rivista anarchica
anno 44 n. 389
maggio 2014


 


Alla base
dell'evoluzione sociale

Per la prima volta in italiano viene tradotto e pubblicato il digest di Mutual Aid (Altruismo e cooperazione in Pëtr A. Kropotkin, Negretto editore, 2013, pp. 218), compendio o sunto de Il mutuo appoggio di Kropotkin, che la scrittrice femminista libertaria Miriam Allen de Ford curò nel 1945 per conto dell'editrice Haldeman-Julius. Come spiega bene l'ultimo capitolo della prefazione, questa casa editrice, fondata da un ex giornalista squattrinato e dalla scrittrice e suffragetta americana Anna Haldeman, aveva un indirizzo radicale e controcorrente e pubblicava in prevalenza testi anticonformisti e antagonisti dell'area della sinistra radicale. Si distinse anche pubblicando digests, cioè compendi sunti e riduzioni di classici del pensiero e della letteratura mondiali, curandone la diffusione tra i ceti sociali più poveri, in particolare tra lavoratori e migranti con lo scopo di una divulgazione della cultura.
Nell'introduzione, la stessa De Ford chiarisce che per comprendere appieno l'opera di Kropotkin sarebbe indispensabile leggere l'edizione integrale. Si era comunque impegnata in questa riduzione con lo scopo precipuo di favorire la comprensione e la divulgazione del Mutuo appoggio, perché riteneva meritasse d'esser conosciuto per l'importanza e la validità di ciò che asserisce. Sostiene la cooperazione e l'aiuto reciproco come base di sopravvivenza ed evoluzione all'interno delle specie, contrapposti alle posizioni del darwinismo di destra che sosteneva che la perpetuazione evolutiva delle specie si fonda invece sul “conflitto permanente” e la “lotta per la vita”. L'una è la visione mutualistica di un anarchico, l'altra è la giustificazione della guerra per il potere e della competizione capitalistica.
In questa edizione italiana è veramente interessante la prefazione di Giancorrado Barozzi che ne è il curatore. Vi svolge un'ampia e minuziosa disamina, puntuale e aggiornata, di come la ricerca scientifica abbia continuato ad aggiornare e arricchire, confermando e rafforzando al tempo stesso, la concezione/proposta di solidarietà sociale che fece a suo tempo Kropotkin col Mutuo appoggio, raccolta di «una serie di articoli usciti in precedenza (tra il 1890 e il 1896) sulla rivista The Nineteenth Century, in risposta al manifesto del darwinista Thomas H. Huxley sulla Lotta per l'esistenza nella società umana, apparso sulla stessa rivista londinese nel febbraio 1888» (pag. 13). Kropotkin rovesciò completamente il paradigma che poneva la competizione e il conflitto alla base dell'evoluzione sociale.
Barozzi ci mostra come negli ultimi decenni la scienza, trovando continue conferme nello studio e nella ricerca antropologica e naturalistica, abbia completamente riconosciuto la cooperazione e la mutualità quali fondamentali fattori di evoluzione. Nel 1998, a distanza di circa un secolo dalla pubblicazione di quegli articoli, il paleontologo statunitense Stephen Jay Gould sulla rivista Natural History riprese quella concezione e la rivalutò sottolineandone l'estrema importanza. Dopodiché diversi scienziati e studiosi hanno ampliato, e continuano tuttora, le conoscenze e le conferme di quel filone di pensiero di cui Kropotkin fu l'iniziatore. Tra tutti particolarmente importante l'antropologo e saggista Ashley Montagu, che curò l'edizione del 1955 de Il mutuo appoggio (ristampata nel 2005) scrivendo la prefazione e curando la bibliografia del “fondatore del comunismo anarchico Petr Kropotkin”, come lo definisce.
Per un primo significativo approccio al Mutuo appoggio e per capire e conoscere aggiornamenti e approfondimenti della ricerca scientifica che lo valorizzano, questa pubblicazione su Altruismo e cooperazione in Pëtr A. Kropotkin rappresenta perciò una lettura puntuale e interessante.

Andrea Papi



Un'offesa
al potere

Ostaggi a teatro (Ferrari Editore, 2013, pp. 208, € 15,00) raccoglie, in un unico volume, tutto il teatro di Angelo Gaccione. Quattordici lavori di forte impatto e di tono diverso: dalla commedia brillante Tradimenti al massacro della Comunità Valdese nella Calabria del Cinquecento; dalla farsa che dà il titolo al volume ad un testo altrettanto duro come Stupro; da La finzione a Single, ad Hermana, a La seduta, e così via, in un continuo cambio di stili, dal brillante al farsesco al drammatico e con una scrittura “chirurgica”, come l'ha definita Pino Aprile, che non trova riscontri nei drammaturghi italiani contemporanei. È un volume di 208 pagine e copre un arco di tempo di oltre vent'anni: dal 1985 al 2007, e dunque non è possibile darne conto per intero in una semplice nota come questa.
Il libro edito dall'Editore Ferrari si apre con una citazione di Primo Levi: “Non è lecito dimenticare, non è lecito tacere. Se noi taceremo, chi parlerà?”; è una epigrafe per il dramma La porta del sangue, il primo dei 14 testi teatrali. Su questo dramma Roberto Guiducci scrive nell'introduzione (pag. 12) : “...il potere in quanto tale non ha ideologie se non apparenti e legittimanti, mentre la sua essenza è sempre monotonamente identica, e porta, come costante storica, alla altrettante monotona tragedia della repressione più spietata in nome di religioni o ideologie completamente intercambiabili nel loro inganno. E contro l'ottimismo del Cristo, secondo cui gli ultimi sarebbero stati i primi, le “voci” che parlano nella sacra rappresentazione di Gaccione dicono con durezza:
I giusti non si aspettino giustizia
Gli innocenti non si aspettino premi
Così è scritto sulla pietra della verità”
E le “voci” fatte emergere da Gaccione, concludono:
Cosa può lavare il sangue?”
L'offesa”
Cosa può levare l'offesa del sangue?”
Il sangue”
Cosa resta dopo il sangue?”
Il sangue”.
Dunque, nessuna redenzione, in questa visione spietatamente tragica e pessimista.
È già una novità anomala che un editore italiano pubblichi un libro di testi teatrali. Diventa ancora più anomala quando si viene a sapere, leggendoli, che alcuni dei testi, se non tutti, non troveranno mai un regista o una compagnia teatrale così spericolati da sfidare il rischio di affrontare dei testi così forti. Quel che Angelo Gaccione ha scritto è un'offesa al potere, diabolico e non angelico.

