rivista anarchica
anno 43 n. 383
ottobre 2013


 

Il futuro arcaico
di Mary Daly

“Teologia in lingua materna” l'ha chiamata Luisa Muraro: vale a dire una riflessione sulle categorie del religioso che prende avvio dall'esperienza della maternità, del rapporto madre/figlio, e quindi da una scrittura in cui un'esperienza vitale si fa conoscenza e pensiero mediante la lingua che impariamo a parlare per prima, nell'ascolto della voce materna; e poi da lì dire e parlare di Dio e di tutto il resto nella prossimità con l'essere corpo, con il groviglio di emozioni e sensazioni che ci abitano. Più prosaicamente i più ne parlano in termini di “teologia femminista”. Quale sia l'espressione che si preferisce, certo è che la teologia declinata al femminile è oggi uno degli ambiti più interessanti della riflessione religiosa, insieme a pochi altri (teologia del pluralismo religioso, ecoteologia, teologia animale), non a caso poco o punto frequentati nelle facoltà pontificie.
Colei che, nel nostro tempo, può essere a buon diritto considerata una delle iniziatrici di questo filone di ricerca è stata Mary Daly, figura purtroppo poco conosciuta al di fuori della classica nicchia di settore. Tratteggiamo, in breve, i momenti salienti della sua vita pubblica. Dopo aver compiuto rigorosi studi presso istituti cattolici negli Stati Uniti e a Friburgo, conseguendo i dottorati in teologia e in filosofia, iniziò a insegnare presso il Boston College, retto dai gesuiti, entrando ben presto in rotta di collisione – correva l'anno 1968! – con le autorità dell'istituto per la sua opera La Chiesa e il secondo sesso (in italiano nel 1982, presso Rizzoli). Ma il suo libro più famoso è senz'altro Al di là di Dio padre, del '73 (uscito in italiano nel 1990 per conto degli Editori Riuniti). La stessa autrice ebbe a dire in seguito che il titolo sarebbe potuto essere semplicemente Al di là di Dio; Daly mostra come la costruzione stessa di un divino trascendente crei simbolicamente una struttura piramidale in cui alcuni dominano e altri sono dominati. Non solo: con l'identificazione di Dio con il maschio tale gerarchia diviene sessuata, cosicché Mary Daly giunge a sostenere come la visione sessista della Chiesa sia connaturata alle sue premesse teologiche fondamentali. In tale saggio è contenuta la sua famosa affermazione: “se Dio è maschio, il maschio è Dio”, mostrando come la religione cristiana finisca per legittimare l'esercizio del potere maschile all'interno del nostro orizzonte sociale e culturale. Dal canto suo Mary Daly proponeva di non attribuire a Dio un'immagine fissa e oggettivante che ne ingessasse le potenzialità, bensì – distante da un Dio dalle sembianze antropomorfe – volle sempre riferirsi al divino non come a un sostantivo ma come verbo intransitivo che non ha fine, in continuo divenire, dunque fonte continua di vita e di trasformazione.
Successivamente Mary Daly si convinse che non era possibile eliminare le immagini maschili dalla parola Dio poiché l'ordine simbolico del cristianesimo risultava irrimediabilmente compromesso con i dispositivi oppressivi della società patriarcale. Pertanto intraprese l'esodo dal cristianesimo, rivolgendo la sua energia all'individuazione di un “futuro arcaico”, tutto al femminile, a cui attingere. Questo è il motivo di uno dei suoi ultimi lavori. Quintessenza. Realizzare il futuro arcaico (pubblicato da Venexia, 2005). Il testo si presenta con una struttura formale a cavallo tra il saggio e il romanzo: alcune donne che vivono nell'era biofila dell'anno 2048, grazie a un'energia femminile primordiale che rende possibile lo scavalcamento delle barriere spazio-temporali, richiamano Daly dall'anno 1998, affinché racconti loro del miserevole stato in cui vivevano le donne nella precedente era necrofila, dominata dal patriarcato. Questo testo, pur collocandosi in una prospettiva dichiaratamente post cristiana presenta comunque punti di contatto con la letteratura apocalittica, con il suo corredo di visioni (il tema del viaggio spazio-temporale), con il simbolismo numerico, con il principio-speranza che alimenta un presente irrespirabile.
Questa in sintesi, estrema sintesi a dir la verità, il percorso intellettuale di Mary Daly.

