rivista anarchica
anno 44 n. 386
febbraio 2014





Un ballo al confine del mondo

Sentili. Senti come sono diversi, eppure senti come sono sempre uguali.
Vi avevo già presentato su queste pagine molto tempo fa i Marmaja (“A” 287, febbraio 2003) raccontandoveli come un'accozzaglia sodale di musicisti marginali, piuttosto selvatici e ruvidi sì ma dal cuore grande. Nonostante la distanza importante da allora, l'impressione complessiva che ne ricavo oggi non è affatto cambiata. Sono convinto che sia uno spreco il mettersi lì a rimuginare sospirando su come passa il tempo, ma lo faccio adesso anche se sarà senza rimpianti e solo per qualche riga. Sono stati anni di cambiamenti e di maturazione, questi. Per loro, e anche per me. Anni di abbandoni a volte travestiti da partenze e viceversa, di facce nuove e di catastrofi inattese. Anni di primavere che arrivano in ritardo ed estati lunghe infinite con in mezzo un riempimento nebbioso di giorni pesanti portati in spalla verso sera, finiti e poi ricominciati uguali. Immersi nella noia della provincia immobile e impegnati in corse a perdifiato dietro ai figli che crescono, non ci si è messi mai a contare tutte le cadute rovinose e tutte le volte che ci si è rimessi in piedi, quasi che questo rialzarsi sia stato non una fatica ma il nostro carburante e il nostro sole, forse (volendo sorridere con poco) il nostro sport preferito o più semplicemente uno scherzo del destino, che va preso così come viene.
Se ci si ferma alla superficie dell'ascolto, dei Marmaja dei primi lavori in questo cd Come le pagine dei libri letti appena uscito (Latlantide, 2013) c'è dentro davvero molto molto poco (ed ecco perché li chiamavo “diversi”, giusto a inizio pagina). Abitano suoni diversi qua dentro, c'è un'aria diversa in queste canzoni nuove. Eppure a guardar bene di loro – di quella gente, di quei ragazzi d'una volta – c'è tutto. Proprio tutto. Partiti da casa vent'anni fa con una valigia ciascuno stracolma di futuri da afferrare e di buone intenzioni, i Marmaja degli esordi sapevano trovare pagliuzze d'oro nei suoni del loro Polesine e le trasformavano in canzoni da regalare in giro: musica fatta senza preoccupazione se chiamarla folk o rock o chissàchecosa, fatta riflettendo sì ma senza sragionare su questioni di integrità di repertorio né perdendo tempo e fiato a discutere di coerenza e correttezza politica. Il bello dei Marmaja era che cantavano di se stessi e della loro grande famiglia così come ne erano capaci. E mica se ne stavano lì fermi, comparse per i documentari inchiodati a un tavolo del bar del paese a bere bere bere e commentare le notizie sul giornale locale e la roba che passa la televisione: stipata l'attrezzatura in un paio di macchine eccoli dopo il lavoro all'entrata dell'autostrada per andare a suonare lontano, a macinare chilometri convinti di essere nel giusto, a pugno chiuso e muso duro. Hanno scavalcato spesso il Po con un balzo a rubacchiare melodie ferraresi con la scusa del Buskers Festival, sono venuti col treno del mattino a Mestre per leggere i volantini distribuiti fuori delle fabbriche di Porto Marghera, te li ritrovavi a inizio autunno lì a raccontare fiabe e magie ai bambini tra le castagne del Montello, hanno cantato a Fano per gli atei e nel cinema parrocchiale, sono andati a suonare a sud, in montagna, in riva al mare.
Sono stati dovunque qualcuno li abbia chiamati. Negli autogrill e nei centri sociali, con la corrente elettrica oppure senza, a celebrare nomi grossi come Fabrizio de André e Rino Gaetano e Piero Ciampi, così come a ricordare un amico anonimo morto di eroina oppure un partigiano con addosso un nome di battaglia che trasmetteva messaggi radio in codice.
Maurizio Zannato

