'Aids contratto dai partner sieropositivi che per anni hanno intrattenuto con loro rapporti non protetti tacendo la propria sieropositività, delle prostitute contagiate dall'Aids e di quelle ammazzate dai clienti, delle giovani uccise perché lesbiche. Se vogliamo tornare indietro nel tempo, include anche tutte le donne accusate di stregoneria e bruciate sul rogo.
La violenza di genere è un fenomeno trasversale. Le vittime della violenza, così come gli autori della violenza, sono di tutte le età e di tutte le professioni, e gran parte della violenza avviene in famiglia, per mano di un partner o marito, spesso dinanzi ai figli.
È un errore pensare che la violenza alle donne si verifichi solo in ambienti in cui ci sia qualche disagio sociale, o povertà culturale. Nessuna società o cultura ne è immune.
La violenza colpisce le donne in ogni parte del mondo, nella sfera pubblica come in quella privata, in tempo di pace o durante i conflitti. Esiste una dimensione sociale della violenza alle donne perché essa attiene a profonde motivazioni culturali e ai modelli di relazione tra generi: la violenza altro non è che un modo per riappropriarsi di un ruolo gerarchicamente dominante, a cui sono da sempre stati concessi privilegi.
Un modo per riappropriarsi di un potere.
“Il termine femminicidio viene adottato da subito con un preciso significato politico, per indicare le violenze di stampo misogino o sessista degli uomini e delle istituzioni maschili sulle donne: un nome nuovo per una storia vecchia quanto il patriarcato” spiega Barbara Spinelli, autrice di Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale (Franco Angeli editore, Milano, 2008).
Marcela Lagarde sostiene che la cultura rafforza in mille modi la concezione per cui la violenza maschile sulle donne è qualcosa di naturale: attraverso una proiezione permanente di immagini, dossier, spiegazioni che la legittimano, ci troviamo educati ad una violenza illegale ma legittima. Questo è uno dei punti chiave del femminicidio.
Il femminicidio secondo Marcela Lagarde è quindi un problema strutturale, che va al di là degli omicidi delle donne, e riguarda tutte le forme di discriminazione e violenza di genere che sono in grado di annullare la donna nella sua identità e libertà; non soltanto fisicamente, ma anche nella loro dimensione psicologica, nella socialità, nella partecipazione alla vita pubblica.
Ogni qualvolta le donne reclamano il riconoscimento di diritti, sociali, politici, lavorativi, riproduttivi, a questa richiesta corrisponde una maggiore negazione di libertà e di autodeterminazione da parte di chi esercita il potere, fino a una escalation di violenza atta a conservare e a ricondurre la donna nella sua dimensione “naturale”, di soggetto controllabile.
A un mese di distanza dall'assassinio della difensora dei diritti umani Marisela Escobado, un altro femminicidio ha insanguinato la città di Juarez: il brutale omicidio della poeta e attivista Susana Chávez, ideatrice negli anni '90 del progetto Ni una muerta más, in difesa delle donne di Ciudad Júarez. Il femminicidio di Susana Chávez, il primo dall'inizio dell'anno, si aggiunge ai 466 omicidi di donne del 2010.