Mary Daly

Nel gennaio del 2010 Mary Daly è morta e nel maggio dello stesso anno, presso la facoltà valdese di teologia di Roma, si è tenuto un convegno in suo onore, con l'apporto del Coordinamento teologhe Italiane. Gli atti di questo incontro sono ora disponibili nel volume Un vulcano nel vulcano. Mary Daly e gli spostamenti della teologia (Effatà edizioni, Torino, 2012, pp. 112), curato da Letizia Tomassone. Studiose di religioni, filosofe e teologhe (fra cui Chiara Zamboni, della Comunità filosofica Diotima, Luciana Percovich, Elizabeth Green, oltre alla stessa Tomassone) riflettono e si confrontano, partendo da punti di osservazione differenti, su ciò che ha lasciato in eredità la studiosa americana e le vie di fuga che è possibile intravedere. Ma il libro si presenta bene anche come un'introduzione al pensiero della filosofa e teologa statunitense.
Qui, in conclusione, desideriamo compiere una breve nota a margine sui temi trattati nel volume, in punta di piedi, quanto lo consente lo spazio di una recensione.
Mary Daly in Al di là di Dio padre sosteneva che l'attuale regime sociale è opprimente non solo per le donne ma anche per gli uomini e che, di conseguenza, il cammino di liberazione riguarda entrambi i generi. Come annota E. Green nel volume, “il sistema simbolico cristiano è fonte, quindi, di una falsa coscienza femminile ma anche di una falsa coscienza maschile” (p. 41). In seguito Daly abbandonerà questo tipo di considerazioni compiendo il salto verso il separatismo femminista (verso cui alcuni degli interventi del volume collettaneo dissentono). Qui, per forza di cose, il commento è dalla parte maschile, la quale vede e sente con tutta la persona quanto vi è di insopportabile nel giogo patriarcale, ma sente al contempo come la possibilità dell'oltrepassamento si giochi in due. Non dobbiamo confondere la parte con il tutto; come scriveva a suo tempo Luce Irigaray: “la natura umana è due”, altrimenti rischiamo di ricadere in una sbrigativa visione dualistica (bene/male=femminile/maschile), del tutto simile a quella che Daly denuncia come tratto deleterio del cristianesimo. Come conclude il suo intervento la pastora e teologa Daniela Di Carlo, è bene “avere la consapevolezza che l'umanità racchiude in ciascuno dei due generi zone di ombra e di radianza” (p. 72). E da lì, provando a fare i conti, ripartire.
Premesso ciò, colpisce nella produzione di Mary Daly la capacità di procedere per sfondamento di orizzonti, creando nuove prospettive e nuovi piani, anche sul piano linguistico (sarebbe auspicabile che prima o poi qualcuno si cimentasse a tradurre il suo Wickedary del 1987 – “dizionario assolutamente geniale quanto intraducibile”, afferma L. Percovich nel volume). Un esempio: Daly parla di futuro arcaico, scaturito da una fuoriuscita dal tempo lineare con la sequenza ordinata passato-presente-futuro, proponendo una diversa visione in cui nel presente possono emergere le forze del passato che a loro volta spalancano verso un futuro altro rispetto a quello previsto e prevedibile. In ciò molto simile al futuro primitivo di John Zerzan, tanto criticato anche nell'area libertaria; con la differenza che Daly attinge al passato del neolitico e dell'età del rame (l'epoca della società matrifocale e del culto della dea, quella indagata da Marija Gimbutas, per intenderci), mentre Zerzan va ancora più indietro, sino al paleolitico delle società di raccoglitori-cacciatori, laddove non è ancora sopraggiunta quella separazione dalla natura da parte dell'essere umano, da cui si origina tutta la genealogia del dominio che attraverso vari e complessi passaggi giunge a noi. Il tutto non per una pulsione regressiva, ma verso un andare avanti ben differente dall'idea di progresso dei vari pianificatori, degli esegeti della governance e dei futurologi di turno.

Federico Battistutta



Un mosaico
di ricordi

La prima volta che conobbi Gaetano, il principale personaggio de Il sabotatore di campane (Edizioni Spartaco, Santa Maria Capua Vetere, 2013), il testo ancora era adagiato su un comodo formato A4, tenuto insieme da una spirale blu e andava a finire in modo diverso da quel che ora leggerete nella versione definitiva.
Ho avuto il piacere di poterne discutere con l'autore prima ancora che il libro prendesse la sua forma definitiva e il privilegio di seguire un processo creativo proprio sul più bello di ogni storia... ovvero su come poi andrà a finire. Già allora avevo trovato questo lavoro ambizioso, con una storia accattivante, costruita come un mosaico di ricordi, aneddoti con espliciti richiami a fatti realmente accaduti ed epoche realmente trascorse, riportati alla luce tramite il personaggio principale, ma anche sapientemente costellato di innumerevoli altre figure, archetipi e intrecci che lo rendono letterariamente avvincente oltre che di stimolante velata critica ai tempi moderni.
Gaetano è figlio di un padre anarchico, cresce in un piccolo paesino ma poi si crea un vissuto intenso, ricco di incontri ed esperienze legate ad un'epoca storica ricca di eventi, di figure e di tanti dolori che fanno di lui ora un uomo con un unico obiettivo, una sorta di missione speciale: sabotare tutte le campane delle chiese, per impedire loro di suonare. Un gesto simbolico, in parte in memoria del terribile eccidio avvenuto nel '44 da parte dei fascisti, in cui solo il prete si era salvato proprio perché complice, in parte perché legato al ricordo di un maestro di pensiero e di vita, Libero. Tra i vari campanili che vorrebbe imbavagliare, quello di Roccapelata, un anonimo paesino in autentica via di estinzione, dove la gente se ne va o muore e dove non succede mai nulla di eclatante... tanto che sindaco e assessori, perfetta incarnazione del politico medio di un'Italia corrotta e sopita, si prodigano e si arrovellano da tempo sul come rianimare con un fatto sensazionale, posto poi su un piatto d'argento, l'interesse speculativo sul paesello.
Nella buia notte in cui Gaetano prevede di mettere a tacere le campane di Roccapelata però qualcosa va storto; il sacerdote lo scopre e, durante l'animata discussione, scivola, batte la testa e muore. Gaetano decide di costituirsi, è vecchio e stanco; si dichiara subito colpevole. Ma il paese non vuole lasciarsi sfuggire un'occasione del genere. Un fatto di cronaca nera così grave è proprio ciò di cui ha bisogno per far parlare di sé a livello nazionale. La fame di fama è troppo acuta per essere messa a tacere con la verità scomoda e per nulla sensazionale, almeno per la stampa. Così a poco a poco tutti rivelano, chi in questura, chi direttamente ai giornali, fatti e testimonianze che, oltre alla confusione, portano la quasi totalità degli abitanti nel registro degli indagati. E finalmente il paesino riempe le sue stanze d'albergo sempre vuote con telecamere e giornalisti. Fino all'assurdo, ma che così assurdo poi non è. E l'unico, solo, vero colpevole non viene tenuto in considerazione, anzi, viene accusato di volersi fare pubblicità, voler coprire qualcuno, o essere pazzo.
Paolo Pasi, già autore di diversi romanzi, giornalista e assiduo collaboratore di “A” rivista anarchica, con questo suo ultimo romanzo rende omaggio e riporta alla luce, tra le righe, tutto un mondo estremamente affascinante e al contempo ai più dimenticato o sconosciuto, ascrivibile nel portato della cultura e della storia libertaria, che rimanda a tanti personaggi anarchici e situazioni passate, a lui e a noi care che fanno magistralmente capolino fra i ricordi, i parenti e i vissuti del vecchio Gaetano, che un po' fa commuovere, un po' fa sorridere e un po', mentre ci racconta una storia anarchica, ci fa sognare, ma sopratutto ricordare.

