rivista anarchica
anno 44 n. 387
marzo 2014





Arte, collera e remunerazione

1.
Nei mesi a cavallo tra il 2013 e il 2014, a Milano, a Palazzo Reale, era visitabile una mostra intitolata Pollock e gli irascibili. Si trattava di una mostra dedicata alla cosiddetta Scuola di New York che, peraltro, annoverava pittori che si esprimevano in modi molto diversi l'uno dall'altro, ma non è del criterio di scelta che voglio parlare. Liberi tutti di associare questo a quello secondo un proprio criterio. Che, in questo caso, il criterio di scelta sia stato quello dell'irascibilità a mio avviso non è molto significativo, perché la storia dell'arte è piena zeppa di pittori irascibili. Se volessimo ri-immergerci nella vita quotidiana di un Cezanne, per esempio – anche avvalendoci dei più affettuosi ricordi dell'amico e allievo Emile Bernard (Skira, Milano 2011) –, lo scopriremmo furioso contro il mondo intero, imprevedibilmente incontrollabile. D'altronde, l'artista in genere è sempre in bilico tra la commiserazione di sé e l'orgogliosa tronfietà e quando i riconoscimenti pubblici non arrivano ecco che la frustrazione si traduce in ira. Mark Rothko, per fare un altro esempio pescando proprio fra gli americani dello stesso periodo vissuto da Pollock, ha litigato quasi tutta la vita con chiunque gli venisse a tiro – bastava che si appendesse un suo quadro pochi centimetri più in alto o più in basso di come voleva lui (cfr. i suoi Scritti sull'arte, Donzelli, Roma 2006) e sia chiaro che, comprendendone le ragioni, questo lo dico senza aver alcuna intenzione di attribuirgli dei torti.
Si potrebbe dire che l'associare artisti di solito si fa in nome di qualche particolare stilistico – in base alle assonanze delle soluzioni espressive – e non in base a “pubblici” aspetti caratteriali – accettandone quella sorta di autorappresentazione che, comunque, va innanzitutto ricondotta all'artista medesimo e non ad un “dato di fatto” –, ma il mio problema comunque non sta lì. Purché qualcuno poi se ne assuma la responsabilità associno pure i pittori come pare loro e per il criterio che ritengono più opportuno – il mio problema riguarda invece un manifesto, affisso a Milano più o meno in contemporanea con l'evidente scopo di promuovere la mostra stessa.
Allora: su uno sfondo scuro ci sono alcune macchie e alcuni schizzi di colore più e meno casuali, c'è il titolo della mostra, ovviamente – Pollock e gli irascibili – e c'è una scritta che sovrasta tutto: “e se questa fosse un'opera d'arte?”.
Ritengo questa domanda puerilmente retorica – e fondamentalmente antieducativa –, per almeno due ordini di motivi. Il primo è storico, il secondo metodologico.
Pollock è morto nel 1956 – più di cinquant'anni fa –. Prima di lui, che so, nel 1917, Duchamp prese un orinatoio e lo ribattezzò come opera d'arte; Man Ray, nel 1921, prese un ferro da stiro, in ghisa, e gli piantò 14 chiodi sul fondo. Con il pregresso la smetto subito, perché l'elenco sarebbe sterminato. Dopo Pollock, poi, abbiamo avuto perfino Chris Burden che, come opera d'arte, si è fatto sparare in un braccio in pubblico. Voglio dire che questa domanda, “e se questa fosse un'opera d'arte?”, è troppo vecchia e pelosa per essere una domanda credibile e sensata.
Sembra una domanda posta al tempo in cui la borghesia s'interrogava inquieta sull'evoluzione dell'arte e sul suo distacco dalla rasserenante rappresentazione della natura – prima che l'épater les bourgeois, la parola d'ordine, per i pochi fortunati si traducesse in quattrini – in valore dell'opera nel mercato (un Pollock del 1948 è stato venduto nel 2006 per 140 milioni di dollari a qualcuno che evidentemente questa domanda non se l'è posta).
Il secondo motivo per cui la domanda mi sembra insensata e diseducativa è di ordine metodologico. La storia dell'arte ci insegna inequivocabilmente che nulla di per sé è arte, ma tutto può diventarlo, a seconda dell'atteggiamento mentale che assumiamo nei suoi confronti. Solo per il fatto di trovarlo in una galleria d'arte o in un museo siamo già disposti a considerare arte checchessia. Nel 2006, il sociologo Alessandro Dal Lago e l'artista Serena Giordano hanno scritto giusto un libro che hanno intitolato Mercanti d'aura (ne ho condotto un'analisi critica ne L'aura fritta e i suoi cuochi, in “A”, 322, 2006-2007), dimostrando che il valore estetico è il prodotto di un processo complesso in cui l'oggetto artistico vero e proprio ha un ruolo minimo, perché ciò che conta di più sono i discorsi che gli vengono fatti intorno – con i quali gli si crea quell'aura di sacertà che gli garantirà l'ingresso nel dorato regno dell'arte nonché l'eventuale museificazione. Ignorare tutto ciò significa riconfinare l'intero movimento artistico contemporaneo nell'asfittico alveo dei pregiudizi borghesi. Sfido io che poi gli artisti diventano irascibili.