Dal privato al politico

In Europa si parla di femminicidio ignorando l'elaborazione teorica e politica, le pratiche cioè del movimento delle donne che hanno fatto di questo neologismo uno strumento di interpretazione del reale e di decostruzione del patriarcato in America Latina, rendendolo categoria di analisi della discriminazione contro le donne in chiave sessuata.
Qui inizia la storia sconosciuta ai più.
Le donne messicane, attiviste, femministe, accademiche, giornaliste, grazie alla loro attività di denuncia della responsabilità istituzionale per il perdurare di questi crimini e di tutte le violazioni dei diritti umani subite dalle donne che continuavano a restare impunite, sono riuscite a far eleggere Marcela Lagarde parlamentare.
Le categorie di analisi proprie delle donne per interpretare la realtà (sociale, politica, scientifica) nascono con la categoria di analisi del genere. Sono quindi proprio queste categorie a descrivere le relazioni tra uomini e donne, non in termini di differenza sessuale, ma di potere gerarchico, sociale e politico, così come la storia del movimento femminista italiano ci spiega bene.
Con il termine “femminicidio” intendiamo quindi ogni esercizio di potere sulla psiche o sul corpo di una donna volto ad annientarla perché non assomiglia a quello che l'uomo o la società vorrebbero che fosse, perché la donna esercita la sua libera determinazione “rompendo gli schemi”, ribellandosi al ruolo sociale di moglie, figlia, amante, suora, puttana, ruolo attribuitole dagli uomini “a loro immagine” in una società patriarcale.
Ed è stato l'emergere dal privato al pubblico, e di conseguenza al politico, ad aver reso possibile l'accomunare questi fatti di violenza tanto diversi, dal Messico all'Italia, sotto uno stesso nome.
Alcune femministe in Italia sono contrarie all'uso del termine politico femminicidio, poiché sostengono che inchioda “l'intero genere femminile al ruolo di vittima sacrificale”. Una ulteriore violenza sottile, invisibile, si reitera quando su molti articoli, saggi, pubblicazioni, interpellanze a cura di ministre, vengono poste numerose virgolette intorno al termine femminicidio, e si preferisce l'uso di parole altre, debitamente virgolettate: “strage delle innocenti” (Barbara Pollastrini), “ginocidio”, “emergenza per le donne”, “mattanza”, quasi che il termine fosse “l'ultima moda femminista”. L'appiattimento semantico e il capriccio linguistico sviliscono così un dibattito complesso, un ragionamento critico femminista sul fatto che le donne non muoiono per caso, generando la negazione di una nuova prospettiva di analisi di genere del fenomeno. Non è solo l'uomo a uccidere: è l'ideologia patriarcale che uccide, riprodotta da donne, uomini, istituzioni.
Parlare di femminicidio implica riconoscere le nuove forme di patriarcato, specialmente in un paese in cui si riscontra un'assoluta mancanza di dati in proposito.
Anche in Italia, il 18 marzo 2008 si è parlato di femminicidio in un'aula di tribunale. A presidiare c'erano le donne del movimento femminista locale (Rete delle donne umbre e Sommovimento femminista di Perugia) e nazionale (Rete nazionale femministe e lesbiche), che rivendicavano la matrice culturale del femminicidio di Barbara Cicioni, donna giovane e autonoma, imprenditrice e madre di due bambini, strangolata dal marito all'ottavo mese di gravidanza.
Al processo sono state ammesse come parti civili ben cinque associazioni, di cui due per la difesa dei diritti umani.
Per la prima volta in Italia il femminicidio viene riconosciuto come violazione dei diritti umani: la violenza domestica e l'uccisione finale di Barbara Cicioni, e quindi di una donna, costituiscono non più un fatto privato, né un fatto di donne, bensì una ferita per la società tutta che, nel momento in cui alla donna non viene riconosciuta la sua dignità di essere umano e di persona, e per questo viene discriminata, violata, uccisa, è collettivamente responsabile dell'eliminazione della cultura e degli stereotipi che ne minano l'autodeterminazione, la libertà, la vita stessa.
Parlare dunque di vittime di femminicidio con una certa riluttanza è sintomo di una perdurante difficoltà della società italiana ad affrontare la questione? È un'altra tattica di occultamento?
La sororidad, il termine di sorellanza usato dalle femministe latino-americane, c'è solo se c'è un atto politico, una pratica di lotte, dove si può essere vittime di femminicidio in un contesto politico che non teme di nominarti, che ti riconosce in quanto tale, che ti sostiene.
Dare un nome alle cose è essenziale per comprenderle e per evitare che si trasformino in pericolosi tabù; dare un nome a un problema significa riconoscerlo come tale, divenire consapevoli della sua esistenza, scegliere di agire per contrastarlo.