Gaia Raimondi



Contro il gigante,
le micro-pratiche

Più che un'introduzione per profani al post-anarchismo, una summa divulgativa: l'ultima fatica di Michel Onfray, Il post-anarchismo spiegato a mia nonna (Elèuthera, Milano, 2013, uscito in Francia nel 2012 per le Editions Galilée) è una sorta di manifesto programmatico (del post-anarchismo o di Onfray stesso?), un agile pamphlet scritto brillantemente da un comunicatore abile, ricco di asserzioni e propositi militanti, ma che non lascia spazio per analisi e approfondimenti.
Il filosofo francese offre una serie di imperativi: bisogna fare piazza pulita del vittimismo, abbandonare la “sinistra del risentimento”, i pensatori mummificati, i testi ottocenteschi citati come un vangelo anarchico e mettere in discussione i dogmi della dottrina (lo stato è davvero il male assoluto? Le elezioni sono sempre delle trappole?). Più in generale, bisogna dequalificare la teoria tout court, che tenta di piegare il reale a sé anziché comprenderlo, e abbandonare la morale del principio, da Platone a Kant. “D'altronde, se il principio non funziona, poco importa: è il reale che ha torto, mai il principio”, commenta sarcasticamente Onfray.
In opposizione all'anarchia del risentimento derisa da Nietzsche, vittimista e rancorosa, e all'anarchia dell'utopia, passiva e anti-pragmatica, il filosofo francese propone una post-anarchia positiva, pratica, immanente, esposta attraverso il “principio di Gulliver” (perché non di Lilliput?), ovvero: il gigante va affrontato attraverso una serie di micro-pratiche, dall'istruzione popolare alla disobbedienza civile, perché “se ci sarà la rivoluzione non arriverà dall'alto, ma dal basso, in modo immanente, contrattuale, capillare, rizomatico”.
La prima parte del libello è strettamente autobiografica: la genealogia di un carattere antagonista.
Secondo Onfray non si diventa anarchici con lo studio o la lettura che risveglia le coscienze, o per lo meno non in prima istanza. La condizione prima è “una ribellione istintiva nei confronti dell'autorità”, un concetto che solletica la vanità e la pancia di tanti libertari viscerali (come la sottoscritta). I toni brillanti e una scrittura mai monotona rendono estremamente piacevole la lettura di questo “autoritratto con bandiera nera”, dall'iniziazione intellettuale, avvenuta nella bottega di un barbiere “alquanto atipico” che gli fa scoprire Volin alla creazione dell'Università popolare di Caen, una delle scelte di vita pratiche e militanti (come quella di non candidarsi alle presidenziali o di non vivere a Parigi) che Onfray rivendica con orgoglio e una punta di autocelebrazione.
La seconda parte è meno aneddotica e più operativa. Si inizia mettendo ordine nella biblioteca, decidendo cioè quali padri dell'anarchismo sono stati effettivamente tali e quali sono invece da destituire. Nel mare magnum del pensiero anarchico Onfray sceglie senza tentennamenti chi salvare e chi buttare agli squali. Salva Proudhon, vero padre, secondo lui, dell'anarchia positiva (riprendendo soprattutto la sua tesi contro “l'albinaggio capitalista”) e, naturalmente, Etienne de la Boétie. La prima testa a cadere è invece quella di Stirner, solipsista immorale e intransigente (al contrario di ciò che pensa Saul Newman, che lo vede come un anticipatore del post-strutturalismo – con il quale però Onfray è in sintonia per quanto riguarda la simpatia nei confronti di Nietzsche). Si prosegue poi con Bakunin, sanguinario e neo-hegeliano; Godwin, troppo messianico; Tolstoj, a cui un convinto razionalista come Onfray non può certo perdonare la fede cristiana.
Se i suoi giudizi, per quanto suffragati da attente letture, ci appaiono un po' tranchant, non dobbiamo dimenticare che abbiamo a che fare con un pensatore che ama fare filosofia con l'accetta, abituato ad attaccare i nemici teoretici anche sul piano personale. Si pensi ad esempio all'invettiva anti-freudiana (in parte, a onor del vero, condivisibile) de Il crepuscolo di un idolo (2010), in cui il povero Sigmund viene definito “cocainomane”, “onanista” e “incestuoso”.
Dopo essersi divertito a smontare la “chiesa anarchica” con la gioia sadica di un bambino che distrugge un castello di sabbia, Onfray torna alle proposte costruttive, legate alla dimensione del quotidiano, alla micro-politica che agisce per il qui e l'ora, oltre la critica fine a se stessa, oltre ai dogmi: un pensiero libertario contemporaneo che ha fatto i conti con Nietzsche e la French Theory. In sostanza, senza ambizione di esaustività didascalica rispetto a ciò che rappresentano il post-anarchismo e il post-strutturalismo, Onfray ha l'indubbio pregio di mantenere vivace il dibattito, facendo anche proposte interessanti, e ben rappresentando lo spirito anti dogmatico del post-anarchismo. Nel farlo però mette molta carne al fuoco, che in queste 90 pagine non ha modo di essere trattata con sufficiente profondità. Tra le questioni messe in campo, uno degli aspetti più controversi e opinabili è sicuramente l'analisi troppo sbrigativa del capitalismo: “un modo di produzione delle ricchezze” da non confondere con il liberalismo: “un modo di ripartizione delle ricchezze”. “Per questo”, sostiene Onfray, “potrebbe esistere un capitalismo libertario, proprio come c'è stato un capitalismo sovietico o come c'è un capitalismo ecologico, verso il quale sembra che ci stiamo dirigendo”.
Insomma, nella stesura di questo vivace manifesto gli approfondimenti teorici sono stati delegati altrove, alla riflessione del lettore, magari. Indubbiamente si tratta di una lettura avvincente e che stimola il dibattito, ma che a mio parere lascerà la nonna di Onfray con non pochi dubbi irrisolti.

