rivista anarchica
anno 43 n. 383
ottobre 2013




La femmina detective
e l'indice di Cordier

a cura di Felice Accame


1.
La prima osservazione concerne il fatto che nei Dialoghi platonici, che possono essere considerati come la più radicale e metodica espressione storica di una detection dell'animo, i personaggi femminili latitano. D'altronde, se Assiotea ha potuto assistere alle lezioni di Platone è stato solo in virtù del suo travestimento da uomo, così come Agnodice per andare a imparare la medicina da Erofilo, in quella stessa Alessandria dove, seicento anni dopo – nel 415 –, la povera Ipazia si doveva travestire da uomo per poter spiegare filosofia e matematica ai propri concittadini, prima di esser fatta letteralmente a pezzi dagli sgherri del vescovo Cirillo, fanatico cristiano e, come tale, nemico di qualsiasi mutamento della condizione femminile. La società maschile e maschilista ha espropriato la femmina dell'indagine scientifica fino a che ha potuto.
La seconda osservazione, derivata dalla prima, concerne il fatto che il contesto ideologico fa sì, piuttosto, che sia la donna non soggetto ma oggetto di indagine: da parte di veri e propri maniaci e da parte di occhiuti e possessivi mariti in cerca di adulterii e di altre malefatte di cui vendicarsi nel nome del l'onore ferito.

2.
Lasciando da parte per una volta Dio, il Signore dell'Eden, che, sapendola lunga – troppo lunga, tanto lunga da correre il rischio di annoiarsi parecchio –, al primo misfatto, sa subito ascrivere il relativo colpevole, il primo detective maschio potrebbe essere considerato il diavolo Asmodeo, uno che doveva avere parecchio pelo sullo stomaco visto che aveva avuto perfino il coraggio di andare a letto con Lilith (demone della disgrazia e della jattura, della malattia e della morte), la prima moglie di Adamo, uno che con le donne non è stato particolarmente fortunato. Asmodeo, a dire il vero, è più noto come serial killer che come detective, ma siccome scoperchiava le case (de-tect), ecco che la Summerscale (Omicidio a Road Hill House), dando credito ad un racconto di Le Sage (Le diable boiteux, Il diavolo zoppo, scritto nel 1707) – uno che aveva letto maluccio il libro di Tobia – lo promuove a primo detective (scoperchiava e ci guardava dentro, violava la privatezza) – come serial killer, invece, ha fatto secchi tutti e sette i mariti della povera Sara prima che nessuno di loro, povera Sara, avesse potuto deflorare la moglie.
Ma – domanda – a chi possiamo retrocedere per scovare una femmina indagatrice? Nell'Antico Testamento è possibile individuarne una? Nel Nuovo no di certo, perché compito della donna – detto da San Paolo – era di stare in silenzio e non interferire. Nell'Antico, invece, poteva ancora capitare che allorquando le preoccupazioni del re Giosia cominciarono a farsi gravi e gravose in relazione ai numerosi peccati della sua gente chiese ai suoi collaboratori di consultare YHWH e costoro, non sentendosela di farlo direttamente, non vanno né da Geremia né da Sofonia (vivi, vegeti e operanti in loco), ma vanno da Culda, la moglie del guardarobiere Sallum, che abitava nel secondo quartiere di Gerusalemme. Culda – che in ebraico sta per “ratto” e che dunque non dice niente di buono sul suo potere attrattivo – annuncia sciagure a più non posso e la magnanimità di YHWH nei confronti del povero re Giosia – presumibilmente uccidendolo sul colpo – cui sarebbe stato risparmiato il castigo di vedere la desolazione del suo popolo. Culda è dunque una profetessa che riscuote un credito sociale notevole. In Dritto al cuore, il romanzo di Elisabetta Bucciarelli, una sorta di Culda c'è – ed è l'abitante della Casa (una maiuscola che, nominalizzando, impone rispetto e timore) – che come Culda è sufficientemente abile profetessa da risultare praticamente ininfluente. E dunque, non è a lei che viene affidato il ruolo investigativo.