Violenza di genere

Con il termine violenza, l'antropologa francese Françoise Héritier intende “ogni costrizione di natura fisica, o psichica, che porti con sé il terrore, la fuga, la disgrazia, la sofferenza o la morte di un essere animato; o ancora, qualunque atto intrusivo che abbia come effetto volontario o involontario l'espropriazione dell'altro, il danno o la distruzione di oggetti inanimati”.
Si tratta di imporre la propria volontà all'altro, di dominarlo usando una serie di mezzi quali molestie, umiliazioni, svalorizzazioni, fino alla capitolazione e alla sottomissione della vittima. Volontaria o meno, la violenza si costituisce come atto consapevole e intenzionale, volto a dominare l'altro con una moltitudine di mezzi, in un rapporto di forza, in una relazione asimmetrica.
Il termine violenza di genere è usato da molto tempo dalle persone che fanno parte di associazioni di donne e che lavorano nel settore, poiché delinea una forma di violenza esercitata specificatamente contro il genere femminile da parte del genere maschile, con gli obiettivi di mantenere e perpetrare una cultura patriarcale millenaria, fondata su una storica disuguaglianza tra i sessi, attraverso atti discriminatori e di prevaricazione, che affondano le proprie radici di giustificazione sociale nel senso del possesso.
Molto prima che il termine femminicidio venisse comunemente (ma non sempre consapevolmente) utilizzato dai mass media, la violenza di genere già lo includeva.
Acclude forme di violenza molto diversificate: la violenza che si consuma quotidianamente tra le mura domestiche ai danni di mogli (e figli, testimoni e quindi anch'essi vittime della stessa violenza), la lapidazione come pena di morte prevista per il reato di adulterio nella Shari'a, le mutilazioni genitali femminili, largamente compiute e accettate da intere comunità, il turismo sessuale minorile, a cui si aggiungono i danni di dipendenza e malattia causati dall'uso di steroidi finalizzati a rendere più appetibili e carnose le bambine, i delitti d'onore e quelli perpetrati per dote, lo stupro come arma di guerra, la morte per hiv delle donne africane, strette e costrette tra abusi sessuali, violenze domestiche e il ripudio dopo il contagio, il “suicidio” delle vedove indù nella pira funebre del marito, l'infanticidio femminile per cui il premio Nobel Amartia Sen denunciò nel 1990 l'assenza all'appello di circa 100 milioni di donne nella sola Asia. Stime più recenti ne hanno aggiunti altri 17 milioni.
Il termine è attualmente adottato a livello istituzionale, e nelle conferenze mondiali sui diritti umani è stato riconosciuto in qualità di violazione a tali diritti fondamentali. La pratica della violenza contro le donne riflette un modello basato su un'idea della virilità in cui l'elemento fondamentale è l'esercizio della forza fisica, della volontà/diritto dell'affermazione di sé, della superiorità da raggiungere.
Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad una presa di posizione precisa da parte degli organismi internazionali nei confronti del tema della violenza sulle donne e da tutti i documenti emerge chiaramente che il concetto di violenza è un'espressione culturale figlia della storica relazione di potere tra il genere maschile e femminile. La violenza di genere è la violenza contro le donne in quanto rappresentanti di uno status subordinato nella società. La violenza contro le donne non è solo il frutto di un'aggressione individuale; la dimensione sociale della violenza sulle donne attiene a profonde motivazioni culturali: essa è la modalità maschile per riappropriarsi di un ruolo a cui sono stati da sempre concessi privilegi, è lo strumento utilizzato per riaffermare con forza la supremazia di un genere sull'altro.