Laura Antonella Carli



Nessun genere
di autorità

Il nuovo libro di Luisa Muraro, Autorità (Rosemberg & Sellier, 2013, pp.128, € 9,50), è un testo che si definisce incompiuto, una sorta di bozza pittorica di un quadro da costruire.
A dire il vero, l'autrice da molti anni si occupa di riflettere attorno al tema dell'autorità materna, e credo che chiunque abbia iniziato da giovane a leggere i testi del neo-femminismo italiano non possa non aver almeno sfogliato L'ordine simbolico della madre.
Dunque l'autrice sembra volersi tutelare da alcune, seppur scontate, ficcanti obiezioni al tema proposto, critiche alle quali neppure questa recensione vorrà sottrarsi, tentando di evitare banalità di senso comune.
Muraro cerca di riconsiderare l'opinione diffusa che vede autorità e autorevolezza come due poli non comunicanti di una radice comune, sottolineando che la caratteristica etimologica dei termini riguarda piuttosto l'autore o l'autrice, come soggetto “autorevole”.
Pur comprendendo la necessità di riscrivere significati in significanti esistenti, con un legittimo ricorso a fonti scientificamente fondate quali l'etimologia, penso che Deleuze avesse ragione a sostenere che se una parola diventa oscura o obliqua, sia meglio inventarne una nuova. Autorità è un termine nato etimologicamente per significare qualcosa di diverso (quanto diverso?) dall'utilizzo odierno, tuttavia questo approccio non è sufficiente ad evitare di fare i conti storici e politici con il suo attuale significato. A voler essere precise, “autorità” è una pratica, non un mero termine o un significato. L'autorità esiste nel momento in cui essa esercita il suo ruolo dominante in relazioni asimmetriche e diseguali, condizione necessaria per la sua attivazione.
Se esiste, com'è vero, un problema niente affatto banale con le prospettive egualitarie – spesso di maschi liberi ed eguali, in una fondazione escludente di donne libere ed eguali – trovo da sempre piuttosto scivolosa l'opposizione, impropria, tra differenza ed eguaglianza, poiché nella mia esperienza di donna ho visto molte, troppe volte la sua ricaduta sensibile nella diseguaglianza (l'etimologicamente più corretto contrario di eguaglianza).
L'autrice, inoltre, non sembra esente da alcuni autoritarismi formali, quando gerarchizza chi conosce e chi non conosce la “verità” dell'oggetto della discussione. Un esempio, o due a riguardo: “Quando, ai luoghi comuni della nostra cultura scarsa e confusa circa il senso dell'autorità, si somma la repulsione personale, la mente deraglia”; “I ribelli per partito preso non sono le persone più temibili per i detentori del potere, non più delle persone perbene che si sentono male all'idea di trovarsi nell'illegalità. Tutti costoro, per un verso o per l'altro, che sia per trasgredire o che sia per obbedire, attribuiscono alle leggi più significato di quello che hanno e inconsapevolmente aspirano a essere comandati da un potere assoluto” (il corsivo è mio).
Com'è evidente, queste frasi malcelano un chiaro esercizio di autorità e di potere, espresso in modo un pochino ipocrita: sebbene sia Muraro a voler salvare il ruolo dell'autorità nella nostra società (a scuola, nelle organizzazioni collettive e sociali, in famiglia), chi si macchia realmente della colpa – perfino inconscia! – di desiderare la sottomissione al potere assoluto sono coloro i quali lottano contro di esso con “troppa” veemenza. È un sofisma antico, perdurante in particolare nei gruppi di colonizzatori: la colpa della violenza esercitata dal gruppo dominante sul subalterno sta nell'esercizio di resistenza di quest'ultimo... come a dire, non è colpa nostra se vi uccidiamo, è colpa della vostra resistenza che ci costringe a difenderci.
Et voilà, l'autorità come pratica, anche concettuale.
“Penso, per i paesi occidentali, alle rivolte giovanili di mezzo secolo fa, che ebbero tanti aspetti fra i quali una definitiva contestazione dell'autorità dei padri e dei professori. Ciò non significa che allora tutto sia andato per il meglio ai fini della conoscenza e della libertà (...) sarebbe fuorviante assumere che la cancellazione dell'autorità sia come tale proficua o benefica (...) come si fa altrimenti a educare i più giovani, a insegnare, a fare un minimo di ordine nella vita associata, a organizzare un'impresa difficile?”.
Potrei rispondere, brevemente e con un pizzico di sarcasmo, che molte anarchiche e anarchici di epoche passate, presenti e forse perfino future, avrebbero molto da insegnare a Luisa Muraro!
E non solo in tema di pedagogia libertaria, ma di sperimentazione sociale anti-autoritaria, organizzazione collettiva senza stato, economie alternative anticapitaliste, relazioni egualitarie tra i generi (che non significa che siamo tutti uguali, con alcuni più uguali di altre), convivenze antispeciste eccetera.
Mi torna alla mente la sconfitta dei Consigli di fabbrica degli anni venti del secolo passato, e Malatesta che ammoniva dall'arrestare la radicalità della lotta, pena pagare con interessi eccezionali la repressione. Fu il fascismo, all'epoca. Malatesta parlava con esperienza profonda delle connessioni di potere, evidenziando quanto l'autorità e il potere fossero esattamente il gancio al quale la feroce risposta autoritaria allacciò le sue dure catene.
Negli anni settanta, per riprendere una frase anonima ma autorevole del maggio francese (senza autore e autrice, un'autorevolezza “informale”, vergata sui muri parigini), si iniziò a capitolare quando la rivolta cominciò a cedere “un poco”. È possibile chiedersi quanto abbia aiutato le donne cedere un poco all'autorità materna nelle riflessioni e pratiche di liberazione, ad esempio disperdendo il cammino indispensabile verso la sperimentazione del rifiuto delle relazioni di potere e autorità, che tanto ancora nuocciono e hanno fatto male alle relazioni tra donne.
Purtroppo non si è approfittato della differenza, ma imitato l'ideatore “autoritario” maschile.
Credo che sia davvero il momento di instillare un dolce nettare di anti-autoritarismo e libertà in tutte quelle prospettive di liberazione – femminile, maschile, di ogni specie o provenienza geografica – che oggi sono urgenti come l'aria da respirare.
Forse, per risolvere il dilemma “autorità sì, un poco/autorità no, per niente”, si potrebbe proficuamente leggere di nuovo lo spinoziano Deleuze. Cito a memoria: “Bisognerebbe dire che ogni tristezza è un nostro difetto di potere. Non esiste 'potenza' cattiva, se è cattiva è il più basso grado di potenza, e il più basso grado di potenza è il potere. Cos'è infatti la cattiveria? È impedire a qualcuno di fare ciò che può, di realizzare la sua 'potenza', così non c'è potenza cattiva, ci sono cattivi poteri. La confusione tra potenza e potere è rovinosa perché il potere separa sempre, la gente, ogni cosa. Il potere separa la gente da ciò che essa può”.

