rivista anarchica
anno 43 n. 385
dicembre 2013 - gennaio 2014


potere e movimenti/3

Mediterraneo, America Latina e Sudafrica

di Antonio Senta


Anche nei paesi non occidentali, in apparenza meno colpiti dall'ultima crisi economica, la lotta di classe dei ricchi contro i poveri è ugualmente dispiegata. E dalla Turchia all'Egitto, dal Sud America al Sudafrica esplodono le proteste.


Tutto il mondo sta esplodendo...”
Canzoniere Pisano (1971)

La parte occidentale del mondo, scrivevo nel n. 383, ha visto negli ultimi decenni affermarsi politiche di austerity, espressione di quella lotta di classe dei ricchi contro i poveri, contro cui si sono alzate proteste di diversa entità. Di alcune di queste ho sommariamente scritto nel n. 384 (novembre).
Questa tendenza si riscontra in molti altri paesi non occidentali che presentano caratteri economici diversi, e in alcuni casi anche una crescita sostenuta, stando ai criteri relativi al prodotto interno lordo. Paesi che i media descrivono come assai meno colpiti dalla crisi rispetto all'Europa o agli Stati Uniti, ma dove la lotta di classe dei ricchi contro i poveri è ugualmente dispiegata. Più che di crisi dovremmo probabilmente parlare allora di trasformazione dei processi internazionali di accumulazione del capitale, laddove il capitale per vivere – cioè per produrre, sfruttare e ricavare profitto – deve necessariamente modificarsi, aggredendo sempre nuovi e ulteriori spazi, materiali e immateriali. A tale politica di espansione ampi movimenti popolari rispondono con quelle mobilitazioni e proteste che abbiamo visto in azione negli ultimi anni e mesi.

Il popolo di Taksim

La Turchia dal maggio del 2013 è teatro, nella quasi totalità delle sue province, di una estesa e complessa sollevazione popolare, contro la crescente oppressione, la censura, le restrizioni, lo sfruttamento sempre più selvaggio, caratterizzata da una partecipazione di massa che di fatto emargina avanguardie e burocrazie politiche. Secondo le stime della polizia, sono circa due milioni e mezzo le persone che nei mesi scorsi sono scese nelle strade, in gran parte giovani digiuni di partecipazione politica, a indicare una significativa pluralità, anche in termini di classe (cfr. Fazila Mat, Il popolo di Taksim, Un caleidoscopio di voci, balcanicaucaso.org e Dario Antonelli, Terra bruciata, “Umanità Nova”, 23 giugno 2013, p.1).
I manifestanti mettono in campo un insieme di pratiche di resistenza, anche creative e ironiche, con in prima fila, spesso, le donne pronte ad alzare la testa (Buyun Egme! questo lo slogan di molte di loro) contro una società apertamente maschilista (Sara Datturi, Le donne di Istanbul alzano la testa, “Il Manifesto”, 5 giugno 2013, p. 9). A settembre il movimento è ancora in pista, la lotta contro la devastazione del parco cittadino di Taksim si è trasformata in un movimento di protesta contro un progetto che prevede la costruzione di due grandi strade nelle vicinanze dell'Università Tecnica del Medio Oriente (Odtü) che dividerebbero in due il campus che si trova all'interno di un'estesa area verde e forestale, distruggendo oltre 7000 alberi (Dario Antonelli, Settembre rovente. Turchia si riaccende la protesta, “Umanità Nova”, 22 settembre 2013, p. 1).

Rio de Janeiro, dimostranti in corteo: “Finché il popolo
non sarà trattato con giustizia non ci sarà pace”

Brasile, Cile, Colombia...