La violenza di genere include violenza fisica, psicologica e sessuale, come nella violenza domestica, nello stupro e nell'abuso intrafamiliare, nella gravidanza forzata, nell'aborto selettivo, nella disparità nell'accesso a cibo, a cure mediche o all'educazione, nella schiavitù sessuale, o in pratiche tradizionali che danneggiano la donna, come ucciderla nel nome dell'onore, acidificarla, mutilarla, oppure nella prostituzione coatta, nei matrimoni combinati, nelle aggressioni sessuali, nelle intimidazioni sul posto di lavoro. Perfino la sfera normativa, politica e civile hanno giustificato a lungo la supremazia dell'uomo e quindi l'idea della donna quale “oggetto di proprietà”, o soggetto di diritto subordinato alla volontà del padre prima e del marito dopo. Tuttavia, pur essendo cambiate le leggi, i tempi di mutamento dei modi di pensare sono ben più lunghi, anche in Italia.
La violenza contro le donne che diventa rivendicazione del controllo da parte degli uomini trova tra le mura domestiche lo spazio ideale per attuare tale strategia. Essa assume diverse forme, a seconda delle società e delle culture, ma la sua esistenza è un fenomeno, un fatto sociale che è presente in modo trasversale in tutte le classi sociali, le culture, le religioni, le situazioni geopolitiche.
La violenza di genere riguarda però la sfera pubblica, oltre a quella privata; essa può infatti avvenire nella comunità, oltre ché in famiglia. Nella sfera pubblica ci sono dei fattori di rischio che in un certo senso sostengono la violenza contro le donne a vari livelli nella comunità: a livello politico, a livello legislativo, a livello culturale, a livello economico.
A livello politico, il fattore di rischio più evidente è l'impossibilità o la scarsa possibilità di partecipazione delle donne nei sistemi politici organizzati; oppure una scarsa rappresentanza femminile nei mezzi di informazione, nelle professioni mediche e giuridiche. Anche la visione tradizionalista della famiglia come dimensione privata fuori dal controllo dello stato è un grave fattore di rischio per la violenza di genere.
A livello legislativo, i fattori di rischio sono la mancanza di leggi eque sul divorzio, l'affidamento dei figli o l'eredità, la non conoscenza dei propri diritti da parte delle donne. Inoltre, in molti paesi, le donne vivono ancora uno stato giuridico inferiore rispetto agli uomini e in alcuni paesi non esistono ancora norme che tutelino le donne dalla violenza domestica, dallo stupro e da altri reati contro di esse.
A livello culturale inoltre un fattore di rischio molto pericoloso è quello di ammettere la violenza contro le donne come modalità per risolvere i conflitti, così come approvare la netta definizione di ruoli culturali, o sostenere la credenza che l'uomo abbia il diritto ad una certa proprietà sulla propria partner, o diffondere messaggi denigratori e svilenti sul ruolo e sul corpo della donna.
A livello economico infine uno dei fattori di rischio più gravi è la dipendenza economica delle donne dagli uomini attraverso forme di restrizione e di scarso accesso alla formazione, all'occupazione e alla vita politica e sociale, nonché la presenza di leggi discriminatorie a proposito di diritto alla dote o all'eredità.
Nonostante l'ampiezza e la gravità del fenomeno, nella stragrande maggioranza dei paesi lo stato e la società non riconoscono realmente la violenza contro le donne come una violazione dei diritti umani, e per questo non attuano strategie adeguate per contrastarla.

Milena Scioscia

Una su tre

Secondo l'unica ricerca nazionale sul fenomeno, fatta dall'Istat nel 2007 prendendo in considerazione i dati dell'anno precedente sono 6,743 milioni le donne tra i 16 e i 70 che, almeno una volta nella vita, sono state vittime di violenza, fisica o sessuale; ovvero il 31,9% della popolazione femminile: una donna su tre.
Le donne uccise nel 2006 sono state 101;
nel 2007 107;
nel 2008 118;
nel 2009 119;
nel 2010 127;
nel 2011 137
Secondo l'Osservatorio nazionale sullo stalking circa il 10% degli omicidi avvenuti in Italia dal 2002 al 2008 ha avuto come prologo atti di stalking. L'80% delle vittime è di sesso femminile e la durata media delle molestie insistenti è di circa un anno e mezzo.