rivista anarchica
anno 44 n. 386
febbraio 2014




La dimissione della legge

Non c'è verso: questo è un paese inventato dove quasi tutti quelli che hanno un ruolo istituzionale pensano di vivere in un mondo di fantasia. Si legge un quotidiano con lo stesso atteggiamento con il quale si divora un fantasy. Gli ingredienti ci son tutti: l'oppressione, la povertà, il capo corrotto e donnaiolo, le donnine allegre, il nano, il regno da riconquistare e l'eroe sostenuto dalle folle. Qualche spargimento di sangue qua e là, sotto forma di manifestazioni finite male o di migrazioni concluse anche peggio, aggiunge qualche ingrediente di pathos senza dubbio necessario.
In altri termini, si legge il giornale senza aspettarsi di essere informati sulla realtà, ma piuttosto per scoprire cosa farà l'eroe e come uscirà dal garbuglio nel quale si è imbrigliato con le sue proprie mani. Nella maggior parte dei casi, la storia ha un lieto fine: l'eroe si salva, infilandosi nelle maglie lasche di una burocrazia la cui coordinata principale è l'interpretazione della legge.
Abbiamo un eroe (spesso più d'uno, per la verità). La caratteristica principale dell'eroe è quella di essere eroico, appunto, ma anche profondamente umano. Di questa umanità, fa parte per esempio la tendenza a imbrogliare il fisco, frequentare compagnie di dubbia moralità, resistere alle avversità spesso determinate da un destino cinico e baro (che in molti casi si chiama “magistratura”), coltivare privatamente amicizie non compatibili col proprio ruolo. Insomma fare cose che, sì, saranno anche negative, ma, parbleu, sono parte della nostra comune e condivisa umanità. E cosa c'è di più bello di un eroe capace di riconciliarci con le nostre umanissime debolezze?
Così, se sono un politico e la mia condotta viene sanzionata dalla legge, posso sostenere che il popolo è superiore alla legge, e il popolo mi ama. Se la mia carica mi imporrebbe una dimissione, be', posso sempre dichiarare di essere disposto a dimettermi, se il popolo lo vuole.
E il “popolo” non lo vuole. Come faccio a saperlo? Che domande! Perché sono l'eroe.
Carlo Credi
Milano, Teatro delll'Elfo,
Elena Russo Arman,
durante lo spettacolo
La mia vita era un fucile carico
(being Emily Dickinson)
,
di cui è autrice e protagonista

L'entità “popolo” ha lo stesso coefficiente di esistenza, e la stessa spiccata individualità del coro di una tragedia greca: esprime un parere condiviso e spesso gregario, nel quale la capacità di pensiero autonomo è una nebulosa confusa e indeterminata, radunata dietro parole d'ordine e frasi fatte. Il “popolo” segue il suo capo, come che sia, dimenticandosi gioiosamente di pagare anche le spese del suo capo, spesso in senso anche letterale: moneta sonante sottratta al vivere quotidiano di ciascuno di noi.
Ho la pretesa, chiaramente fantasy, di insegnare ai miei studenti a pensare con la loro testa. Questa pericolosa consuetudine, che pratico giudiziosamente da numerosi anni, si scontra contro l'impossibilità di spiegare come condurre un ragionamento lineare rispetto alla realtà nella quale viviamo immersi. Confesso pertanto la mia difficoltà: non riesco a spiegare come mai la legge abbia una configurazione stratificata e la sua interpretazione sia ammanettata alla quantità di potere che ciascuno di noi gestisce, volente o nolente, nel ruolo che riveste.
Mi viene meglio costruire parallelismi, senza dubbio pericolosi, tra il reale e un'opera chiaramente di fantasia. Prendiamo Ghiaccio-nove, per esempio. Kurt Vonnegut Jr ci racconta la storia di San Lorenzo, un'isola totalmente inventata, nella quale, ad esempio, uno prima viene eletto presidente e poi lo si vota perché diventi tale. È il posto in cui la mano che rifornisce i negozi è la stessa mano che governa il mondo. È anche il posto in cui un presunto profeta alla fine informa i fedeli che il loro dio si è scocciato e perciò a questo punto i fedeli dovrebbero fare la cortesia di togliersi di torno (morire, per la precisione) perché la loro fede non è più necessaria.
Vonnegut inventa, naturalmente. Ma inventa bene, morte a parte. Ci sono stati numerosi momenti nei quali, nella storia italiana recente, al “popolo” è stato cortesemente – o neanche tanto cortesemente – invitato a togliersi di torno. E la cosa curiosa è che il “popolo” lo ha fatto, tacendo e sopportando, spiando la corruzione e intendendola come, appunto, la manifestazione di una condivisa umanità. Che il leader è autorizzato a non pagare. Al massimo, minaccia di dimettersi. Se poi lo prendono sul serio, be', c'è sempre l'interpretazione della legge. Che non autorizza l'eroe a dimettersi da tale: uno mica si può dimettere dal carisma.
Ho la pretesa di spiegare che, sebbene ci siano tutti gli ingredienti del fantasy, il nostro non è un mondo immaginario. La gente – vogliamo chiamarla il “popolo”? – fatica sul serio a vivere. Paga le tasse, riceve una multa se parcheggia nel posto sbagliato, deve compilare dichiarazioni dei redditi fedeli, si ammala, muore, insomma fa tutte queste cose qui, che sono reali, tanto quanto reale è la corruzione di chi governa. Ho la pretesa di cercare di far capire che il “popolo” è una collettività pensante, individualmente tale, e che non essere consapevoli di quel che si vive è come dimettersi da essere umano.
Ma poi i miei studenti mi guardano e rispondono: “Scusi, ma lei poi non potrebbe rifiutare le nostre dimissioni? È così che fanno, no?” E io, lo ammetto, mi arrendo.

Nicoletta Vallorani