Morando Morandini



Se la poesia
mette a fuoco la vita

Ieri pomeriggio sono stata dal gommista con Davide Rondoni. Insieme. A fissare “il chiaro ottobre che finisce/fuochi dietro agli alberi/tra l'odore di copertoni bruciati”. Eravamo lì, con sue le parole e la puzza che si infittiva. In una realtà dove “l'allegria è/uno schianto”. Ma prima in libreria sono stati “Gli alberi, gli alberi, gli alberi”, sullo scaffale “Poesia”, a piantarmi su questo argine. Per guardarli “disegnati/con ineffabile cura”.
Davide Rondoni, “cristiano cattolico anarchico”, poeta, è nato nel 1964 a Forlì. E io che non m'intendo di poesia, sento la sua poesia, questo suo Si tira avanti solo con lo schianto (WhiteFly Press Snc, 2013, euro 12,00), vibrarmi dentro in un viluppo che mi incalza. Frammenti di vita – persone viaggi sensazioni – che mi sono estranei. E che forse nemmeno mi piacciono. Che non fanno parte del mio mondo. E che Davide “soprannomina”. Perché “quando la realtà ci viene incontro”, dice lui, “le parole non possono più rimanere le stesse”.
E lui le parole le tratta. Lui e loro sono assieme davvero. Così mi lascio soggiogare dal commiato elegante del suo barbiere, “che lavora/con la 'zigaretta' tra le labbra/fottendosene come un dio/dei divieti e della salute”. E accetto perfino che questo barbiere diventi il mio “patrono, l'estremo/dono del cielo ai combattenti/per qualcos'altro dallo stupido benessere delle copertine”.
In questa raccolta, accanto a ogni poesia scrivo qualcosa. Spesso questo qualcosa è solamente “bella”. Che vuol dire tutto e vuol dire niente. Non importa... Purché io possa essere “ginocchia bellissime”, “la convessa/dolce fine di me”. Amare il suono di queste parole, assaporarne l'amalgama, la consistenza.
Non sono, non mi ritrovo, nella “realtà” che Davide mi sta offrendo. E lui lo sa. Ma scrive: “Dio ci ha creati diversi per pensare a Lui/fino alla morte/degno di ogni lode e di ogni grido”. Sono d'accordo. Non tanto su dio... Sulla diversità sì, però. Quindi torno alla poesia. A questa vita che Davide mi restituisce salata sulla lingua. Cerco “il suo muso ferito/di tigre”. Desidero i suoi artigli. Perché “Non si tratta di avere molto coraggio/né di essere saggi”, ha ragione Davide. Quanto, vivendo, di “mirare/a una felicità micidiale./E non temere il crepacuore”. (...E comunque sì, Davide, “la poesia mette a fuoco la vita”.)
Davide Rondoni ha pubblicato alcuni volumi di poesia, tra i quali Apocalisse amore, Mondadori 2008, Avrebbe amato chiunque, Guanda 2003, Compianto, vita, Marietti 2001 e Il bar del tempo, Guanda 1999, Rimbambimenti, Raffaelli 2010, Si tira avanti solo con lo schianto, Whyfly 2013, con i quali ha vinto alcuni dei maggiori premi di poesia. È tradotto in vari paesi in volume e rivista. Eccetera...

www.daviderondoni.altervista.org/public2/index.php

Emanuela Scuccato



Moltitudine
e grammatica

Spinoza contro Hobbes
Cosa c'entrano Spinoza e Hobbes con noi, con il nostro tempo e le questioni che ci riguardano dappresso? A poco verrebbe da dire, ma leggendo Grammatica della moltitudine di Paolo Virno, recentemente riedito da DeriveApprodi (la prima edizione è del 2002), il confronto con i due filosofi del Seicento non si rivela polemica oziosamente accademica. I due incarnano visioni della sfera pubblica fra loro incompatibili, quella fra popolo e moltitudine. Vediamole.
Per Spinoza la nozione di multitudo è l'architrave della libertà civile. Con tale espressione vuole indicare una pluralità di soggetti in quanto tale, che resiste a ogni tendenza omologante. La moltitudine si costituisce e si mantiene come rete di individui, come aggregazione di singolarità, quindi va sempre declinata al plurale. La reductio ad unum è un arnese che non funziona con la moltitudine. Certo si dà collettività, ma la dimensione collettiva qui non è centripeta, non è il luogo su cui fondare l'unità statuale e le sue gerarchie, ma apre la possibilità a forme democratiche orizzontali, recalcitranti nei confronti di ogni forma di delega e di rappresentatività (democrazia diretta, radicale, partecipativa, ecc.).
Hobbes, dal canto suo, detesta la moltitudine, l'esistenza sociale e politica dei molti in quanto molti è vista pericolosa rispetto all'esistenza di quell'entità che incarna il monopolio di ogni decisione politica e di ogni violenza; stiamo parlando dello stato, se non lo si è capito. Per Hobbes, alla multitudo va contrapposto il popolo. Se la moltitudine non ama lo stato, il concetto di popolo, al contrario, è legato a filo doppio con ciò che incarna lo stato. Affinché si dia stato ci dev'essere il popolo e viceversa. La moltitudine può esistere solo prima della nascita dello stato, vale a dire prima del trasferimento dei propri diritti naturali al sovrano e allo stato. Il ripresentarsi della moltitudine mina alle basi la legittimità dello stato. Hobbes: «I cittadini, allorché si ribellano allo Stato, sono la moltitudine contro il popolo». In breve: quando parliamo di popolo diciamo qualcosa che rinvia sempre a una trascendenza (lo stato, il sovrano, le leggi, ecc.), mentre la moltitudine è il nome di un'immanenza irriducibile.

Maledetti quegli anni!
Ci fermiamo qui per quanto riguarda il confronto Spinoza-Hobbes. Il conflitto fra i due appare chiaro, così come risulta parimenti chiara – dinanzi alla crisi delle varie forme di delega e rappresentanza civile – la spendibilità odierna della nozione di moltitudine. Veniamo dunque a noi e ai nostri problemi. Scrive Virno: «Fu la nozione di “popolo” a prevalere. “Moltitudine” è il termine perdente, il concetto che ebbe la peggio. (...) Resta da chiedersi se oggi, alla fine di un lungo ciclo, non si riapra quell'antica disputa; se oggi, allorché la teoria politica della modernità patisce una crisi radicale, la nozione allora sconfitta non mostri una straordinaria vitalità, prendendosi una clamorosa rivincita». Il testo di Virno costituisce allora, come recita il titolo stesso del libro, un tentativo di elaborare una sorta di “grammatica della moltitudine”, vale a dire l'enunciazione degli elementi costitutivi di questa forma alternativa di aggregazione sociale.
Ma il conflitto moltitudine-popolo riecheggia anche nell'ultimo libro di Mario Tronti, ai tempi uno dei padri dell'operaismo, dal titolo Per la critica del presente (Roma, Ediesse, 2013), in cui l'autore riprende e riflette su termini quali “lavoro”, “partito”, “stato” e, appunto, “popolo”. Per Tronti queste parole antiche, cariche di storia, mantengono ancora valore nel presente. Congedarsi da esse non significa altro che fare un gradito regalo ai nuovi potenti. Leggiamo: «L'operazione di seppellire con disonore il Novecento, inaugurando un nuovo modo di fare politica, è venuta agli immaginosi contestatori degli anni Sessanta-Settanta ed è stata realizzata dai fattivi conservatori degli anni Ottanta-Novanta. Emerge lì e si impone dopo la figura dell'individuo sovrano, quando fin lì era sovrano il popolo, sovrano lo Stato, sovrana la nazione, entità collettive, dove la sovranità può incarnarsi, nella storia, ed esprimersi, nella politica». Non ci potrebbe essere distanza maggiore con le tesi di Virno (ma certe letture antisessantottine hanno attecchito anche in ambito libertario: cfr. il pamphlet di Mario Perniola, Berlusconi o il '68 realizzato, Milano-Udine, Mimesis, 2011).