Cambiamo emisfero. Il Sud America è un continente in mobilitazione, dove l'accumulazione attraverso lo sfruttamento umano e ambientale procede a ritmi serrati, spesso anche grazie alla legittimità popolare di cui godono i governi progressisti, che nella loro azione stanno incorporando alcune istanze dei movimenti (a volte attraverso una effettiva anche se parziale redistribuzione della ricchezza), neutralizzandone i caratteri più antisistemici.
Pensiamo al Brasile di Lula, all'Uruguay di Tabaré Vasquez, all'Argentina dei Kirchner, alla Colombia “bolivariana”, al Venezuela di Chávez, all'Ecuador di Lucio Gutiérrez.
Dal cacerolazo venezuelano del 1989 attraverso la rivolta dell'acqua di Cochabamba nel 2001 e la Comune di Oaxaca nel 2006, le popolazioni latinoamericane si sollevano e insorgono in maniera regolare e continua influenzando in parte l'agenda dei governi all'interno di un rapporto complesso di confronto, scontro e cooptazione (cfr. Raúl Zibechi, Territori in resistenza. Periferie urbane in America latina, Nova Delphi, Roma, 2012).
Citiamo qui solo tre casi eclatanti e recenti.
In Cile nel corso del 2011 gli studenti danno vita a una campagna di massa e radicale per il diritto all'istruzione gratuita, mettendo in discussione la credibilità e le scelte ultraliberiste del governo Piñera. Nonostante la repressione poliziesca vari altri settori della società si uniscono alla protesta e obiettivi sociali e ambientali si sommano e si confondono in una serie di mobilitazioni che vanno dalle proteste contro l'aumento del gas a Punta Arenas alle manifestazioni contro le centrali idroelettriche dell'HidroAysén in Patagonia. Lavoratori, disoccupati, comunità mapuche sono tutti in piazza a dare battaglia contro il modello neoliberista, in un'esplosione di rabbia contro un governo che difende gli interessi delle imprese e le oligarchie al potere (cfr. ad esempio Hervé Kempf, In Cile, la primavera degli studenti, “Le Monde Diplomatique”, ottobre 2011, p. 1).
In Brasile i fatti sono noti: nel giugno 2013 un aumento dei costi del biglietto dell'autobus, contestuale alle enormi spese sostenute dal governo per l'organizzazione dei Mondiali di calcio del 2014, provoca prima una serie di proteste e poi dà il via a un'escalation di manifestazioni e cortei inizialmente a San Paolo, poi a Rio de Janiero e infine in molte altre città. I testimoni parlano di una mobilitazione estesa e radicata, come dimostra il fatto che ancora a ottobre il paese è attraversato da cortei e proteste di vari settori sociali, tra cui gli insegnanti e i lavoratori del mondo della cultura.
In Colombia dal 19 agosto 2013 vari settori sociali tra i quali quello dei contadini e degli allevatori, ma anche degli autotrasportatori e dei lavoratori nella sanità, sono i protagonisti dell'ondata di scioperi più estesa degli ultimi vent'anni. Nel mirino sono gli effetti deleteri dei trattati di libero commercio e l'aumento del prezzo del carburante (per approfondire si può partire da: Gerardina Colotti, Sciopero agrario a oltranza e Sciopero generale a oltranza, “Il Manifesto”, 22 e 31 agosto 2013; La Rivoluzione della ruana, www.operazionecolomba.it/colombia/1675-la-rivoluzione-della-ruana.html)

