rivista anarchica
anno 33 n. 287
febbraio 2003



a cura di Marco Pandin

 

Cani sbandati e senza dio

Non hanno un’immagine pubblica accettabile: facce che non vanno bene alla tv, sguardo di sfida che non si abbassa, impossibili da intrappolare in belle foto, barba non fatta, spettinati, nomi comuni poco esotici, vestiti come capita. Hanno idee precise e confuse che rotolano fuori dalla bocca impastate di polemica e rabbia e mancanza di rispetto, tradotte in suono da voci cartavetrate che si scavalcano e sgomitano e cambiano volume, inadatte alle interviste.
Metto in piedi con un paio di compagni un loro concerto, si raccolgono soldi per Emergency. E loro? Loro arrivano in ritardo, e comunque mai tutti assieme perché partono dopo il lavoro, e ognuno fa un lavoro diverso e magari i turni. Riescono a sbagliare piazza in un paese lungo da qua a là che di piazze ne ha solo due, e si perdono senza che ci sia nebbia a cinquanta metri dal luogo dell’appuntamento che è in piazza dietro il municipio, non s’erano perduti neanche i cecoslovacchi e quegli altri dall’Estonia che era la prima volta che spingevano il culo fuori dalla loro isba e venivano da ’ste parti, e loro invece che si perdono a neanche trenta chilometri da casa. Ma chi se ne frega, ci siamo persi, e allora? Ma vaffanculo.
Poi, finalmente, eccoli indaffarati a ridere e cazzeggiare, a masticare parolacce mentre scaricano amplificatori e tamburi, flight case ripieni di chitarre e ghironda e fisarmonica, un contrabbasso, e poi borse e altre borse piene alla rinfusa di strumentini, pifferi e cosettini che sembrano giocattoli e che magari lo sono, che servono solo per fare un beep o un ting o un bang in una canzone, o forse no, li si è portati via per niente perché non c’è un arrangiamento stabile né una vera e propria scaletta. Si suona a braccio, si improvvisa, dipende dall’estro, dall’aria che si respira, dalla gente che viene, da come va. Chissà.
E anche se hanno passato ore ed ore in cantina a organizzare il loro repertorio, ma sì, non importa. Magari ci sarà posto, stasera, anche per una vecchia canzone ascoltata una volta alla radio e mai provata. Magari viene qualcuno che si conosce e che s’è portato dietro una chitarra, e si fa qualcosa assieme. Chissà cosa succederà stasera. Chissà.
Guardali là, sul palco incasinato come un mercato povero, a discutere e a inciampare sui cavi dei microfoni per terra un po’ come serpenti di plastica nera e rame. Si sono portati da casa una bottiglia di vino che in breve sparisce e gliene serve un’altra, benzina per la mente, dai, ed il soundcheck scivola via a scatti come sabbia in un ingranaggio. Non importa, si va, si va. Ci si interrompe, si ride, un altro bicchiere. Si va. Chissà.
Marta, mia figlia, sorride di meraviglia alla vista di tutto quel ciarpame e spalanca gli occhi in un’altalena tra me che le sto vicino e loro lì sul palco. Scioglie adesso il sorriso seguendo sottovoce la canzone che stanno provando. La conosce, le piace. La conosco e piace anche a me. Ci stringiamo le mani.
Amo questi compagni, amo questa loro spontaneità, i loro sorrisi sinceri e l’ombra di sospetto e incredulità che gli abita sempre nello sguardo. Amo questa precarietà che non ha paura di affiorare, di mostrarsi. Amo lo stile musicale ladro e riciclatore che fa sembrare i loro concerti una coperta fatta di lane dai mille colori che una volta erano maglioni o calze o chissà cosa, proprio come quelle coperte che avevo in casa quand’ero piccolo.
Amo i loro occhi in bilico perenne tra la commozione e lo sberleffo, amo le loro indecisioni e la loro fermezza. Amo il loro carattere duro poco incline al compromesso che mi ricorda la determinazione dei compagni di lavoro di mio padre che venivano dalla campagna, abituati a dividere le giornate tra la vigna ed i campi di grano da coltivare e il CVM da insaccare. Si va, si va. Un altro bicchiere, un’altra canzone.
Il carattere, ecco. È stato proprio il loro brutto carattere che li ha condannati a non essere riportati nelle cartografie musicali ufficiali, e men che meno in quelle alternative: non amano gli steccati né le definizioni stilistiche, e fanno una musica che a volerla spiegare non è abbastanza folk, né abbastanza rock, insomma non abbastanza identificabile per poter essere proposta ai lettori d’un giornale senza passare per un sacco di esempi chiarificatori ed espliciti perché, meno male, la loro musica assomiglia a dozzine e dozzine d’altre musiche.