Paolo Virno

Moltitudine cosmica?
Sullo sfondo dell'analisi di Virno vi è la riorganizzazione socio-economica che va sotto il nome di post-fordismo. Contrariamente alla fase del fordismo e del taylorismo, la cui caratteristica precipua era la produzione industriale basata sul lavoro ripetitivo, privo di qualifiche e specializzazioni, il post-fordismo si caratterizza per l'adozione di nuove tecnologie e nuovi criteri organizzativi che pongono enfasi sulla flessibilità dei lavoratori (il libro si chiude proprio con “Dieci tesi sulla moltitudine e il capitalismo postfordista”).
La moltitudine post-fordista viene letta da Virno sotto i bagliori del «Frammento sulle macchine» presente nei Grundrisse di Marx, in cui si parla di General Intellect, l'intelletto generale della società, l'insieme delle conoscenze, il sapere da cui dipende sempre più la produttività sociale. Giungendo a questa conclusione: «la moltitudine postfordista mette in rilievo sul piano storico-empirico l'antropogenesi come tale, ossia la genesi stessa dell'animale umano, i suoi caratteri differenziali. Li ripercorre in compendio, la ricapitola».
Su questa osservazione ci permettiamo di coltivare alcune riserve. Che il capitalismo post-fordista e la reazione ad esso costituiscano, tout court, la ricapitolazione della storia della specie umana è un dono all'Occidente e un omaggio che nessun capitalismo francamente si merita; al massimo si può parlare, dentro la storia delle umane genti, di un possibile esito – uno fra i tanti – rispetto agli infiniti futuri possibili; altrimenti restiamo irretiti e impoveriti in una visione lineare e unidimensionale del tempo (quella dell'Occidente e del capitalismo). La pluralità dei soggetti (per carità, non riducibile ai lavoratori della conoscenza europei) invoca la pluralità delle scansioni temporali! Il tempo storico, infatti, è qualcosa di più complesso e articolato, prevede dislivelli e torsioni temporali, al cui interno il passato (anche quello più primitivo) non è mai definitivamente passato, ma può riaffiorare gravido di futuro.
Questa osservazione sbocca su di un'altra. La “grammatica della moltitudine” analizza la soggettività nella sua interiorità (l'intelletto, le tonalità emotive), così come nella sua socialità (il lavoro, la politica), ma non compare mai in relazione con tutto il resto (ambiente, natura, ecosistema, cosmo, Umwelt o con la denominazione che più aggrada). Insomma, di relazione con l'ambiente non c'è traccia. O meglio: se ne parla solo in rapporto al lavoro («il lavoro è ricambio organico con la natura»); ma, coi tempi che corrono (inquinamenti ed emergenze varie), considerare la natura solamente come fonte di approvvigionamento di materie prime è davvero poco. Il soggetto della moltitudine é così tagliato via (ancora una volta!) da una relazione con gli altri viventi (piante, animali, cose), se non rubricandoli a mezzi per i propri fini; ma questo è proprio un tratto che marca tristemente l'Occidente e la sua storia. Qui non ci discostiamo di molto dall'antropologia e dalla cosmologia bibliche che hanno conferito all'uomo quel potere di dominare e soggiogare ogni forma vivente, e che perdura fino a oggi. Dalla moltitudine, così intesa, non ci si può attendere molto. Si tratta allora di andare oltre tali limiti, la rete di relazioni e comunicazioni plurali, di cui parla Virno, va raccolta e spinta oltre le soglie dell'umano, verso un insieme di relazioni e comunicazioni di portata cosmica, queste sì veramente plurali. Ma qui siamo già dentro un altro discorso, stiamo alludendo a una nuova grammatica.