Martina Guerrini



Lo “sguardo perso”
di Simone Weil

La clown di Dio. A dispetto del titolo piuttosto bizzarro e delle aspettative di ilarità dell'incipit, la lettura del breve saggio di Monica Cerutti Giorgi (Edizioni Zero in Condotta, Milano 2013, pp. 105, € 8,00), risulta piuttosto ardua. Si legge: “Divertitevi! Divertirsi è cosa molto seria; richiede abbandono e impone disciplina. È una vera passione! Spossante, non c'è che dire: non so come, tanto meno perché, ma c'è gusto”.
Al termine della lettura – e concluderla è già un bel traguardo – più che divertiti, si arriva spossati. Ancora: “Qualcun altro ha esclamato: Convertitevi! No, dico: Ricreatevi e divertitevi”. Le esortazioni dell'autrice, purtroppo, non sono accompagnate da uno stile agile, accattivante, coinvolgente, intrigante. E forse questa è la grande pecca. Pertanto, sarebbe stato interessante riuscire a restituire quella leggerezza – propria di una clown di Dio – capace di trasportare su questioni serie, ma con il giusto distacco. In questo caso, il sano divertimento sarebbe stato assicurato e il pubblico di lettori potenziato e appagato.
Tuttavia, con sforzo empatico si può entrare nell'orbita dell'autrice e lasciar fluire, a nostra volta, quei rimandi che la lettura stessa, comunque, suscita. Anche perché l'idea generatrice è degna di interesse.
Monica Cerutti Giorgi dipinge una clown goffa, strampalata, scoordinata. Un'aria estraniata dallo sguardo perso. Maldestra e ironica verso la sua fragilità, ma permeata da una grazia intima, pura. Pensatrice poetante. Visionaria. Creatura celeste. Profeta del presente. Indomabile. Ma è ancora più curioso se in quei panni misteriosi troviamo M.lle Simone Weil. A Le Puy, quando si mette alla testa del movimento dei disoccupati, è la Vergine Rossa. Oppure per strada è l'Anticristo. Ma farebbe pensare anche a una moderna Pulzella d'Orléans. Lei è una paracadutata sulla scena del mondo da un Dio acrobata che la caccia per amore. Nella vivace colorata grafica di Mariella Bernardini, la funambola dai tondi occhialetti da miope, “in divisa scura da operaia-miliziana anarchica” rimane sospesa. I fili la trattengono, mentre dietro, nell'alone dai contorni di luce c'è ancora lei, estranea e altra da sé. E questa prospettiva inedita di Simone Weil risulta davvero accattivante.
Tuttavia, la scrittura di Monica Giorgi andrebbe ulteriormente alleggerita da virtuosismi e dotata di maggior chiarezza, ritmo e colore. In tal caso, si potrebbe prestare a una riscrittura per la scena teatrale, a più voci. Ma presupporrebbe sempre un lettore-spettatore disposto a farsi agile acrobata, per seguire senza perdersi la labirintica traiettoria tempestata di concetti densi, concisi, ripresi, sospesi. Pena l'abbandono della scena. Infatti, l'autrice si accorda con lo stile da equilibrista della scrittura weiliana e ci restituisce un altro concentrato, un altro distillato puro. Da sorseggiare, con calma, a piccole dosi. Giorgi gioca con la prospettiva straniante della clown di Dio. Coglie ironia, humor, leggerezza che albergano negli scritti e nel temperamento di Simone Weil, la toccata da Dio, dalla follia d'amore. Davvero una mancanza che la scrittura del saggio non riesca a rendere questa leggerezza!
L'ispirazione latente è dichiarata nelle note: “Prendere sul serio quella dose di follia che ci è riservata nelle intuizioni più felici”. Con riferimento a uno scritto freudiano, è il sottofondo che accompagna la scrittura del saggio. L'autrice individua “il tratto d'inizio alla vita simbolica” fin dai primi scritti.
Ancora bambina, la trasformista clown di Dio si cuce addosso il costume di un lutin du feu, piccolo demone alla buona, scherzoso, capace di rendere ridicole le cose serie. Arma tuttavia capace di trasformare l'ingiustizia in giustizia, la follia in verità.
Ma lei è anche un fruit foll, frutto bacato, umile. Tuttavia capace di una conoscenza immediata, intuitiva. La sventura, la mancanza, diventa un eccesso di ricchezza. Perché i folli hanno un bisogno distruttivo: fame e sete di giustizia. Hanno fame d'amore. Così si fa complice degli ultimi, dei diseredati e invita ad ascoltarli nella loro verità.
Anche negli scritti della maturità, Giorgi coglie l'intuito profetico, e quella dose di follia che fa abbandonare lo slancio intellettualistico per fare esperienza fisica, esserci in presenza. Entrare dentro le cose. Per essere e sapersi operaia, oppure contadina, ri-orienta i fili del suo paracadute per approdare nella bellezza dell'esperienza in fabbrica e di vendemmiatrice. Non basta.
Durante la crisi dei Sudeti, la filosofa militante vuole essere dentro lo scenario, paracadutata a Praga dove erano in corso scontri tra polizia e studenti. Prevalgono i doveri verso l'essere umano. Intuisce la forza dell'azione. “Parto per la Spagna”. Vuole vivere la vita, alla ricerca della verità dentro l'esistenza. L'intellettuale interventista sceglie di esserci tra gli operai e i contadini nelle loro rivolte sociali. Si arruolerà nella Colonna Durruti, sul fronte di Aragona, durante la Guerra civile spagnola. E, in seguito, in piena guerra elaborerà il “Progetto di una formazione di un corpo d'infermiere di prima linea” ispirato e agito sui dettami della più lucida delle follie: l'Amore. Servono fatti. L'arma vincente è la forza spiazzante del coraggio unito alla tenerezza materna. Le donne farebbero in campo quello che hanno da sempre saputo fare: esercitare il potere della cura. Simone Weil da donna ha saputo proporre un modello femminile di follia d'amore, come risposta alla ferocia inumana sul fronte dell'immaginario bellico maschile.
La prospettiva dalla quale l'autrice guarda alla clown di Dio consente di riconsiderare la peculiarità del sentire, esserci, amare propria del femminile. Peculiarità che va accolta per l'insita potenzialità di creare le condizioni per una vita più autentica, dotata di significati profondi, la cui verità è visibile nell'operosità dell'azione.
Per Mara Paltrinieri, nella sua nota conclusiva al saggio, Simone Weil, insieme a Etty Hillesum e Marìa Zambrano... obbedendo alla legge dell'amore sono le vincitrici della Seconda guerra mondiale. Si potrebbe aggiungere anche Frida Malan, figlia di un pastore evangelico valdese. Paracadutata al di qua delle Alpi, nelle Valli Valdesi sulla scena della follia della guerra, rappresenterebbe l' emblema di un passaggio di testimone anche nel dopoguerra. Come in Simone Weil il suo amore per la giustizia non è disgiunto dalla libertà. E l'azione si rende concreta nella realtà delle piccole cose, dove è racchiuso tutto il grande sentire dell'amore. Amore, contagio benefico. Motore propulsivo dell'umanità.
Il saggio suscita un'altra sollecitazione. Poiché “i piani del paracadute non vanno a senso unico”, siccome alla follia della guerra si può contrapporre la follia d'amore, quale altra eredità ci viene lasciata oggi dalla clown di Dio? All'inizio del terzo millennio, il paracadute sospeso e distaccato aleggia sulla follia dell'edonismo consumistico. Ognuno è chiamato a dare il proprio libero consenso a un amore folle, capace di uscire dagli schemi precostituiti, che fagocitano tutto e tutti nel loro ingranaggio perfetto. Per tradursi in azioni concrete fatte di piccole cose, ma dalla forza straordinaria capace di grandi cambiamenti sorprendenti e incredibili, condizione per un nuovo umanesimo civile. E, per quanto possibile, con leggerezza. Proprio come tanti lutin du feu, e tanti fruit foll, sulle orme delle capriole della clown di Dio. Perché l'idea generatrice è originale e invita a sua volta a riflessioni che consentono di vedere oltre. E questo è il merito del saggio.