3.
Da Il cervello delle donne di Louann Brizendine colgo alcune differenze fra maschi e femmine. Lo spazio cerebrale occupato dagli impulsi sessuali nei maschi è due volte e mezzo rispetto a quello delle femmine. Il cervello maschile pensa al sesso molte al volte al giorno, quello femminile tre o quattro volte nei giorni “focosi”. Più esattamente, ovvero numeri alla mano: l' 85 per cento dei maschi pensa al sesso ogni 52 secondi (tra i 20 e i 30 anni – ma conosco molto bene un'eccezione: un maschio di 68 anni che ci pensa più frequentemente). Tutti i cervelli fetali fino all'ottava settimana appaiono femminili. Dall'ottava settimana arriva il testosterone e avviene chiaramente la determinazione del sesso. Nelle femmine, nei primi tre mesi di vita, la capacità di contatto visivo aumenta di oltre il 400 per cento, mentre non aumenta affatto nel maschi. Da ciò lo sviluppo della capacità femminile di decifrare le espressioni del volto e i toni della voce – che spinge le femmine anche al primo atto di sudditanza, cioè a comprendere l'importanza dell'approvazione sociale. I maschi usano il linguaggio per impartire ordini, far eseguire compiti, vantarsi, minacciare. Ciò può essere correlato anche al fatto che il cervello maschile viene inondato da testosterone e questo li handicappa nella sfera sociale. Nei giochi, le femmine fanno a turno venti volte più spesso dei maschi.
Le aree del cervello che processano la parola sono più ampie nelle femmine che nei maschi. La capacità di processare parole determina il fatto che le femmine parlano prima, gestiscono più quantità di parole e sanno dirle più in fretta. Il testosterone testicolare, infatti, diminuisce l'interesse al dialogo e alla socializzazione – tranne che per lo sport (evidente palliativo) e, ovviamente, il sesso. Lo sfrondamento delle sinapsi in eccesso comincia prima nelle femmine che nei maschi. E, infine, va anche detto che – fuori e dentro la metafora – le femmine si svegliano prima dei maschi.
Ce n'è abbastanza per la giustificazione sociale della donna detective? Io penso che ce ne sia più che a sufficienza.
Margaret Rutherford nei panni di Miss Marple

4.
La detective dilettante era una tipica figura dell'ottocento inglese. Come quelle ideate da W. S. Hayward – in The experience of a Lady Detective (1861) e da Andrew Forrester in The Female Detective (1864). Senza aver letto la Brizendine, Forrester sosteneva che l'istinto investigativo fosse una qualità eminentemente femminile, perché le donne avevano l'opportunità di osservare “intimamente” i fatti e la capacità di decifrarli. Spesso, però, il detective femmina è moglie di un poliziotto – come la signora Bucket in Casa desolata, dove Dickens fa dire al marito che sua moglie è “naturalmente dotata di genio investigativo”.
Questo nell'Inghilterra vittoriana, allorché la donna doveva “stare al suo posto” e dove questo suo posto, sempre e comunque, doveva essere subordinato a quello del marito. Poi, però – con la maturazione di “anni ruggenti” raccogliendo i soliti spiccioli di elemosina di un'eredità femminista essenzialmente scialacquata – quella di fine ottocento come quella degli anni sessanta e settanta del novecento, peraltro –, poi, però, diventando più numerose le donne detective, subentra un analogo del celibato accademico – che chiameremo nubilato indagatorio – in virtù del quale la donna non distratta dal sesso o dalle incombenze familiari può dedicarsi alla speculazione intellettuale dell'indagine. Zitella (termine oggi connotato negativamente, ma non necessariamente perché ha la stessa origine di zizza, tetta, mammella – traslato alla fanciulla ed alla sua crescita anatomica e poi all'eternamente fanciulla) è l'infermiera Hilda Adams, detta mrs. Pinkerton, creata da Mary Roberts Rinehart nel 1925. Zitella è Leslie Maughan, creata da Edgar Wallace. Zitella è Sarah Kane, altra infermiera, creata da Mignon G. Eberhart nel 1929 (che, poi, crea anche Susan Dare, altra zitella). Zitella è Hildegarde Withers di Stuart Palmer - e Imogène di Charles Exbrayat e Elvire Prentice di M. B. Endrèbe che ne rappresentano la versione francese. Nel 1930, ne La morte nel villaggio era apparsa per la prima volta in romanzo miss Marple che, grazie alla crescente notorietà di Agatha Christie ne diventa il prototipo senescente.