Federico Battistutta



Guarire (da tutto?)
con i libri

Si può guarire da razzismo e/o capitalismo e/o sessismo e/o fanatismo religioso leggendo? Forse no, ma ci sarà una ragione se sempre nella storia padroni e reazionari di ogni tipo hanno bruciato i libri.
Un altro dubbio di partenza: la farmacologia (in questo caso la biblio-terapia) funziona allo stesso modo per tutte le persone? Certamente no, ha solo un valore indicativo e ognuna/o poi si aggiusterà farmaci e dosi...
E poi il dubbione, quello grande come la montagna: gli anarchici hanno le stesse malattie – ci riferiamo al corpo e alla mente - di tutti gli altri bipedi? In parte sì (dal raffreddore alla febbre del fieno) ma si suppone che noi libertari siamo abbastanza differenti che so nel “mal d'amore” o nello stakanovismo. La differenza però resta abbastanza grande o, come diceva nella copertina del numero 387 di “A”, una bella scritta murale: «Voi ridete perché sono diverso, ma io rido perché siete tutti eguali».
Ciò premesso, sbirciamo cosa ci consiglia Curarsi con i libri – sottotitolo: «rimedi letterari contro ogni malanno», ma proprio “ogni” come vedremo - di Ella Berthoud e Susan Elderkin: è un volumone (640 pagine con curioso riflesso verdazzurro per 18,00 euro; traduzione di Roberto Serrai) con la collaborazione di Fabio Stassi, pubblicato da Sellerio contemporaneamente ad altri editori europei.
Alla voce «Razzismo» per esempio leggiamo: «Chiunque sia vittima di atteggiamenti o comportamenti razzisti – o chi ancora sia propenso a dare la colpa delle tensioni razziali alle minoranze interessate – farebbe bene a leggere L'uomo invisibile, romanzo straordinario e radicale di Ralph Ellison». Io sono pienamente d'accordo con le due curatrici (in ogni senso) tranne che sull'utilizzo dell'aggettivo “razziali”: esistono i razzisti ma non le razze, è bene ricordarselo anche nel linguaggio. È una voce molto ben fatta e il libro di Ellison (del 1952) non è invecchiato di un giorno; alle ultime righe Elderkin e Berthoud rimandano alle voci «vigliaccheria» e «vergogna». Contro la vigliaccheria «Guarire con i libri» suggerisce Il buio oltre la siepe della scrittrice statunitense Harper Lee mentre per curare la vergogna consiglia L'aiuto di Kathryn Stockett: in entrambi i casi siamo negli Usa dell'apartheid.
Ultima voce di questa bella enciclopedia (ma anche ricettario o cofanetto di erbe curative) è «Xenofobia», un morbo che ha molte – ma tutte brutte – facce e proprio per questo il duo Berthoud/Elderkin consiglia un decalogo librario. Ecco i titoli: Jubiabà di Jorge Amado, Gridalo forte di James Baldwin, Vedi alla voce: amore di David Grossman, Un bambino nero di Camara Laye, il già citato Il buio oltre la siepe, Vita di Melania Mazzucco, La capanna dello zio Tom (sempre citato ma poco letto) di Harriet Beecher Stowe, Il colore viola di Alice Walker, Ragazzo negro di Richard Wright e Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar. Ottima decina ma forse troppo centrata sulle differenze di pelle, dimenticando che la xenofobia colpisce altre diversità (l'handicap, la “bruttezza”, la «grassezza», l'omosessualità...): per una seconda edizione consiglio alle due biblioterapiste di aggiungere queste altre voci.
Di autori dichiaratamente anarchici c'è Kurt Vonnegut ma fra i “nostri” conterei anche Alejandro Jodorowsky.
Contro la «mancanza di empatia» le autrici consigliano E Johnny prese il fucile di Dalton Trumbo. uno dei più bei libri antimilitaristi che io conosca. Altro grandissimo, ma in questo caso divertente, libro contro «la truppa che difende la trippa di chi ha troppo» è Comma 22 di Joseph Heller; vedrete voi a qual proposito. Per affrontare l'«eutanasia» - chiariscono le autrici: «non chiamate suicidio quello che suicidio non è» - si suggerisce Romanzo civile di Giuliana Saladino. Contro un eventuale «senso di inutilità» sembra indicata La vita, istruzioni per l'uso di Georges Perec e contro l'«egoismo» appropriato Qualcuno volò sul nido del cuculo di Ken Kesey. E che ve ne pare di Corri coniglio di John Updike per far fronte alla «voglia di mollare tutto»? Non male curarsi dall'«essere troppo organizzati» con il Kerouac di Sulla strada. Per la «fatica del vivere in città» suggerito un libro di China Mièville, dalle parti della fantascienza, La città e la città. Sul morbo della «paternità» ecco un consiglio “eroico” e uno cialtronesco: La strada di Cormac McCarthy e Pinocchio di Collodi.
Vi pare abbastanza controcorrente il disturbo di «andare dietro una donna anche se è una suora»? Probabilmente chi è libertaria/o soffre più della media dell'«insofferenza per le case di cure»; io approvo i due rimedi consigliati ovvero Dino Buzzati e Gesualdo Bufalino. E secondo voi Il figlio di Bakunin (di Sergio Atzeni) è indicato contro cosa? Curiosissimo – almeno per chi non conosce il libro – che il sovversivo La vita agra di Luciano Bianciardi sia indicato contro l'alcolismo ma anche «per quei giorni» ovvero la «sindrome premestruale». Fra gli autori ribelli (o presunti tali?) anche i due «bu» ovvero Bukowsky e Burroughs. Non poteva mancare Alice oltre lo specchio ma vi sfido a indovinare per quale terapia è consigliato. Mi sorprende che le autrici indichino Tempo di uccidere di Ennio Flaiano come rimedio al «mal di denti», io lo vedo meglio per curare «rigurgiti coloniali». E per lo «stress» ecco un eccellente antidoto: L'uomo che piantava gli alberi di Jean Giono mentre fra i «10 migliori romanzi brevi» per chi fa la chemio vi sorprenderà (o no?) trovare Accabadora di Michela Murgia.
Fra i disturbi di lettura che potrebbero riguardare gli anarchici più che altre persone indicherei «esaurire la propria biblioteca a forza di prestare libri», «essere infastiditi dall'eccessiva pubblicità» e forse «essere troppo occupati per leggere».
Ma forse vale accennare malattie di tutt'altro tipo. È sempre utile avere una farmacia attrezzata, no?
La dose di 10 medicine per volta torna su 41 disturbi particolari: «adolescenza» è la prima voce ma ci sono anche «per quando si resta chiusi fuori», «per evadere» (non in quel senso), ovviamente «da leggere al gabinetto», «per fare appassionare il (o la) partner... alla letteratura», «sulla fine di una relazione», «da leggere in ospedale», e persino «per coprire qualcuno che russa». Ipotizzo che anche nell'area libertaria questi mali siano diffusi.
Ci sono voci più sorprendenti: «perdita della memoria», «cervicale», «fare il bullo», «sesso, farne troppo poco» ma anche «farne troppo», «malessere del lunedì mattina», «wanderlust», «caffè, non riuscire a trovare una buona tazza di» oppure «vecchiaia, orrore della», «sentirsi messo da parte», «vendere l'anima» (direi che non è roba da anarchici), «furbizia», «crisi di identità», «allergia al matrimonio» (in effetti), «bulimia», «apatia», «tinnito» (il sibilo alle orecchie), «disoccupazione», «pianto, bisogno di un bel», la terribile «diarrea», la «miopia» (tre eccellenti libri curativi), «tentazione di vuotare il sacco» (su questo vigilerei al massimo), «postumi della sbornia» (ehm), «sentirsi un fallito», «emorroidi»... e persino «tristezza da compleanno» o «andare a sbattere con l'alluce».
Non potevano mancare i «disturbi della lettura», con una trentina di malattie note: dall'«acquisto compulsivo» al «leggere invece di vivere» passando per «il desiderio di sembrare colti». E per il comune, banale raffreddore? Cito: «Non esiste una cura. Ma è un'ottima scusa per avvolgersi in una coperta insieme a un romanzo» ed ecco 10 consigli senz'altro da tener presenti.

