rivista anarchica
anno 44 n. 386
febbraio 2014





Un caso di inflazione e collasso semiotico

1.
Grossomodo, gli etologi concordano sulla funzione evolutiva del manto maculato di alcuni animali, come il leopardo e il ghepardo. L'argomentazione può essere riassunta nel modo seguente: la distanza dalla quale il predatore, quasi “annunciandosi”, può essere percepito dalle proprie vittime, ovviamente, non può essere troppo grande – se no, le vittime fanno in tempo a darsela a gambe, riuscendo a evitare di risultare tali. Coloritura e disegni del manto dei leopardi e di altri maculati rispondono a questa strategia. Le macchie del pelo si confondono in un grigio-marrone uniforme almeno fino a che l'animale non giunge a una distanza in cui la sua apparizione improvvisa non getta l'eventuale preda nel panico rendendola ancora più vulnerabile. Diciamo, allora, che – a maggior ragione se in condizioni di luce favorevole – le sue macchie assolvono una funzione di tipo mimetico. Madre Natura vede e provvede.

2.
L'aggressività con cui si categorizza l'animale viene metaforizzata in vari ambiti delle attività umane. Per la velocità e la precisione predatoria e, da un po' di tempo in qua, per i comportamenti sessuali. Innazitutto, per quelli della femmina. In principio sotto forma di pellicce per poi diffondersi nelle direzioni più diverse. Negli anni cinquanta del secolo scorso il leopardato caratterizzò famosi bikini – come quelli di Marilyn Monroe e di Jayne Mansfield – per poi, diminuendo gradualmente la superficie di stoffa impiegata, almeno fino a tutti gli anni settanta, attestarsi su fanciulle perennemente in bilico tra il mondo dello spettacolo e la riprovazione morale della Buona Società. Del calco originario il processo di metaforizzazione selezionava l'aggressività – spostandola dal piano della lotta per la sopravvivenza al piano della scelta sessuale – e la velocità e la precisione predatoria spostandole al piano della giovinezza e dell'autonomia, di quella padronanza di sé e degli altri che, almeno in una dimensione simbolica, rovescia i termini canonici del rapporto sessuale tutti tradizionalmente a vantaggio del maschio. Che la moda della biancheria intima leopardata (o ghepardata – qui non mi soffermerò sulla mancata retrattilità degli artigli-unghie o su altre sottili distinzioni del caso) abbia preso piede in periodi di ripresa socialmente significativa del pensiero femminile oppositivo non è, dunque, del tutto casuale. E che questa stessa moda, rimetaforizzando poi l'aggressività sessuale femminile e riassegnandogli lo storico ruolo di predatore, abbia finito con l'investire – e rivestire – anche le zone genitali del maschio è un altro particolare degno di nota.

3.
Una conferma. Rivedevo un film del 1965, Ménage all'italiana di Franco Indovina, dove si racconta di un italiano imbroglione che vive di espedienti e, soprattutto, di matrimoni – ha successo con le donne, cambia identità e si sposa tutte quelle che incontra fino a che riesce a far perdere tutte le sue tracce facendosi passare per morto (un personaggio tagliato e rifinito per Ugo Tognazzi). Bene, una di queste numerose donne che l'hanno sposato e che, alla conclusione della vicenda, partecipano a quello che ritengono il suo funerale – la donna più focosa e aggressiva sul piano sessuale, interpretata da Maria Grazia Buccella –, indossa una pelliccia di leopardo. Non insignificante, a mio avviso, è il fatto che il personaggio attraversi anche una fase di scalata sociale, acquisendo potere economico e autonomia e, di converso, perdendo la caratteristica di mero oggetto del desiderio sessuale del maschio, ma, anzi, acquisendo altresì la facoltà di soggetto attivo del rapporto sessuale proprio nella misura in cui è tradita e vilipesa.