5.
Femmina chi la racconta e femmina la raccontata è il caso costituito da Elisabetta Bucciarelli e la sua ispettrice Maria Dolores Vergani, ormai protagonista di tre o quattro romanzi e altrettanti racconti. Maria Dolores Vergani, il personaggio costruito da Elisabetta Bucciarelli, ispettrice, non è sposata (come Barbara Gillo, a carico di Rosa Mogliasso; come Grazia Bruni, a carico di Gianni Simoni, nella corte del giudice Petri – per citare alcuni analoghi letterari contemporanei). Per illustrare la sua sensibilità mi servirò di un unico episodio che traggo da Dritto al cuore. C'è un momento in cui lei, cercando di cambiare la piega che aveva preso una chiacchierata fra più persone, chiede: “cosa fai nella vita, Daniele?”, “Dipingo”, rispose lui lasciandosi portar via dalla discussione. “Un artista”, chiese la Vergani. E lo chiede senza punto interrogativo, faccio notare io: tirando dunque una conclusione. “Un pittore”, risponde lui. All'ispettore la risposta piacque molto. Ci fa sapere la Bucciarelli – che chiamo anch'io “la Bucciarelli” così come lei, nella circostanza, chiama “la Vergani”. Ora, a giustificare questo gradimento chiamerei in causa due ordini di motivi: il primo riguarda la correzione in quanto tale, segno di un'autonomia di pensiero, di una precisazione di termini; non l'accettazione passiva di una conversazione cui si dà così poco valore da non prendere in considerazione neppure la necessità di correggerne gli sviluppi. Se alla Vergani la cosa piace è perché ha stima del pensiero oppositivo – ha necessità di dialettica – e vive male, conseguentemente, in contesti – come quello dove lavora, nella polizia, per esempio – dove il lasciar correre viene premiato e la pausa sulla soglia della criticità viene sanzionato da stigmi sociali. Il secondo riguarda il valore della differenza così come è percepito dall'ispettore Vergani – quali connotazioni si trascinano dietro, per lei, artista e pittore – fermo restando che, comunque, il suo interlocutore è coerente, perché, prima, aveva detto che “dipingeva”. Nell'artista – non a caso usato spesso tra virgolette di ironia – c'è una potenzialità di inganno che nel pittore – più concretamente artigiano – non c'è. “Artista” – a volte tra virgolette, a volte senza – è stato chiamato chi ha compiuto un furto con particolare destrezza, “artista” è il truffatore, “artista” è il rapinatore e, per De Quincy (che scriveva L'assassinio come una delle belle arti nel 1827), è perfino l'omicida. Il sospetto nei confronti della categoria – così come aleggia nella mente della Vergani – è dunque ampiamente giustificato. Lei preferisce parole che designino chiaramente.

6.
Da una constatazione relativa alla sensibilità del personaggio si può passare ad una constatazione relativa alla sensibilità dell'autrice – per quanto lei si carichi direttamente degli oneri che le competono e non solo tramite la mediazione dei suoi personaggi. Allora – dando un seguito a una mia annosa ricerca di cui ho pubblicato di recente i risultati (cfr. Rossori. Viatico all'esercizio della colpa e della redenzione) – ho monitorato i rossori segnalati nel romanzo. Non si tratta di un calcolo vano: se uno scrittore “fa arrossire” un suo personaggio qualche motivo ci sarà: segnala un senso di colpa? Segnala una colpa? Segnala il timore di poter essere incolpato? Comunque, segnala uno stato di cui ci si vergogna e, al contempo, segnala qualcosa di sé, di cosa pensa che costituisca colpa e di cosa pensa in merito alla facoltà redentrice del rossore – segnala qualcosa, detto in altre parole, dei suoi valori. Orbene la Bucciarelli fa arrossire cinque volte, per un totale di quattro persone diverse – tre maschi e una femmina, una ragazza che arrossisce una volta sola e per il più candido dei motivi – l'amore inconfessato per un ragazzo. Notevole è sicuramente poi il fatto che ad arrossire due volte sia un tenente dei carabinieri – e non per sesso ma per omissioni...
Fra le tante disponibili, faccio solo due osservazioni. La prima. La differenza costituita dai valori assegnati alle parole (artista, pittore) viene sanata da un sapere che viene implicitamente assegnato al lettore – lo si chiama in causa affinché ci metta qualcosa di suo; mentre la differenza costituita dalle motivazioni viene sanata a vari livelli di esplicitezza (pulsioni sessuali e omissioni, in linea di massima, portano al senso di colpa). La seconda. La Vergani non arrossisce. Non tanto perché – come potrebbe essere il caso del Poirot del Mistero del treno azzurro – è eroe letterario senza macchia e senza paura – e, al massimo, “si sarebbe detto che arrossisse” ma non arrossisce –, ma perché la Vergani è eroe meno eroe e meno letterario pur non priva di retropensieri. Ha i suoi problemi ma è leale nel rapporto con l'altro.