Daniele Barbieri



Azioni criminose, terrore, potere
nella Sicilia dell'800

Le vicende storiche, cruente e sanguinarie, di quello che fu chiamato banditismo maurino, perché aveva origine a San Mauro Castelverde, un paese della Sicilia centro-occidentale, sono state indagate da Giovanni Nicolosi che vi ha dedicato un volume (La Sicilia dell'ottocento prigioniera dei briganti maurini, Vittorietti edizioni, Palermo 2013, pagg. 228 € 15,00), estremamente documentato nella ricostruzione dei fatti e avvincente e scorrevole nella stesura, che ha un pregevole andamento narrativo.
I fatti di cui Nicolosi scrive si sono svolti alla fine dell'ottocento e hanno visto per protagonisti due terribili bande di briganti, quella di Vincenzo Rocca e Angelo Rinaldi e quella capeggiata da Melchiorre Candino. La caratteristica peculiare delle due bande è che hanno operato in un'area estesa della Sicilia, nel territorio di ben tre province, Palermo, Messina ed Enna, facendo base nel loro alto, isolato - e per questo inaccessibile alle forze dell'ordine - Comune: i briganti maurini hanno operato in paesi, campagne e contrade delle Madonie e dei Nebrodi, le due catene montuose più suggestive dell'Isola, facendo dei boschi e delle loro fitte vegetazioni il loro introvabile rifugio e cercando di costruire di loro stessi - alla maniera di nuovi Robin Hood – l'immagine di briganti che rubano ai ricchi e aiutano i poveri.
Azione comune delle due bande fu infatti quella dei sequestri di nobili e di proprietari terrieri ai fini della riscossione del riscatto: il rapimento più famoso, ad opera della banda di Candino, fu quello del barone Spitaleri di Adrano – un grosso centro agricolo della provincia di Catania - per il rilascio del quale, il brigante ricevette un compenso, per i tempi, stratosferico; bersagli e vittime di taglieggiamento furono anche parecchi nobili della provincia di Enna: il barone Varisano di Enna, il barone Salamone di Nicosia, il conte Bonsignore di Leonforte.
Delle bande maurine, Nicolosi racconta la nascita, la vita dei capi e dei gregari, le azioni criminose di cui si fecero carico, il terrore che seminarono – non avendo riguardo neanche per i parenti sospettati di tradimento –, il potere che esercitarono e la fine violenta a cui andarono incontro: decimati in uno scontro a fuoco con i carabinieri, capi e membri della banda Rocca e Rinaldi; trucidati dai fratelli Leanza, campieri e malavitosi anch'essi, in un podere di Cesarò - un paese di montagna posto a confine tra la provincia di Enna e quella di Messina - Candino e i suoi uomini. Dei briganti, Nicolosi indaga acutamente l'uso che facevano dei comunicati murali e delle lettere ai quotidiani del tempo per propagandare le loro azioni e per comunicare con i loro amici e i loro nemici; effettua poi un'interessante analisi delle foto che li ritraevano: quelle che gli stessi briganti si facevano fare, in pose eroiche e da liberatori del popolo; quelle delle forze dell'ordine che li facevano fotografare da morti, dopo gli scontri a fuoco. Esamina infine, Nicolosi, il vasto repertorio di canti popolari che dei briganti narrava, con trepida enfasi, la vita e le gesta, presentando 'cunti' in gran parte poco conosciuti, come quello che narra de 'I fatti di Troina', altro paese dei Nebrodi.
Un'opera di microstoria, quella di Nicolosi, che porta alla luce documenti e avvenimenti circoscritti ad un'area piccola e remota della Sicilia, ma importante perché mostra bene ambienti e istanze che causarono il fenomeno del brigantaggio, che va riconsiderato come una forma di rivolta sociale (non a caso repressa dai campieri al servizio dei grandi feudatari, quelli dai quali nascerà la mafia come organizzazione criminale strutturata, gerarchica e alleata ai potenti): rozza, violenta, spropositata ma di fatto generata da un contesto storico di sopraffazione e dominio selvaggio esercitato dai proprietari terrieri e dai politici del nuovo regno italico, organici ai loro interessi.
Come ha sottolineato, infatti, nella sua prefazione al volume, lo storico siciliano Mario Renda, che - riprendendo l'interpretazione del banditismo come ribellione all'ordine esistente, avanzata da Hobsbaum nei I ribelli (Einaudi, 1966) - afferma: 'il banditismo maurino può essere inteso come ribellismo in rapporto con la società nazionale'.