Non c'era (ne c'è mai stata, aggiungo adesso rivedendo il testo) alcuna pretesa di apparire, di diventare, di convincere o incantare. Le canzoni dei Marmaja sono trasparenti come storie semplici, sono prese dalle pareti di casa e dalle finestre spalancate e dalla bocca dei vicini e dalla polvere della strada, racconti in forma di scampoli colorati cuciti assieme in una bandiera che comprende tutte le bandiere del mondo. C'era una volta e c'è anche adesso la Resistenza raccontata da chi c'era dentro con la voce malferma, e quel tremore assomiglia proprio a quello che incrina la voce di chi è scappato via da chissà quale Bosnia personale per rifugiarsi in questa periferia grigia. C'è l'umidità del Polesine stretto tra Adige e Po che si confonde con quella che abita negli occhi di chi viene qui per sopravvivere ma non capisce quando gli si parla, sangue dello stesso colore che scorre sotto pelle colorata in infinite gradazioni, oppure di chi ha perso l'amore – riccioli neri.
La storia piccola scritta con la esse minuscola da mille e mille mani, fatta di libri letti e di ritagli di giornale e delle parole di tuo padre e tua madre, quella fatta dei sogni traballanti e sfocati dei più giovani e dei ricordi inossidabili e irraccontabili dei vecchi, che troppo hanno già visto.

Guido Frezzato

Vent'anni di strada, percorsa in velocità e spezzata da frenate brusche e soste non volute. Fermarsi per forza, allontanarsi, perdersi e poi ritrovarsi. Il loro primo disco In tel vento sonà è ancora coi piedi piantati nell'altro millennio, sulla copertina il ritratto del tappo di una bottiglia di vino fatto in casa mica quello che si vende al supermercato, riferimento esplicito ad un'allegria che è anche una maledizione, questione di dosi e testardaggine. Seguono l'ambizioso Il metro dell'età (2002), l'introspettivo terzo album omonimo (2004) e il quarto Punta Maistra (2007) mai stampato e diffuso a gratis via internet. Ma a parlare di loro solo attraverso i lavori pubblicati si racconta solo una parte minima della storia, perché restano fuori le decine di demo e registrazioni casalinghe fatte per gli amici e i compagni, e soprattutto una presenza forte, costante, importante. Le cento e cento feste celebrate insieme sul sagrato e sui palchi fatti a forma di marciapiede, le partecipazioni all'ultimo momento senza il nome oppure col nome aggiunto a pennarello sui manifesti, la musica che hanno saputo portare a matrimoni, manifestazioni di piazza, raduni e funerali, strette di mano e abbracci forti che vorresti non finissero mai.
Ascoltando Come le pagine dei libri letti ci si convince che l'erba che cresce in Polesine sia verde e rigogliosa e soprattutto buona, molto buona. In Come le pagine dei libri letti c'è una canzone che sembra rubata a Manu Chao: è così bella che mi auguro presto se la riprenderà e la porterà via in giro per il mondo. In Come le pagine dei libri letti Faber fa rima con Berlinguer: una rima annodata posticcia ed improbabile sì, ma suona così bene che il cuore si stringe per queste assenze. In Come le pagine dei libri letti suonano e cantano, riconoscibilissimi anche se non presenti nei crediti, Fernanda Pivano, Joe Strummer e Pier Paolo Pasolini. Un'opera caratterizzata da un sorriso irriducibile e sfottente, uno sputo sulla brutta faccia liftata imbrillantinata del ventennio di buio e oppressione che sta sempre per finire e, cazzo, che ancora non finisce. Un ballo al confine del mondo, sopra a una musica che non abbassa lo sguardo ma che sa ridere sguaiatamente di se stessa, e mostra le rughe del viso senza vergogna. E soprattutto senza paura.
Se guardo bene, in copertina ci sono anch'io che canto. E ci sei anche tu, guarda.
Contatti: marmaja.net.

Marco Pandin