7.
Con l'Indice di Cordier oso proporre uno strumento di valutazione dei romanzi gialli (ovvero basati sulla triade correlazionale di delitto-indagine-scoperta, o svelamento). Misura il grado di dipendenza tra narrazione e vita privata del detective. Il nome gliel'ho affibbiato sulla base della serie di telefilm dedicati al commissario Cordier. Dopo alcuni casi, infatti, avendo dotato il commissario di una famiglia allargata a moglie, figlia e figlio separato con fidanzate a ciclo continuo di alta innovatività (una per telefilm, quasi), ogni narrazione, prima o poi, prevedeva momenti d'innesco causati dal coinvolgimento personale di uno dei membri di questa famiglia. Senza questa famiglia – la famiglia del commissario – il tasso della delinquenza parigina sarebbe sceso vertiginosamente. L'indice di Cordier è dunque una misura del grado di evoluzione di una narrazione (si prenda il dr. House: la prima serie è incentrata su diagnosi relative ad altri personaggi, pian piano si è sempre più rivolta a diagnosi relative al dr. House medesimo o a persone della sua cerchia). Il tasso di informatività di una narrazione – la sorpresa che può suscitare e la capacità creativa del suo autore – è correlato all'indice di Cordier – più è alto e minore è il tasso di informatività e di creatività della narrazione. Con la Vergani, Elisabetta Bucciarelli è giunta alla quarta (quinta, sesta, settima) narrazione e qui, in Dritto al cuore, l'indice vibra pericolosamente verso l'alto – si veda le modalità del coinvolgimento dell'ispettore nella vicenda –, ma, in virtù di calibratissima sanatura conclusiva, chiude decisamente verso il basso. Fatto è che, la sanatura conclusiva di tutte le differenze che caratterizzano i paradigmi costitutivi della narrazione, è risolta nell'impersonalità – un'impersonalità durrenmattiana (mi riferisco al Durrenmatt de La promessa e de La panne, quello che sacrifica l'intera triade di delitto-indagine-scoperta del colpevole, l'intero “genere”, in un Requiem per il romanzo giallo). E qui, in questa riduzione al grado minimo di eroicità nella sanatura suprema, in questa moderatezza di ruolo e di toni, in questa distanza ricreata fra persone e vicende – in questa distanza ricreata al contempo fra letteratura e merce – sta tutta la consapevolezza politica che la Bucciarelli esprime con il suo romanzo.