Silvestro Livolsi



Il trionfo
dell'egoismo liberale

Il 4 e il 27 marzo del 1986 la rete televisiva britannica Chanell 4 mandò in onda una conversazione tra Cornelius Castoriadis e Christopher Lasch, moderata da Michael Ignatieff.
Sono trascorsi 28 anni da allora e l'analisi delle ragioni profonde della crisi della sinistra in Europa, tema dell'incontro, è ancora attuale. E questo non è un buon segno. I due studiosi concordano infatti nell'individuare un elemento di tale crisi che da allora si è dispiegato sino a non essere più neppure avvertito. Si tratta dell'individualismo liberale che ha contagiato la cultura di sinistra sino a trasformarla alla radice. Cornelius Castoriadis e Christopher Lasch (La cultura dell'egoismo. L'anima umana sotto il capitalismo, Eleuthera 2014, postfazione di Jean-Claude Michéa, traduzioni di Andrea Aureli e Carlo Milani pagg. 68, euro 8,00) partono entrambi dalla consapevolezza aristotelica che «quel che noi chiamiamo individuo è in un certo senso una costruzione sociale» (p. 9), che «una vita morale è una vita vissuta in pubblico» (p. 11), che -come sintetizza Ignatieff a conclusione della conversazione- «nella società attuale non stiamo più producendo individui capaci di incarnare la visione aristotelica. Ed è appunto questo uno dei messaggi forti di stasera, che ci lascia con una domanda spinosa: siamo ormai un altro tipo di individui? Abbiamo perso quell'ideale?» (p. 36).
Sì, la sinistra lo ha perso, sostituendo la lotta di classe con una ideologia dei diritti umani di evidente impronta liberale, non certo marxiana. Invece che affiancarsi alla lotta di classe, la lotta contro le discriminazioni ha sostituito la lotta di classe, segnando in questo modo il tramonto della sinistra. La lotta contro le discriminazioni formali è infatti semplicemente liberale, come le tesi di Friedrich Hayek ben testimoniano. «Sotto l'accorto magistero di François Mitterrand la 'lotta contro il razzismo e contro ogni forma di discriminazione prendeva del tutto logicamente il posto dell'arcaica' lotta di classe, diventando la nuova buona novella dell'intellighenzia 'illuminata' » (p. 43).
Nella densa Postfazione Jean-Claude Michéa ricorda le analisi di Rawi Abdelal, che nel suo Capital Rules mostra come «la sinistra francese si era addirittura posizionata in prima linea a sostegno di tutte le lotte della borghesia europea per sgombrare il campo da tutti gli ostacoli politici e culturali che si frapponevano all'espansione 'civilizzatrice' del mercato mondiale deregolamentato e della sua volontà di crescita illimitata» (pp. 42-43).
Alla lotta per il mutamento delle condizioni sociali di produzione si è sostituita la «vittimizzazione come unico criterio di giustizia in grado di ottenere un riconoscimento. Se si riesce a provare di essere stati vittima di qualcosa, di essere stati discriminati (e quanto più a lungo lo si è stati, tanto meglio è), questo diventa la base su cui fondare le proprie rivendicazioni» (Lasch, p. 20). Alla coscienza di classe si è sostituita l'enfasi sull'identità mutevole e volontaria dell'individuo, quando invece è evidente che «nessuno è senza passato, anche se la nostra società ci spinge a negarlo, nessuno ha carta bianca sulla propria identità. [...] Di conseguenza, è necessario riconoscere i limiti al grado di libertà che ha ogni individuo di scegliere identità intercambiabili, magari per cambiarle ogni settimana» (Lasch, p. 31).
I dispositivi concettuali di questa autodissoluzione sono consistiti -secondo Castoriadis, Lasch e Michéa- nella negazione delle invarianti antropologiche, nella rinuncia a ogni identità collettiva a favore dei diritti del singolo, nel mito della crescita illimitata, al quale sono legati quelli dello 'sviluppo sostenibile' e dell'equa distribuzione dei profitti del capitale. Si esprime qui una certa ironia verso coloro che si sentono di sinistra perché negano che «la differenza tra un uomo e una donna potrebbe avere un qualche rapporto con la loro rispettiva anatomia» e che a questo materialismo somatico preferiscono quella che Michéa definisce «l'ideologia neospiritualista» dei Gender Studies (p. 44). Di sinistra sarebbe piuttosto «il radicale rifiuto di un mondo fondato -in nome della 'libertà individuale' e dei 'diritti dell'uomo'- sulla concorrenza estenuante di tutti contro tutti [...]; il rifiuto della conseguente riduzione degli esseri umani allo statuto di 'atomi isolati privi di consapevolezza generale' (Engels)». La sinistra del XXI secolo ha rinunciato alla critica nei confronti di un mondo dominato dall'iperindividualismo e ha accettato come inevitabile e foriera di opportunità «una 'società dei consumi' basata sul credito, sull'obsolescenza programmata e sulla propaganda pubblicitaria» (pp. 47-48). E quindi «il radicale sradicamento degli individui e la metodica svalutazione di ogni forma di appartenenza storica e culturale che lega effettivamente tali individui a un passato, a dei luoghi o ad altri esseri (o, in altri termini, l'interiorizzazione da parte di ciascuno dell'imperativo incondizionato della 'flessibilità' e della mobilità geografica e professionale generalizzata) dovevano prima o poi apparire per ciò che essenzialmente sono: l'imperativo categorico primario del nuovo modo di vita capitalista, e dunque la verità ultima di qualsiasi liberalismo realmente esistente» (Michéa, p. 47).
È sulla base di tale consapevolezza, certo assai amara, che Castoriadis e Lasch «pur attraverso percorsi filosofici differenti, erano entrambi giunti ad avere lo stesso sguardo disincantato sulla triste evoluzione delle moderne sinistre occidentali e su quello che fin dal 1967 Guy Debord definiva 'Le false lotte spettacolari delle forme rivali del potere separato' (La società dello spettacolo, tesi p. 56)» (Michéa, p. 41). Un disincanto che li induce ad affermare che ormai «da lungo tempo il divario destra-sinistra, in Francia come nel resto del mondo, non corrisponde più ai problemi del nostro tempo, né riflette scelte politiche radicalmente opposte» (Castoriadis, Le Monde, 12.7.1986, qui a p. 57) e a riconoscere «l'obsolescenza del divario tra destra e sinistra» (Lasch, p. 57).
Ma per entrambi la possibilità della libertà nell'eguaglianza è sempre aperta. Castoriadis, in particolare, insiste sulla natura «tragica» della libertà poiché essa non possiede limiti esterni sui quali fare affidamento ed è fondata invece sulla pratica dell'autonomia, il cui modello rimangono per lui sempre i Greci. Nelle loro tragedie, infatti, «l'eroe non muore perché c'è un limite che ha violato. Questo è il peccato, il peccato cristiano. L'eroe tragico muore a causa della sua hybris, della sua superbia, perché trasgredisce in un contesto dove non esistono limiti predefiniti. Questa è la nostra condizione» (p. 35). La negazione del limite sta a fondamento della presunta razionalità liberale, il cui principio di crescita indefinita contrasta con la realtà dei limiti del pianeta, il cui principio di opportunità per tutti confligge con la realtà del profitto che moltiplica soltanto se stesso. Contro l'illusione di una crescita illimitata Michéa ricorda «la distanza politica che separa oggi un 'uomo di sinistra' (o di estrema sinistra) da un partigiano della rivoluzione socialista. [Distanza che induce] sempre più spesso gli ideologi della sinistra liberale ad assimilare ogni critica della 'crescita' e ogni progetto di rottura radicale del controllo capitalista sulla vita a una ripresa pura e semplice, da parte dei 'nuovi reazionari', di idee vetuste espresse dal 'fascismo' e dall' 'estrema destra'» (p. 64).
Questo libro non si limita a una critica argomentata e convincente dell'individualismo di sinistra. Propone delle alternative lucide e praticabili, fondate sul fatto che tradizione e mutamento devono essere viste e vissute in una logica non oppositiva ma inclusiva di identità e differenza: «Perciò il problema non è tanto quello di giustapporre l'immobilità sempre mortifera al cambiamento sempre salvifico (secondo l'abituale retorica della sinistra), ma di imparare e distinguere i cambiamenti che possono verificarsi a un ritmo umano (si rivela qui centrale la questione del tempo sociale e della sua accelerazione moderna) e quelli che vengono imposti solo in base alla logica omogeneizzante del mercato globale, del diritto astratto e della cultura alienante che ne è la traduzione» (Michéa, nota 21, p. 67). E quindi, conclude Michéa, un programma politico di sinistra -vale a dire anticapitalista, egualitario e libertario- deve «definire le istituzioni concrete grazie alle quali una 'società libera, egualitaria e decente' (George Orwell) possa conferire tutto il proprio senso a questa dialettica creatrice tra il particolare e l'universale» poiché «non è certo demonizzando e bollando come 'reazionario' ogni sentimento di appartenenza e di filiazione, non è etichettando per principio come 'passatista' l'attaccamento legittimo dei popoli alla propria lingua, alle proprie tradizioni e alla propria cultura (ed è proprio questo oggi il nucleo residuale di tutte le metafisiche di sinistra) che gli individui moderni potranno trovare il sentiero verso una emancipazione possibile, individuale e collettiva, che sia al tempo stesso reale e davvero umana. Ecco dove sta tutta la differenza fra una lotta politica che, sulla scorta di quella degli anarchici, dei socialisti e dei populisti del XIX secolo, mirava innanzitutto a offrire agli individui e ai popoli i mezzi per accedere a una vita realmente autonoma (condizione basilare per ogni vita 'bella' e, possibilmente, felice), e un processo storico di perpetua fuga in avanti (sotto il triplice pungolo del mercato 'autoregolato', del diritto astratto e della cultura mainstream) che quasi più nessuno, quanto meno tra le file delle nostre sfavillanti 'élite', si cura di padroneggiare a fondo e che potrà solamente condurre (ancorché santificato con il nome di 'Progresso') a una definitiva atomizzazione della specie umana» (pp. 54-55).
Non si può dire che non fossimo stati avvertiti.