Claudia Piccinelli



Sindacalismo rivoluzionario
a Torino, un secolo fa

Mi fa piacere segnalare il bel libro Il sogno nelle mani. Torino 1909-1922 che, come recita il sottotitolo, raccoglie passioni e lotte rivoluzionarie nei ricordi di Maurizio Garino, edito da Zero in Condotta (Milano, 2011, pp. 261, e 15,00).
Frammentariamente pubblicate e utilizzate, le memorie di Garino (1892-1977) che venne intervistato da Marco Revelli nel 1975, ci riportano con vivace immediatezza ad un periodo cruciale della storia del movimento operaio italiano del quale Garino stesso, come sindacalista e anarchico, fu protagonista e testimone di primo piano, attraversando tempi di rivoluzione, riformismo e reazione.
Appare fuor di dubbio che, come ha osservato Marc Bloch, è necessario sempre tenere di conto la “plasticità della memoria”, in quanto questa agisce da meccanismo potente in grado di rielaborare e potare i ricordi; ma, non di meno, “la storiografia – riprendendo Carlo Ginzburg – può alimentarsi nella memoria, perché le memorie sono un documento storico, nel momento in cui vengono trascritte oppure registrate al magnetofono, dalla persona in questione oppure da un terzo. E la memoria può trarre alimento dalla storiografia: si legge un libro di storia e magari si integrano in maniera consapevole o inconsapevole i propri ricordi”.
Quella “vecchia” intervista tra Garino e Revelli, ossia tra chi aveva fatto la storia e chi cercava di recuperarla, conferma proprio questa reciprocità, a sua volta integrata, precisata e sviluppata da ulteriori documenti, riflessioni e ricerche a cura di Tobia Imperato, dedicatosi per anni a questo progetto, nonché di Guido Barroero, Maurizio Antonioli, Cosimo Scarinzi. Inoltre vi è stato aggiunto un ormai raro contributo di Pier Carlo Masini su anarchici e comunisti nel movimento dei Consigli a Torino.
Gli avvenimenti, le persone, le questioni e i conflitti che emergono dal racconto di Garino, anche se circoscritti ad un periodo limitato e per lo più relativi al contesto torinese, sono innumerevoli e in grado di aprire utili porte per quanti studiano quel decisivo passaggio della storia sociale; ma, a mio avviso, quella più stimolante – anche per coloro che di solito non si appassionano alle vicende passate della lotta di classe – riguarda la quotidianità vissuta da Garino assieme a migliaia di compagni di lavoro e di rivolta nei luoghi di socialità e aggregazione nei quartieri proletari: luoghi non meno importanti, per implicazioni e sviluppi, dello spazio della fabbrica, allo stesso tempo coagulo di antagonismo ma anche di alienazione.
E anche Cosimo Scarinzi sottolinea, da parte sua l'importanza di questa “ricostruzione dell'intreccio fra formarsi di una generazione militante, lotte di fabbrica, comunità operaia e proletaria sul territorio, dialettica fra culture politiche” in questi luoghi, fossero i Circoli socialisti, quelli libertari di Studi sociali o le Case del popolo: tutti accomunati da frequentazioni simili, trasversali ai “partiti sovversivi”, e in grado di produrre sia relazioni personali che, attraverso strutture di autoformazione come la Scuola Moderna, saperi da condividere in modo orizzontale e consapevolezze di un'altra condizione umana.
Le descrizioni di questi ambienti che Garino ci offre, valgono più di ogni attuale astruso dibattito sull'identità perduta della sinistra e meritano d'essere parzialmente anticipate: “fondai con altri giovani compagni, tra cui il povero Ferrero, il Circolo di Studi Sociali, cioè la Scuola Moderna [...] il programma delineato in quei tre punti: lotta sindacale, lotta politica e lotta culturale... erano tre temi che spingevano avanti per far crescere la coscienza socialista negli operai [...]. Allora c'era quel tipo di operaio lì, che dopo dieci ore di lavoro aveva ancora la forza di venire al Circolo a discutere di Marx, di Bakunin, di Stirner. Su cento ne troviamo cinque che erano così, che sapevano perché Stirner era in disaccordo col comunismo, e con tutte le altre forme di collettività. Ma c'erano! Io questo problema me lo sono posto varie volte; secondo me era la sostanza che derivava dalle lotte mazziniane fatte nel secolo precedente, che rimaneva ancora [...]. Credo che questa parola, volontarismo, spieghi tante cose. Ecco perché “Quello sa questa cosa, io non la so! E allora mi faccio avanti”. E uno con l'altro ci si formava una coscienza. Naturalmente molti operai andavano a giocare alle bocce [...]. Noi ci occupavamo anche di poesia, si declamava”.
E, all'interno di questi luoghi, punto di riferimento per i lavoratori torinesi, ma anche immigrati dal resto della regione e non solo (come la consistente comunità operaia proveniente da Piombino), si andarono maturando scelte radicali individuali e collettive in grado di mettere ripetutamente in crisi il potere politico ed economico, attraverso pratiche di lotta portate avanti in prima persona dai lavoratori che si sentivano in grado di soppiantare in tutto e per tutto il padronato e i governanti, occupando fabbriche e dando vita a scioperi insurrezionali.
Non casualmente, a Torino, il sindacalismo rivoluzionario si dimostrò a lungo forte, ben oltre la sua rilevanza numerica, tanto da influenzare e condizionare pure altre tendenze (basti pensare a Gramsci che ebbe a definirlo come “l'espressione istintiva, elementare, primitiva, ma sana della reazione operaia contro il blocco con la borghesia e per un blocco coi contadini”); emblematica a proposito l'ammissione di Garino che pur era stato un dirigente della Fiom: “Noi eravamo per l'azione diretta, eravamo un pochettino soreliani, in sostanza. Non tanto, eh!”.