Troppe, per poter dare un’idea concreta: un magma ribollente di influenze, citazioni e parodie, bolle sonore che scoppiano lasciando nell’aria un’impressione colorata di Goran Bregovic, la voce di uno strumento che viene da chissà dove, un odore leggero di Gang, un ricordo vagamente new wave di vent’anni fa, una frase melodica che riporta alla mente la curva dolce dei capelli di Fabrizio De André, l’eco di qualche bestemmia in un pub o in un bar fumoso e le grida al mercato o in pescheria, un rumore sordo come di tuono lontano, come uno scoppio al petrolchimico.
A fine concerto ti ritrovi con il fiato corto e il cuore triste perché non c’è più musica intorno. E allora gli compri un cd e loro lo tirano fuori da uno scatolone che sopravvive a forza di scotch, e quando a casa te lo riascolti sei spaesato, sembra quasi che ‘sta musica non c’entri niente con i ricordi che hai nella testa del concerto, senti canzoni che non ti portano a niente di nuovo e allo stesso tempo a niente di già sentito.
Eppure ecco, improvvisamente eccole là tutte in fila, quelle belle idee, quelle belle parole. Erano rimaste impigliate nella memoria, a descrivere qualche storia, a tratteggiare qualche sogno: la storia della Virna e dell’operaio che sa di tabacco e brillantina che prendono la stessa corriera per andare a lavorare, il sogno degli albanesi che sognavano un’Italia con le tette fuori come su Mediaset e si ritrovano a disegnare il cielo sul fango della strada, il groppo alla gola di Hammad il clandestino che cerca di annegare la nostalgia nel vino di un bar grigio prima che a far annegare lui siano le lacrime.
Per essere bravi sono pure bravi, nel senso che hanno notevole talento e meriterebbero attenzione: ci sono in giro per le radio e sui palchi dei centri sociali dozzine di musicisti ben peggiori. E loro per essere bravi sono bravi, per carità, ma sono destinati a sparire dalle occasioni pubbliche e ad accontentarsi del giro piccolo piccolo dei piccoli palchi e dei piccoli posti persi di provincia e di periferia (non disdegnano i teatrini parrocchiali, e questo può far riflettere). Sì, perché alle buone occasioni hanno voltato le spalle.
Hanno suonato per il sindacato ma non hanno chiesto nulla in cambio. Hanno suonato per i pacifisti in piazza col bravo cantautore famoso, ma non ne hanno approfittato. O è stata solo sfiga: hanno partecipato alla compilation di “Liberazione” contro la guerra, e gli hanno tagliato in due il pezzo. Questioni di copyright, gli hanno detto.
L’ultima, poi, è finita sul giornale: invitati alla bella rassegna canora sponsorizzata dal bravo assessore padano, si sono fatti beffe dell’identità regionale obbligatoria innescando sul palco un putiferio saltellante e sguaiato, spiattellandogli in faccia “Nostra patria è il mondo intero” come una torta di panna delle comiche. Alla faccia sua e delle belle cravatte verdi, hanno rischiato lo sputo dei giovani di razza Piave e dei galoppini benvestiti che avevano appoggiato il culo nei posti riservati delle prime file.
Via, pezzenti, siete il cane che morde la mano del padrone. Poveracci, marmaglia. In dialetto, anzi, che viene meglio: Marmaja. Ecco il nome giusto. Via, via, cacciati via dai posti dove si fanno cultura e musica seria, e destinati al marciapiede, ai raduni di cani sbandati e senza dio e senza rimborso spese sulla spiaggia. Soli, forse. O forse no.
Adesso vogliono organizzarsi, chissà se riusciranno a combinare qualcosa. Hanno scoperto che c’è in giro per l’Italia qualche altro sbandato, una manciata di altre bande fatte da pochi Don Chisciotte pazzi, poche realtà spontanee e creative riuscite a tenersi a galla tra le onde di brutta musica copiata male da quel che s’usa ascoltare nelle terre d’oltremanica e d’oltreoceano e mescolata alle macerie della nostra tradizione melodica. Una brutta compagnia che è riuscita a custodire il senso della musica popolare e sociale e di lotta e di protesta come un segreto. Quella musica che suona e rimbomba nel sottofondo incasinato che c’è a bordo degli autobus e nei bar delle periferie, quella che puzza come l’aria attorno alle fabbriche e come le cucine delle case a mezzogiorno. Quella che accompagna il nostro muoversi. Il nostro crescere, il nostro vivere.
Allora era vero: anche se era scomparsa dai muri e dalla piazza principale, la musica libera non è mai sparita, non se n’è mai andata. E sui muri e nella piazza ce la riporteremo, e forse sarà domani. Domani forse. È grazie a compagni come questi che questa musica, che viene in viaggio dal cuore passando prima per la testa e si nutre della nostra incazzatura e del nostro piangere, ha saputo rimanere estranea ai meccanismi del mercato, è riuscita a sopravvivere, ad andare avanti e a costruirsi una strada. Strada stretta fatta di sassi, spine di rovo ai fianchi e nessun riparo, spesso. Strada in salita, sempre.
Ridete, ridete pure bastardi. Saltimbanchi di merda, avete preso il mio cuore.

Marco Pandin

I Marmaja in concerto