Alberto Giovanni Biuso



Un affresco collettivo,
una botta di entusiasmo

Oltre quaranta i ritratti presentati da Massimo Ortalli (Ritratti in piedi, dialoghi tra storia e letteratura, La Mandragora, Imola 2013, pagg. 574, € 32,00), dati alla stampa raccogliendo i contributi pubblicati sulla rivista anarchica “A” in nove anni di assiduo, appassionato, puntuale lavoro di sistemazione. In quasi seicento pagine, sono racchiusi molti tra i variegati apporti diffusi, di recente o in passato, nell'ambito storico e letterario in seno all'anarchismo. Un'operazione davvero lodevole e ben riuscita, mai tentata prima da altri.
Ritratti credibili, come li definisce Paolo Finzi nella sua convinta e partecipata introduzione all'opera, riprendendo un motto dell'amico don Andrea Gallo: non mi interessa se tu sei credente, mi interessa che tu sia credibile.
Ritratti singoli o raffigurazioni plurali, voci corali o assoli, dai colori caldi o a forti tinte, non delineati seguendo una linea sequenziale, cronologica, e proprio per questo restituiti a vita autonoma, in un dialogo con ritratti reali. Il filtro della letteratura è ampliato da approfondimenti bibliografici, documenti, lettere, saggi storiografici e fonti iconografiche: frontespizi di riviste, schizzi, immagini delle copertine di libri, disegni serigrafati, locandine, manifesti, fotografie di ritratti “in piedi”, come quella eloquente del Primo Maggio anarchico, del 1913, riportata in copertina.
Gallerie di affreschi ispirati al titolo dell'opera di Gianna Manzini Ritratto in piedi del padre Giuseppe, amato, spesso incompreso. Un rapporto intimo, difficile da conciliare con l'impegno nella vita pubblica. Memorabili per lei, il Primo maggio passato con il padre o il cavalluccio sopra le ginocchia dondolanti di un buffo ometto con la parrucca e i baffi finti, quale si era presentato Errico Malatesta nella bottega dell'amico Giuseppe. Mentre fuori, il canto dei libertari si mescolava con “l'autentico brusìo della vita”.
Cavatori, operai, minatori, falegnami, calzolai, strampalati, bombaroli, ma anche scrittrici e giornaliste insieme a idealisti, intellettuali, romantici, sottoproletari ribelli, pacifisti tolstoiani, ministri anarchici, cavalieri dell'ideale o sognatori. Una trama cromatica accesa lega tra loro le figure: l'aver creduto e continuare a credere nelle proprie idee, rischiare in prima persona, resistere a testa alta e sperimentare sogni possibili, per cambiare un mondo che non si decide a cambiare.
Incontriamo ritratti come quelli di Pietro Gori, il grande poeta dell'utopia delle idee libertarie. Anche noi partecipiamo ai suoi funerali insieme alla sentita solidarietà delle popolazioni elbane e della Versilia attraverso le parole del bel romanzo Luigi Regoli anarchico di Angelo Toninelli. L' autore ci accompagna anche in un viaggio storico nell'anarchismo agli inizi degli anni Settanta dell' Ottocento: Un sogno d'amore di un'intera generazione che per prima, dopo l'unificazione nazionale, sulla spinta della Comune di Parigi, si fa internazionalista, rivoluzionaria, anarchica.
Accanto, i quadretti di Armando Borghi e dell'instancabile agitatore Malatesta, redattori del quotidiano Umanità Nova incarcerati ingiustamente, e di Luigi Fabbri, l'intellettuale visto con gli occhi della figlia Luce, dopo lo scoppio nel '21 dell'ordigno al Teatro Diana di Milano: “È l'unica volta che ho visto piangere mio padre”. Morti vendicati e nefandezza in nome dell'anarchismo ne offuscano l'ideale di solidarietà ed emancipazione. Incrociamo anche il ritratto di Giuseppe Mariani, l'unico coinvolto nelle vicende del Diana e a scriverne, dopo aver maturato in 27 anni di galera il rifiuto della violenza.
Nell'ampia e ben allestita galleria ci imbattiamo anche in personaggi meno noti scovati con dedizione certosina. È il caso del ritratto dell' operaia pisana Jessa Fontana scaturita dalle pagine di Una città proletaria di Athos Bigongiali, temuta già a 14 anni per il suo contributo attivo all'anarchismo. Battagliera, energica, pericolosa, il suo primo arresto, nel 1901 per “istigazione a delinquere”.
Accanto ai ritratti presentati dalla letteratura russa dell'Otto-Novecento, da Turgenev, a Kropotkin, Dostoevskij, troviamo autodidatti come Ausonio Zuliani, Tomaso Concordia, Umberto Postiglione che hanno dato dignità letteraria al teatro degli esclusi e dei sovversivi. Non teatro minore, ma alto strumento culturale di sensibilizzazione, coesione e identità, per un proletariato dal gusto fine e ricercato.
Vengono altresì riabilitati ritratti volutamente dimenticati da tanta manualistica in uso nelle scuole, come Metello di Vasco Pratolini.
La conferma che l'anarchismo da sempre ha rappresentato un' interessante occasione di spunto letterario, anche con i suoi pregiudizi e stereotipi lo dimostrano le pagine d'appendice Il figlio dell'anarchico di Carolina Invernizio. Un ritratto collettivo di tutti gli anarchici dell'epoca che si intreccia ad altri stereotipi che convivono nella retorica letteraria in Duri a Marsiglia, di Gian Carlo Fusco: il bandito gentiluomo e l'anarchico in bilico tra legalità e illegalità.
Un affresco plurale quello della Banda Bonnot. Pino Cacucci, In ogni caso nessun rimorso tra ricostruzione storica e invenzione letteraria racconta la delicata questione dello scontro dialettico interno al movimento anarchico francese agli inizi del Novecento. Fanno da contraltare le Memorie di un rivoluzionario di Victor Serge, incarcerato perché ritenuto implicato nella Banda. Ne è tratteggiato un ritratto ricco di profonda partecipazione umana.
La funzione pedagogica del romanzo apre le porte della galleria su L'eroe della folla di Leda Rafanelli. Un ritratto in formazione quello del protagonista Lorenzo, verso la consapevolezza dello spirito libertario e delle idee di riscatto sociale, insieme all'altro ritratto dell'eroe Comunardo, un vero faro di riferimento per la classe che rappresenta e per la quale lotta.
Emblematica l'altra faccia di un'atavica e primitiva Puglia di cafoni e analfabeti. Terra nera di Giuse Alemanno, arida e avara di frutti, tuttavia, a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, terra feconda poiché cultura anarchica e cultura contadina vi si fondono. Vediamo Bruttacapa- Malatesta, un ritratto “in piedi”, unica forma di resistenza al dilagante individualismo e contro la cultura dello sfruttamento. Ideali vivi, ancora pochi anni or sono, presso la comunità di Canosa di Puglia, la Carrara del sud, in cui ben si esprime tra le masse, l'ideale di libertà e fratellanza.
Ritratti onirici e fantastici, concreti e reali introducono nel romanzo corale Zero maggio a Palermo ben ricostruito da Fulvio Abbate nel ricordo del popolo della sua città intorno agli anni Settanta.
E come non lasciarsi appassionare da Caserio, garzone fornaio a Motta Visconti, ghigliottinato a Lione il 16 agosto 1894, poco più che ventenne, per aver attentato alla vita del presidente della repubblica francese Sadi Carnot. Rino Gualtieri in Per Quel Sogno di un mondo nuovo ci introduce attraverso una cronaca romanzata nel quadro della Milano metropoli in formazione, città dello sfruttamento e delle ingiustizie. E nelle angherie cui erano sottoposti gli italiani costretti ad emigrare per lavoro in Francia, coglie le ragioni profonde del moto di protesta che hanno armato il fornaio. Ritratto controverso, dibattuto, amato, guardato con rispetto anche dall'opinione pubblica francese e dai giudici, per quel suo senso di giustizia profondo e di amore altruistico. Ci penserà invece Cesare Lombroso a tratteggiare del contadino fornaio un ritratto da psicopatico: l'epilessia ereditata dal padre in Caserio prenderà forma di “epilessia politica”.
Sempre a Milano, il lucido ritratto di Pino Pinelli è delineato da Camilla Cederna e da Licia Rognini, moglie di Pino. Lei stessa un altro bel ritratto “in piedi”, per la sua caparbietà, il coraggio, la capacità di resistere e a non lasciar perdere, come emerge dalla toccante conversazione riportata da Piero Scaramucci. E il volo di Pinelli dal quarto piano rappresentato in un'atmosfera surreale ironica, grottesca e sarcastica da Dario Fo, interprete straordinario di quella controinformazione sulla strage di Milano, che ha cambiato la storia del nostro paese.
E tra tanti altri da scoprire passeggiando nella galleria, conosciamo altresì la resistenza nella guerra civile spagnola attraverso i ritratti di Buenaventura Durruti e di Enrique Castillo. Oppure l'autoritratto di un anarchico, meccanico d'officina, antifascista, con le sue memorie dal carcere e dal confino, fino all'internamento nei campi di concentramento, e nel lager di Dachau per motivi politici.
La prospettiva dei ritratti in un affresco di colori luminosi e ombreggiati non poteva che condurci oltreoceano. Il Brasile, terra mitica, meta di emigrazione di molti libertari italiani. Ne fa un ritratto corale Zélia Gattai, nel suo fortunato racconto autobiografico Anarchici, grazie a dio in cui traspare grande umanità e coerenza ideale dei libertari italiani, nel loro grande sforzo di lotte sociali ed emancipazione.
Edgar Rodrigues documenta altri due bei ritratti: Oreste Ristori, fondatore del giornale La Battaglia, uno degli organi brasiliani di propaganda più diffusi e importanti, insieme a quello di Alessandro Cerchiai, collaboratore di Ristori oltre che netturbino, tornitore e grande “maestro”.
Sempre in Brasile, Alfonso Smith, giornalista brasiliano, attraverso le memorie scritte dallo stesso fondatore Giovanni Rossi sotto lo pseudonimo “Cardias”, ci presenta la Colonia Cecilia fondata a Palmeria, nel Paranà. Il villaggio di canne chiamato “Anarchia”, con la sua azienda agricola e la bandiera rosso e nera issata su una palma, dove vige la consapevole legge non scritta: “ciascuno secondo le proprie possibilità, a ciascuno secondo i propri bisogni”.
Per Laura Pariani, Dio non ama i bambini nella terra dell'oro: l'Argentina. Con i suoi convertillos, sorta di comunità autonome, sembra replicare le corti venete, lombarde, piemontesi, luoghi di origine degli emigrati. Dove si riproducono solidarietà e miseria, dove i più piccoli sono vittime di sanguinosi fatti di cronaca. Pagine in cui compare Fortunato Serantoni -un figlio morto perché non c'era denaro per curarlo- attento testimone dell'impegno dei libertari, anche di quelli di lingua spagnola.
E poi il Messico, sempre attuale. Con Il collare spezzato di Valerio Evangelisti, tra una moltitudine di personaggi conosciamo due fratelli anarchici Ricardo e Enrique Flores Magón, le influenze che esercitarono su tutto il movimento rivoluzionario del Messico, e le sollecitazioni per capire cosa ancora agita il presente.
Insomma, Ortalli riesce a farci apprezzare le proposte presentate nella sua galleria anche grazie a una scrittura chiara, invitante, fluida. E il piacere della lettura delle quasi seicento pagine di sguardi plurali invita a un ulteriore dialogo aperto. In particolare con i lettori che non conoscono questo mondo, ma rappresenta altresì una sollecitazione rivolta a tanta parte delle giovani generazioni virtuali, dai pollici ipertrofici e dalla testa china, cresciute con grandi fratelli, dragon ball, playstation e telequiz.
Per questo, all'antologia si dovrebbe ricavare uno spazio negli scaffali delle biblioteche pubbliche e in quelle scolastiche. L'affresco plurale della galleria ha infatti valore di testimonianza. Ritratti che hanno saputo credere, lottare fino in fondo, continuare a sperare e sognare che un mondo migliore sarà possibile. Una botta di entusiasmo, di speranza per il presente, un invito ai giovani ad alzare la testa e mettersi “in piedi”.