Egitto e Tunisia

Tanto si è scritto sulle rivolte che stanno scuotendo gran parte del mondo mediterraneo, penisola araba compresa. Una fase di fibrillazione sociale che fa pensare, tenuto contro di tutte le differenze, a un nuovo '48, cioè a quelle ribellioni e insurrezioni popolari che scossero l'Europa a metà dell'ottocento da Dresda a Berlino, da Roma a Lione. Su questo mi permetto di fare riferimento al mio articolo pubblicato sul n. 379 della rivista (Nel mezzo del cammin...) il cui schema interpretativo mi sembra sempre valido. Le primavere arabe hanno dei caratteri comuni tra cui la giovane età di molti partecipanti e l'esistenza di problemi sociali ed economici di enorme grandezza (Pierre Sommermeyer, La modernité à l'assaut du monde arabe, “Réfractions”, primavera 2012, p. 22). Se in un primo momento le rivendicazioni religiose erano sostanzialmente assenti e i gruppi politici legati a personalità religiose rivelavano un atteggiamento attendista, ora il quadro è indubbiamente mutato e autorità religiosa e potere militare, nemici di sempre delle istanze di rinnovamento, si manifestano apertamente. La difficile lotta per migliori condizioni di vita e contro regimi oppressivi delle libertà fondamentali prosegue in una via stretta tra questi due fuochi.
In Egitto, l'esercito, forte del supporto statunitense (che gli versa 1,3/1,5 miliardi di dollari annui), ha utilizzato strumentalmente nuove proteste popolari scalzando gli islamisti al governo. I “nuovi” generali al potere, al vertice di una struttura militare che ha in mano il 35 per cento dell'economia, sono fautori di un modalità di governo non meno oscurantista di quello di cui hanno dato prova i Fratelli musulmani.
In Tunisia invece le forze pulsanti della società che stanno dando vita a un processo rivoluzionario pronto a vivere nuove fasi hanno come primi nemici della propria liberazione gli islamisti al governo.
Mi sembra curioso il fatto che molti commentatori, che hanno abbracciato con entusiasmo la causa delle rivoluzioni arabe nel 2008, oggi le rigettino con decisione perché le proteste sarebbero state strumentalizzate dalle forze islamiste o militari. Il punto, penso, è che ci sono forze contrapposte in campo: alcune si mobilitano per una trasformazione sociale, più o meno radicale, altre utilizzano strumentalmente tali mobilitazioni e si fanno trovare pronte alla gestione del potere, ricalcando le precedenti politiche dittatoriali contro cui le popolazioni si erano ribellate.
Da una parte ci sono i lavoratori del tessile che hanno per primi piantato le tende in piazza Tahrir nel 2006, dall'altra prima i leader dei Fratelli musulmani e poi i generali dell'esercito.
Così in Tunisia: da una parte i venditori ambulanti, gli occupanti di case e le donne, dall'altra i vertici di Ennhada che hanno occupato la poltrona che era di Ben Alì.
Quindi tanto in Egitto quanto in Tunisia i frutti della liberazione non si trovano nelle strutture di governo, ma nelle abitudini e nell'immaginario collettivo di gran parte della popolazione, così come nella creazione di gruppi e movimenti che hanno nella partecipazione diretta la propria caratteristica (Per qualche osservazione, parziale, sulla situazione in Tunisia, cfr. Uno spaccato a due anni dalla caduta di Ben Alì, “Invece”, p. 9; Philippe Pelletier, El auge del movimento anarquista en Túnez, “Tierra y Libertad”, p. 16).

Conflitto sociale esteso

Andiamo, infine, in Sudafrica, paese il cui prodotto interno lordo cresce nel 2013 quasi del 5 per cento. Qui il massacro di Marikana dell'estate 2012 e la mobilitazione dei minatori (cfr. nn. 375-376 della rivista) sono l'iceberg di un conflitto sociale esteso anche ad altre categorie.
A più di un anno di distanza le agitazioni per il lavoro non si fermano: a esserne protagonisti sono ancora i minatori a cui si aggiungono, ora, gli operai delle industrie automobilistiche, delle compagnie aeree e del settore edile. A inizio settembre 2013, ad esempio, mentre si conclude vittoriosamente un grande sciopero degli operai impiegati nelle industrie di assemblaggio delle grandi compagnie automobilistiche con aumenti salariali del 30 per cento, scendono in mobilitazione gli addetti alle riparazioni e i benzinai delle stazioni di servizio, in tutto circa trecentomila lavoratori.
In generale gli scioperi e le agitazioni coinvolgono centinaia di migliaia di lavoratori, ottengono spesso aumenti salariali, e preoccupano non poco padroni e governo tanto che sui media sudafricani continuano a comparire articoli che analizzano i danni materiali e di immagine che gli operai arrecherebbero al paese (cfr. mg.co.za).

Antonio Senta

Le due precedenti puntate di questa serie di Antonio Senta su “potere e movimenti” sono apparse nei numeri di ottobre (“A” 383 - La lotta di classe dei ricchi contro i poveri) e novembre (384 - Volontà di rivolta).