Marco Rossi



Ripensare il cibo
(pensando ai bambini)

Cake book (traduzione italiana: Il libro delle torte, pp. 28, euro 14,00) è la settima uscita del catalano Martí Guixè per la casa editrice mantovana Corraini Edizioni, che propone libri e opere grafiche di artisti e designer contemporanei (tra cui Bruno Munari), nonché narrativa e libri educativi per bambini. Cake book si situa in una terra di nessuno, dove l'età ha a che fare più che altro con lo sguardo. Con una radicalità di approccio agli oggetti. Qui, a chiedere di essere ripensato tout court, non importa se da un bambino o da un adulto, è il food.
Ventotto pagine in brossura per un “draw here” (“crea qui” in senso lato) che non ha niente a che vedere con i classici albi da colorare destinati ai più piccini. In realtà Cake book è una bella sfida: difficile per i piccoli, quasi impossibile per i grandi. E tuttavia una sfida intrigante, ironica, raffinatissima, che vale la pena di cogliere. Una sfida utile, che fa appello all'originalità oltre i condizionamenti.
“Ex-designer” per sua stessa definizione, Martí Guixè (classe 1964) ha studiato interior design a Barcellona e industrial design al Politecnico di Milano ed è uno dei più interessanti critici dello styling contemporaneo. Si ostina infatti a credere che l'oggetto non sia una funzione e basta, ma possa e debba farsi nostro attraverso “brillanti e semplici idee di una curiosa serietà”. Una specie di rivoluzione, insomma. Che presuppone consapevolezze elitarie. Di gente libera, ben distante dagli intruppamenti odierni.
Il tema del cibo rientra negli interessi di Guixè dal 1995 e la sua, a mio modo di vedere, è una scelta di campo molto opportuna, di un eccezionale portato simbolico. Si pensi soltanto, per esempio, al dibattito tuttora in corso sugli ogm. Ma anche, per restare in un ambito legato all'infanzia, al problema del sovrappeso dei bambini e degli adolescenti.
Cos'è il cibo? Qual è l'immaginario che vi associamo? Di più: esiste in merito la possibilità di un immaginario “altro”? Guixè parte per il suo viaggio con bagaglio leggero e antenne speciali, e sfoglia l'argomento con acume e gentilezza. In Cake book il suo tratto sembra dire: “Coraggio, perché non tiri fuori qualcosa di te? Divertiti!”.
Un imperativo davvero molto impegnativo, perché se Cake book richiede una partecipazione attiva da parte dei fruitori (un'idea ormai consolidata nell'editoria per bambini), gli spunti proposti – numerose varietà di dessert, tovaglioli, alzatine, bicchieri privi di qualsiasi connotazione – possono perfino dare il panico.