2.
Domande: l'ira, allora, è successiva al fare artistico – ne è una conseguenza pressoché obbligatoria dipendente da un processo di comunicazione non andato a buon fine? O è precedente? È questa l'esito di un tratto caratteriale o il tratto caratteriale è l'esito del fare artistico? Diciamo che può essere utile considerarli come due fenomeni complementari, in reciprocità di alimentazione. L'ira, poi, in quanto tale ha un suo oggetto. Il rendersi conto, la consapevolezza avuta una volta e quindi protrattasi nel tempo, relativa al fatto di esser vivo è sufficiente, io credo, a giustificarla: ma anche la mancanza di stima, come del pane e del companatico – la mancanza di amore, di sesso, di denaro, di checchessia di valorizzato in quel preciso momento – può giustificarla.
Ma, mentre mi riesce difficile vedere un irato radicale – irato perché vivo – poi applicarsi all'operare artistico – di solito gli è sufficiente alzare il tasso alcolico –, posso ben capire quel meccanismo ricorsivo, autoalimentante, in ragione del quale l'opera d'arte, disattesa dal mondo, si ripercuote sull'artista deluso e pronto ad adirarsi conseguentemente ingenerando, per l'appunto, comportamenti altrui – per esempio, da parte della “critica” – tali da rinnovare, giustificatamente, altra ira – una produzione di ira a mezzo di ira che non promette nulla di buono né al soggetto individuale medesimo, né al collettivo di pensiero che lo circonda.

3.
Nel 1962, l'etologo Desmond Morris pubblicò La biologia dell'arte (in versione italiana a cura di Giorgio Cardona, Bompiani, Milano 1969). Il titolo era forse un po' pretenzioso, perché, in realtà, l'oggetto del suo studio erano soltanto quegli scimpanzè che, con un mezzo o con l'altro, vennero incentivati a dipingere dai propri padroni-sperimentatori (e speculatori, perché alcune delle loro opere vennero esposte e vendute in note gallerie d'arte). Che questo genere di iniziative fossero discutibili è ovvio: l'arte della specie umana ha una sua storia, gli altri primati hanno una storia loro dove di arte – nelle forme della pratica umana – non si è mai sentita l'esigenza e, dunque, l'estensione delle nostre categorie allo scimpanzè è di principio un atto di protervia, a prescindere dal modo in cui potrebbe percepire la cosa lo scimpanzè (che, in queste pratiche, potrebbe anche divertirsi ben di più dell'artista umano). Tuttavia, allorquando Morris giungeva alle riflessioni conclusive sulla propria esperienza, metteva l'indice su una questione fondamentale. Provava, cioè, ad enumerare i caratteri universali del fare artistico e, fra questi, metteva in grande evidenza il carattere dell'autoremuneratività. Se in alcuni casi scimmie giovani e scimmie adulte preferivano pennelli e colori al cibo – se erano capaci di esplodere in crisi di collera nel caso in cui venissero interrotte nell'attività (come Pollock?) – era perché queste azioni – eseguite di per se stesse, senza palese scopo biologico – a qualcosa pur servivano. Di norma, compaiono, queste azioni – secondo Morris –, “negli animali che hanno ormai sotto controllo tutti i loro problemi di sopravvivenza e che hanno surplus di energia nervosa che sembra richiedere uno sfogo”. L'arte, allora, sarebbe un mezzo inventato dall'evoluzione per lo “scarico di energia nervosa in sovrappiù” e, come tale, dovrebbe essere autoremunerativa. Dico “dovrebbe”, perché – come ben sappiamo – non è così. Alle prese con il mercato e con l'ideologia capitalistica che lo governa, l'artista che conosciamo – quello di cui possiamo fare storia biologica e sociale – ambisce alle remunerazioni altrui quanto, paradossalmente, è disposto a rinunciare alla propria.

Felice Accame