4.
Con o senza aiuti chimici, si protrae la durata della sessualità. Nei primi anni novanta assistetti alla graduale e irreversibile leopardizzazione di una coinquilina ormai un po' più in là nell'età di quanto non fossero le coraggiose che l'avevano preceduta negli anni precedenti. Dalla mantellina alla gonna, dalla blusa agli stivali o alla punta delle scarpe il manifesto prometteva chissà che nell'occultato. Il marito sembrava gradire e questo andare d'amore e d'accordo pubblicamente non poteva non esser posto in rapporto alla scelta estrema nel codice vestimentario di lei. Era come se, nel leopardare un segmento di sé protraesse la vivacità del proprio sesso, spostando di qualche intervallo temporale l'asticella impietosa della menopausa.
Nell'osservare l'entrare e l'uscire dall'androne di questa mia coinquilina, allora, venivo messo sull'avviso di quanto – di socialmente significativo – stava accadendo: leopardati erano diventati tutti i capi di vestiario, dai tailleurs ai pantaloni (allora, aderenti, molto aderenti), leopardate le coperte dei letti e perfino i cuscini dei divani – forse anche gli ombrelli. Si trattava di un'evidente epidemia che, anche sotto forma di ibridazione – con il jeans, con lane e cotoni, perfino con le trasparenti pizzosità destinate all'intimo più intimo, non risparmiava niente alla femmina in cerca di avvenenza.

5.
Tutt'oggi colgo residui del fenomeno. Nella vetrina di un negozio di accessori per animali – una di quelle boutique che celebrano a modo loro “l'altra faccia della crisi” ovvero l'evviva osceno agli sprechi –, grazie all'acume indagatorio di mia moglie sono riuscito a individuare un cashimirino per cani dal bordo leopardato. Mentre nella vetrina di un sexy shop, un manichino femminile esibisce un paio di “mini-tanga” (mi sembra di trovare le stesse difficoltà che incontra un fisico quantistico nel nominare i propri oggetti di studio: quando si va nell'infinitamente piccolo, il linguaggio ordinario, come è noto, non sorregge più) costituiti da alcuni millimetri di velo a coronamento di un triangolino isoscele di cinque centimetri di leopardato. Il che, peraltro, mi conferma quanto il fenomeno occupi ancora una sua nicchia fra le varie mercanzie dell'immaginario sessuale. E qui arrivo alla testimonianza più tragica.

6.
Con la noia dell'antropologo che capita per l'ennesima volta nella stessa isola di falsi indigeni, seguivo sere or sono Affari tuoi, gioco a premi sempre più vetusto della Rai e, nel caso specifico, seguivo le avventure di una fanciulla in incerta ricerca di facili fortune. Fu soltanto a metà trasmissione che il conduttore decise di tirar su il morale vieppiù discendente della medesima sorprendendola (si fa per dire) con l'inaspettata (si fa per dire) presenza al suo fianco dell'amata nonna. Bene. Forse non si sarà sorpresa la fanciulla in questione – che, presumibilmente, la sapeva lunga sull'avvento della nonna –, ma, in compenso, mi sono sorpreso io. Perché la vecchietta – nonna davvero, all'antica, niente a che vedere con le nonne moderne ancora nel fiore delle proprie forme – indossava una sorta di chemisier abbondantemente leopardato. Segni di sesso levigati dal tempo: cose che solo l'archeologo sa ormai decifrare.

7.
Le prime domande sono ovvie: quanto tempo è occorso per la leopardizzazione della nonna? Quali fenomeni hanno favorito un processo parallelo di desessualizzazione del leopardato fino a favorirne l'uso nella cosidetta terza età? Quali sono stati i costi sociali di questo processo? Dobbiamo leggere ciò come un progresso – come qualcosa di buono per il nostro futuro – o come una sciagura ormai irreversibile? Ci si accorge facilmente del fatto che, per dar loro risposte convincenti, si renderebbe necessaria la stesura di un saggio intero e, dunque, al momento, soprassiedo.

8.
Non soprassiedo, invece, dal far notare un particolare. Allora: dapprima, nel cosiddetto mondo naturale, la leopardizzazione è un segno mimetico. Poi, divenuto artefatto umano è tutt'altro: è una segnalazione piuttosto imperiosa, dalle capacità attrattive cospicue, assume il significato di invito sessuale, sembra promettere scorciatoie vantaggiose lungo il percorso del corteggiamento. Tuttavia, in un processo inflattivo – un processo che neppure risparmia le categorie più deboli sia nel mercato del sesso che nel mercato tout court –, lo stesso segno rischia di riqualificarsi come mimetico. Paradossalmente, come se indossandolo e “dicendolo” pubblicamente ci si rifugiasse nella pace dei sensi – allorché la funzione predatoria è irrimediabilmente perduta.

Felice Accame