Claudia Piccinelli



Povera principessa,
poveri noi tutti

C'è qualcosa di più noioso che essere una principessa rosa? (Raquel Dìaz Reguera, pp.48, € 16, Settenove) è un racconto dedicato ai bambini e ricco di illustrazioni. Nonostante sia rivolto ad un pubblico di lettori sopra i cinque anni, è bene non farsi ingannare: quella scritta da Reguera non è semplicemente una storia pensata per i più piccoli, ma qualcosa di più profondo e complesso. Sfogliando le pagine, si può comprendere la forza educativa e l'acume presenti all'interno del testo, il cui personaggio principale è Carlotta, una ''principessa rosa'' come viene descritta dall'autrice.
Fin dall'inizio della narrazione, la protagonista si trova a dover fare i conti con le norme e le consuetudini che regolano i suoi comportamenti e che prescrivono la condotta che meglio si addice alla sua posizione. ''Le principesse sono molto delicate e non possono uscire dal palazzo perché potrebbero ammalarsi, non possono correre e saltare perché potrebbero rovinare i loro preziosi vestiti di seta. E non possono vestirsi né di verde né di azzurro, perché certi colori non si addicono a una principessa.''
Carlotta si accorge presto delle imposizioni alle quali è sottoposta, che non le permettono di esprimersi e vivere secondo le proprie inclinazioni; si trova così a dover scegliere tra i canoni predefiniti ed il proprio sconfinato desiderio di espressione individuale. ''Sognava di risolvere misteri, costruire aerei di carta, nuotare a cavallo di un delfino, seguire i piccioni viaggiatori e scoprire i confini della Terra viaggiando in una gigantesca mongolfiera.'' La protagonista di questo piccolo libro è 'solo' una bambina, ma non per questo accetta senza remore gli obblighi che vincolano il suo agire. Non si arrende a ciò che è considerato conforme e consono, ma si interroga sul motivo delle prescrizioni e pone lo stesso interrogativo ''ai grandi'' che fino a quel momento si erano dimostrati acquiescenti nei confronti degli stereotipi. ''Le principesse sono come le rose, fiori fragili i cui petali non resisterebbero nemmeno ad un soffio di vento.'' Quella descritta da Reguera è la storia di un piccolo grande personaggio che sa affrontare gli adulti con semplicità e che ha il coraggio di affermare la volontà di inseguire i propri innumerevoli e fantasiosi sogni.
Per sottolineare come il genere femminile non sia l'unico ad essere colpito dalle standardizzazioni, l'autrice inserisce la figura del ''principe azzurro'', incastrato in una vita monocolore che gli impedisce di dispiegare la propria potenza creatrice.
L'obiettivo di Reguera è quello di porre l'accento sull'effettività della divisione di ruoli e sulla presenza, all'interno della nostra società, di una categorizzazione binaria maschio-femmina da cui derivano regole di comportamento, come quelle che limitano l'azione individuale di Carlotta. ''Io non voglio essere una principessa rosa. Voglio viaggiare, giocare, correre e saltare. Voglio vestirmi di rosso, di verde o di violetto.'' L'esistenza di tali norme può essere interpretata come un tentativo di semplificare il caos generato dalla libera espressione di sé: con l'intento di portare ordine all'interno delle comunità, vengono forniti modelli di condotta che si richiede siano rispettati pena l'esclusione o la marginalizzazione.
Tra le pagine di questo libricino illustrato, arrivato in Spagna alla terza edizione, si trova un racconto sugli stereotipi che si tramandano di genitori in figli; una storia sul coraggio di pensare con la propria testa, di agire attivamente ed in prima persona per non lasciare che le consuetudini influenzino le nostre vite.

Carlotta Pedrazzini