rivista anarchica
anno 44 n. 389
maggio 2014





Crêuza de mä

“(...) Appena uscito, Crêuza non sollevò nessun tipo di entusiasmo che non fosse quello di qualcuno di voi critici. La casa discografica non ci credeva, qualche rappresentante mi chiese se ero diventato matto ed in particolare il venditore della Liguria mi fece sapere, stizzosamente, che neppure a Genova c'era qualcuno che ci avesse capito un cazzo. Nel giro di un paio di mesi Crêuza aveva venduto qualcosa come 45mila copie, perfettamente corrispondenti alle previsioni mie e di Pagani. Poi vi ci siete messi voi, a dire che Crêuza era un capolavoro, a riempirci la giacca di medaglie fino a quando la gente prima si è incuriosita e poi ha cominciato ad apprezzare. Così le prime 45mila copie sono diventate le oltre trecentomila di oggi...”
(Fabrizio de André a Giancarlo Susanna, 1990)

Com'è strano il destino di “Crêuza de mä”. Fabrizio de André e Mauro Pagani trent'anni fa costruirono in laboratorio il prototipo di quella che negli anni a venire sarebbe stata la musica esposta negli scaffali dei negozi sotto l'etichetta world music. Musica che appartiene alla gente, fatta dalla gente per diffonderla tra la gente. Una musica difficilmente misurabile su di un calendario e su di una carta geografica: è musica che riporta alla mente certi paesi specifici ma che è inadatta a restare chiusa dentro a dei confini e che anzi si presta a contaminazioni, scambi e manipolazioni. È musica insieme antica ed innovativa, pare affondare le radici nel passato eppure è senza tempo. Fabrizio e Mauro ci misero dentro tutto il loro amore e le suggestioni raccolte in anni di letture e di viaggi. In testa un'idea vecchia, la stessa delle genti che costruiscono le case sulla costa: l'idea del mare messo lì a riunire le sue sponde e non per tenerle lontane, la distesa d'acqua immaginata e vissuta come porta aperta all'incontro, come occasione d'attraversamento e non muro o ostacolo a separare. Stavo riflettendo su come questa idea s'era fatta strada nella testa dei veneziani, che avevano trovato nelle terre emerse della laguna un rifugio dall'invasione e dal massacro, ma che avevano poi imparato a padroneggiare quella distanza di sicurezza e a sfruttarla a proprio vantaggio trasformandosi in esploratori, poi in viaggiatori, in commercianti. E in predoni, anche. Ma Fabrizio e Mauro no: neanche una briciola di pensiero distribuita agli avvoltoi dell'industria dello spettacolo, neanche uno sguardo volto all'arrampicata in alto alla vetta delle classifiche di vendita. Loro avevano in testa e negli occhi una via tracciata sotto il mare, una via segreta che nei secoli si è lasciata mappare solo da pochi.

(...) Volevo mettere l'accento sul fatto che questo è il contrario del disco folcloristico, cioè proprio il contrario. E' casomai un disco etnico, che va a cercare le etnie coi loro strumenti, i loro suoni e che cerca di omogeneizzare per cercare di dare l'idea di quello che poteva essere un certo tipo di mondo mediterraneo un po' di anni fa, e forse lo è ancora adesso. Il mondo visitato dalle barche, voglio dire, gli sciabecchi, le galee, e che fosse strettamente mediterraneo e quindi la scelta della lingua genovese, io continuo a chiamarla lingua...”
(Fabrizio de André a Ferdinando Molteni ed Alfonso Amodio, 1984)

Sembra siano state scritte a proposito le parole di Ivano Fossati, un altro grande autore ligure: se c'è una strada sotto il mare prima o poi ci troverà. Ed effettivamente una qualche crêuza subacquea queste canzoni l'hanno trovata e percorsa, ed appartengono sì a Pagani e a de André ma anche a tutti, un poco anche a te che leggi e a me che sto scrivendo, un tesoro comune e condiviso. Canzoni impossibili a ricondurre al guinzaglio dell'appartenenza etnica, che si sono svelate al vecchio contadino americano che le legge commosso come ballate blues italiane (lo ha raccontato Beppe Gambetta) come ai buskers polesani e romagnoli (vi invito ad ascoltare come abitano nelle bocche di Bevano Est e Marmaja nelle raccolte a sostegno di questo giornale nel segno di Faber: sembra abbiano messo radici in riva ai nostri fiumi, sembra siano sempre state lì, come certi grandi alberi, come le colline). Considerate da alcuni solo come dei bei falsi, quelle di “Crêuza de mä” non sono nate come canzoni popolari, ma lo sono divenute. Tutti noi le abbiamo portate via carezza dopo carezza, bacio dopo bacio: sono le parole che avremmo voluto dire e sentirci dire, sono le parole che non siamo stati capaci di dire. Ciascuno, con l'armonia, ne porta il profumo con sé. Per me “D'ä mæ riva”, odora (un po' banalmente, diciamocelo, ma per me è importante) come l'aria luminosa d'argento e verde e azzurro che mi entrava nel naso quand'ero piccolo nelle traversate in vaporetto dal paese fino a Venezia. Odora di peocere e di stravedamento, di barene e murazzi. Al mio naso di shakul “Sidún” ha l'odore metallico bruciato dei vecchi televisori che portano cattive notizie.

(...) Non sarebbe stato possibile fare questo disco in nessun'altra lingua. E' molto tempo che io volevo cantare in un idioma diverso dalla “lingua dell'impero”. E solo in questo modo, con queste parole che ho usato fin da bambino, mi era possibile: hanno la particolarità di scivolare sopra le note, e sopra note dolci, orientali. Il genovese è pieno di dittonghi, di iati, di aggettivi tronchi che si allungano e si accorciano quasi come il grido di un gabbiano. Tra gli idiomi neolatini è il meno latino di tutti, ha 1500 vocaboli arabi, e araba ne è la melodia...”
(Fabrizio de Andrè a Silvia Garambois, 1984)

A trent'anni dalla prima uscita, di “Crêuza de mä” viene pubblicata una versione rimixata curata da Mauro Pagani, che già ne aveva offerto dieci anni fa una bellissima rilettura. Il disco di una volta adesso ha la forma di due cd nascosti sotto la prima e la quarta di copertina di un libro. Sarò sincero: mi sono avvicinato a questo lavoro col mio gran bel carico di dubbi, che però si sono diradati sin dal primo ascolto lasciando spazio a un grande stupore. È indiscutibilmente “quel” lavoro, ma “questo” suona diverso, suona bene, anzi suona benissimo. Mauro Pagani è riuscito nella magia. Mi sembra di essere davanti ad una di quelle immense opere pittoriche restituite agli occhi del pubblico dopo anni di restauro: la mia bocca si apre di meraviglia, le orecchie fanno fatica ad abbeverarsi di tutte queste sorprese, dei particolari rimasti nascosti e finalmente svelati, ondate di suono e di emozione una dopo l'altra che non lasciano il tempo di riprendere fiato. Sembra quasi un disco nuovo, fantastico, mai sentito prima.

Marco Pandin