Basil Rathbone nei panni di Sherlock Holmes

8.
L'impersonalità – e dunque la scarsa eroicità della soluzione conclusiva –, il fatto che la sagacia dell'ispettore Maria Dolores Vergani sia meno enfatizzata rispetto ai paradigmi letterari storicizzati fino quasi al punto di farle perdere la sua letterarietà trova piena corrispondenza nello stato di malessere – psicologico e fisico, convalescente anche per il termometro delle relazioni umane – della protagonista stessa. In ciò la Vergani riesce a iscriversi a un folto club di paralleli maschili. Non si può non notare, infatti, come nella cosiddetta letteratura di “genere” – nella fattispecie della letteratura basata sulla triade di “delitto-indagine-scoperta” –, l'eroe positivo, il detective, abbia perso in salute man mano che evolveva. S'invecchia, insomma, anche se si è vivi soltanto sulla “carta”. Anche qui, si potrebbe addebitare il fenomeno alla selezione darwiniana dei caratteri letterari. Dai primi eroi dell'acume agli attuali è tutto un peggiorare di cartelle cliniche. Mi si potrebbe obiettare che Sherlock Holmes era intossicato, ma è anche vero che fino a che è stato nelle mani di Arthur Conan Doyle, se la cavava benissimo. Il suo stato fisico e mentale stava in un rapporto direttamente proporzionale alla complicatezza dell'enigma che, per imperativo categorico kantiano, doveva risolvere. È soltanto molti anni dopo, nelle mani di Nicholas Meyer – con la sua Soluzione del sette per cento –, che incontrerà Freud – buono quello – nel tentativo di risolvere i propri problemi con la cocaina. Il Nero Wolfe di Rex Stout era obeso, mangiava e beveva a quattro palmenti ma ciò non impediva i suoi colpi di genio. Philo Vance di Van Dine fumava una sigaretta dietro l'altra ma problemi ai polmoni non ne ha mai avuti. E via così: la sanità fisica e morale introduceva alla serendipità. Da un po' di anni a questa parte le cose, in parte – in una parte significativa – sono cambiate. Il Martin Beck dei comunisti scandinavi Sjowall e Walhoo (siamo negli anni settanta del secolo scorso) passa più tempo nell'afflizione di un matrimonio fallito, nel rigirare la forchetta nella piaga di una comunicazione difficile con la figlia e nelle proprie malattie che non nelle indagini vere e proprie in cui è impegnato. Il suo emulo nordico di trent'anni dopo, il commissario Wallander di Mankell soffre più o meno degli stessi problemi – con una punta di diabete in più e conti non fatti con il padre. L'Erlendur Sveinsson dell'islandese Arnaldur Indridason vive sotto una cappa di cupezza inestinguibile causata, soprattutto da una difficile situazione familiare e da una figlia tossicodipendente. Il malinconico ispettore Morse di Colin Dexter – oltre ad un desiderio sessuale rigorosamente inappagato – ha il diabete e nessuna voglia di curarsi. Il giudice Petri di Gianni Simoni ha un enfisema polmonare, peraltro, e nessuna intenzione di smettere di fumare. Ancora più recentemente mi è capitato di imbattermi nel commissario Roberto Serra costruito da Giuliano Pasini (in due romanzi: Venti corpi nella neve e Io sono lo straniero), che, afflitto non poco da pene d'amore, si porta appresso il gravame di un passato di tragedia familiare e la presumibilmente conseguente malattia neurologica. Una specie di epilessia che lo costringe all'ascolto costante dei propri sintomi e che gli dona la facoltà, breve e luminosa, di vedere qualcosa con gli occhi degli altri. Lui la chiama la “Danza” – quella che l'epistemologo costruttivista Mauro Ceruti, nel 1989, avrebbe definito “la danza che crea” – ma nella casistica di un neurobiologo à la page potrebbe ben essere annoverata come un caso di neuroni-specchio estremamente sensibili. Qualche detective con la psoriasi o con la colite ulcerosa – anche se non lo conosco – ci sarà certamente. Ma, se le cose stanno così – e, di certo, alcune di queste cose stanno così –, c'è da chiedersi dove questo processo evolutivo ci porterà. Anche Darwin aveva finito con l'ammettere che, da un certo punto in poi della sua storia, l'uomo non è più soggetto all'evoluzione naturale, perché – come diceva il suo amico-nemico Wallace – l'invenzione dell'intelletto aveva reso superflui i mutamenti fisici. Allorché gli scrittori inventano, volenti o nolenti – consapevolmente o meno –, ma non possono che farlo in rapporto a quanti sulla medesima strada li hanno preceduti e, pertanto, variano. Apponendo variazione su variazione – non a caso, perché il clima ideologico è vincolo ineludibile – possono dunque giungere ben presto all'esaurimento del catalogo – o, almeno, all'esaurimento di quanto nel catalogo vale qualcosa in termini di mercato. Come c'è il momento in cui il detective femmina vale qualcosa, così ci sarà il momento in cui vale qualcosa anche il detective maschio malandato. Poi – di solito, subito dopo – ecco che vale qualcosa anche la femmina malandata. Ma il prontuario vendibile non è infinito e allora ecco la domanda più inquietante: ci sarà un momento in cui si ricomincia da capo? Ripartiremo presto dalla simbiosi di sanità e moralità? E, se sì, politicamente, quanto ci costerà?

Felice Accame

Note
Il cervello delle donne di Louann Brizendine è pubblicato da Rizzoli, Milano 2007 e ristampato più volte. Omicidio a Road Hill House di Kate Summerscale è pubblicato da Einaudi, Torino 2008. Per chi voglia avere un'idea chiara dell'Inghilterra della seconda metà dell'ottocento, prezioso è anche il secondo libro della Summerscale, La rovina di Mrs. Robinson (Einaudi, Torino 2013). Dritto al cuore di Elisabetta Bucciarelli è pubblicato da E/O, Roma 2013. Per molte informazioni sono debitore anche nei confronti di Il romanzo giallo di Stefano Benvenuti e Gianni Rizzoni, pubblicato da Mondadori, Milano 1979. Il mio Rossori, infine, è pubblicato da DuePunti, Palermo 2013.