Emanuela Scuccato



Cinema/
Nero su bianco

Analizziamo l'ultimo film di Quentin Tarantino, il western (anzi, southern) Django Unchained, ovvero l'epopea di uno schiavo nero nell'America pre-guerra civile che viene liberato da un cacciatore di taglie bianco contrario alla schiavitù, il quale diventa il suo mentore e lo aiuta a liberare la moglie ancora in catene.
È possibile considerarlo un film del filone “black image in protective custody”? È questo il titolo di un saggio del critico americano Ed Guerrero, in cui, riferendosi ad una serie di buddy movies degli anni ottanta – film con protagonista una coppia solitamente mal assortita, ad esempio poliziotto e criminale che gli deve dare una mano o poliziotto serio e poliziotto scapestrato – egli analizza l'immagine del personaggio di colore di volta in volta protagonista di questi film. Per citarne due su tutti, enormi successi commerciali di Eddie Murphy di inizio ottanta: 48 ore e Beverly Hills Cop. In queste pellicole il protagonista nero è sempre “accompagnato” da dei bianchi. Nel primo caso, il rude poliziotto Nick Nolte che costringe il galeotto Murphy ad aiutarlo in una caccia all'uomo; nel secondo, i simpatici e un po' pasticcioni poliziotti di Beverly Hills Reinhold e Ashton che devono controllare le mosse di uno spericolato detective di Detroit – sempre Murphy.
In questi film, sostiene Guerrero, il personaggio nero è inserito in un discorso narrativo che ne consente l'emersione come “eroe” (o anti-eroe che però aiuta l'eroe [48 ore]) solo a patto di essere la spalla o avere come spalla dei bianchi che rappresentano il sistema. Questi sono infatti poliziotti, e anche se rudi come il Nolte di 48 ore sono comunque la Legge – “il bene” – che dà la caccia ai fuorilegge –“il male”. Quando anche Murphy è un poliziotto, lui è lo sregolato e tocca ai pazienti cops bianchi stargli dietro come babysitter. È come se questi film dicessero: “ti lascio emergere, ma decido io dove collocarti e ti tengo d'occhio”.
Dei discendenti, se vogliamo, del capostipite del genere blaxploitation, Shaft il detective, nel quale il protagonista Richard Roundtree, un investigatore privato di colore, si destreggia tra poliziotti bianchi che se lo tengono buono per sapere cosa succede nel ghetto e mafiosi neri che lo vogliono assoldare per una missione. Il poliziotto bianco Charles Cioffi è qui un italoamericano bonaccione che “vuole impedire un bagno di sangue ad Harlem”, e alla fine, pur facendo a modo suo, Shaft gli dà la dritta su dove trovare i criminali (o quel che ne resta) da lui cercati. In altre parole, collabora con l'autorità. Ancora una volta l'outsider nero in realtà non mette in discussione veramente le regole del sistema.
È possibile inserire Django Unchained all'interno di questo filone ideologico? A mio avviso, no.
In Django la spalla bianca dell'eroe è il raffinato quanto letale cacciatore di taglie Cristoph Waltz.
Tedesco, emigrato in America dopo aver abbandonato la sua professione di dentista per cercare fortuna come bounty hunter, il dottor King Schultz – questo il nome del personaggio di Waltz, con richiamo immediato a Martin Luther King – dall'inizio alla fine del film uccide schiavisti bianchi, libera schiavi neri (tra cui Django, interpretato da Jamie Foxx) e impartisce lezioni di classe (e cultura) a feroci e ignoranti proprietari di piantagioni. Quanto di più lontano dai poliziotti che cercano di contenere e “normalizzare” i blacks con cui hanno a che fare visti all'interno delle pellicole precedenti.
Il dottor Schultz libera, acquistandolo, Django, ma contestualmente uccide anche i suoi padroni bianchi. La conquista della libertà è battezzata nel sangue, e sangue continuerà a essere versato per tutta la durata del film dall'eroe nero e dal suo mentore bianco. Sangue di schiavisti ma anche di “semplici” fuorilegge, perché il dottor Schultz, e poi lo stesso Django quando si unirà a lui come aiutante, in quanto cacciatore di taglie è un “rappresentante del sistema penale degli Stati Uniti d'America”. Anche lui quindi, come i poliziotti bianchi trattati in precedenza, è un pezzo del sistema e, culmine del paradosso, lo stesso ex schiavo nero Django lo diventerà (come l'Eddie Murphy poliziotto di Beverly Hills Cop). Ma, a differenza dei buddy movies degli anni ottanta, o di Shaft, qui il bianco che rappresenta la Legge offre al nero la possibilità di farsi una coscienza sulla canna del fucile, e di prendersi qualche bella rivincita sui suoi oppressori.
Schultz non controlla e non contiene Django, anzi, gli permette finalmente di esplodere e scatenare la sua giusta ira.
La prima esecuzione di Schultz che vediamo è inoltre quella di uno sceriffo. Tarantino qui impallina il western classico e “all american” alla John Wayne e si mette decisamente dalla parte degli anti eroi, tutti bastardi che non cercano gloria, di leoniana memoria, da Per un pugno di dollari a Giù la testa.
Quando poi Schultz, discutendo con Django le sue prospettive future, gli dice che per l'ex schiavo, “libero o no”, sarebbe comunque troppo pericoloso andare in Mississippi, ci troviamo di fronte a un'aperta critica al sistema, che pure viene “usato” da Schultz. L'emancipazione formale offerta dalla legge attraverso l'acquisto monetario della libertà è in realtà ben poca cosa rispetto alle condizioni reali del contesto sociale in cui Django si muove, e in cui il razzismo è endemico e strutturale, perché a fondamento dello stesso modo di produzione di quell'epoca – e cioè a fondamento della fortuna economica dell'America stessa, che le permetterà di affermarsi come superpotenza di lì a qualche decennio. Un pezzo di carta attestante il proprio status di “uomo libero” non protegge certo dalle pallottole dei razzisti bianchi.
In una sequenza molto divertente, membri del Ku Klux Klan vengono raffigurati come bambini scemi e capricciosi. Questa sequenza avrà certo sollevato critiche da parte degli adepti del politically correct, per i quali sarebbe stata probabilmente più corretta una rappresentazione disumanizzante dei membri del Kkk, ma in realtà essa coglie nel segno, perché ci mostra benissimo i tratti caratteristici dell'atteggiamento razzista, stupidità e ignoranza, e li mette alla berlina.
E alla berlina, in Django, viene messo l'intero sistema socio-economico-culturale basato sullo schiavismo. Non solo i bianchi, ma anche i neri collaborazionisti. Dagli Head house nigger – il personaggio di Steven interpretato da uno strepitoso Samuel Jackson, più fedele di un cane al suo padrone, e infatti sarà lui a smascherare Schultz e Django penetrati in incognito a Candyland, la piantagione dell'orrendo schiavista Di Caprio – ai negrieri neri, come il personaggio che Django deve interpretare per intrufolarsi a Candyland dove è tenuta ancora in catene la sua amata.
È tutto il sistema che deve saltare, compresi e forse in primis quei neri che lo fanno funzionare seppellendo la propria coscienza e vendendosi al padrone bianco per un piatto di lenticchie un po' più grosso di quello che viene dato agli altri.
E infatti alla fine Django, pur avendo già liberato la moglie, torna a Candyland per uccidere tutti, e in modo più doloroso degli altri Steven, e far saltare in aria tutta la baracca.
Anni luce di distanza, quindi, dagli stereotipati e innocui buddy movies degli anni ottanta, o da quello Shaft in cui un nero apparentemente supercool semplicemente manipola ma non sovverte le regole di quel gioco che lo vuole comunque subalterno al potere bianco.
E infine, anche la critica a Tarantino da parte del regista black Spike Lee, autonominatosi portavoce dei neri con una coscienza, secondo cui Django Unchained sarebbe insultante nei confronti della “sua” gente perché la schiavitù fu un olocausto e non uno spaghetti western, non regge. Perché è una critica ancora tutta interna al politically correct e alle rappresentazioni cinematografiche che evidentemente, secondo Lee, dovrebbero esserne imbevute, mentre Tarantino se ne frega come se ne è sempre fregato, intuendo che, forse, ammantare di “correttezza politica” la rappresentazione della violenza del sistema è il miglior modo per nasconderne le contraddizioni e, quindi, perpetuarlo.

Michele Lembo