rivista anarchica
anno 44 n. 389
maggio 2014


governo Renzi

Il vecchio che avanza

di Antonio Cardella


Il nuovo che avanza ha i connotati di un passato remoto che credevamo di aver sepolto.


Il vecchio sedeva sull'uscio di una stretta apertura a piano terra di un piccolo edificio di due piani in calce bianca, abbacinato dal sole già alto. Fumava un sigaro nero e nodoso, emettendo a cadenze regolari nuvolette di fumo che, da un'apertura impercettibile delle labbra sottili, si perdevano veloci verso un arco di pietra grezza che immetteva in uno dei mille vicoli della Casbah algerina. Sedeva su una sedia impagliata larga e robusta, tanto che il suo corpo, interamente coperto dalla tunica bianca, ne occupava solo una parte.
Non si sorprese quando, fermandomi di fronte a lui, gli chiesi bruscamente dove fosse suo figlio.
Avevo conosciuto Abder in uno dei tanti caffè in prossimità del porto, dove il giovane (doveva avere non più di 25 anni), attendeva clienti da trasportare con la sua vecchia Ford nelle varie località della costa. Dovevo andare ad Annaba, una cittadina della costa, alla periferia della quale era accampata una guarnigione di parà, destinata a proteggere le numerose fattorie francesi del territorio. All'appuntamento, stabilito per il giorno dopo, il giovane algerino non si era fatto vivo.
Era la primavera del 1961 ed ancora il caldo non era soffocante, tanto che il vecchio poteva sopportare il sole che lo investiva in pieno. Mi guardò senza mostrare sorpresa per quella domanda perentoria rivoltagli da uno straniero sconosciuto. Poi, guardandomi fisso, disse, con voce inespressiva:
- È inutile ormai chiedere ad un padre dei propri figli. Entrano furtivi nella casa che li ha visti crescere, prendono qualcosa, alcune volte mangiano, in fretta e poi scompaiono, corrucciati ed in silenzio come sono arrivati. No, non so proprio dove sia Abder. Non lo vedo da tre giorni. Può darsi che si faccia vivo stanotte, o domani... Chissà! –
Parlava un francese stentato e cantilenante, con voce bassa e lamentosa, quasi parlasse a se stesso e non fosse per lui importante che io lo capissi. Del resto, non sembrava gli importasse neppure capire se, dati i tempi, costituissi un pericolo per lui o per il figlio. Cercai tuttavia di rassicurarlo, spiegandogli quale fosse la semplice ragione per cui chiedevo di Abder.
Allargò le braccia sconsolato, poi dopo un breve silenzio: – lei ha dei figli? – chiese, e si diede subito la risposta – No, per essere venuto in quest'inferno, di figli non deve averne. Ma noi qui ci viviamo e ci vivono i figli che abbiamo visto crescere e che adesso chissà dove sono.–
Doveva aver deciso improvvisamente che, tutto sommato, chi gli stava davanti non poteva essergli ostile e neppure al figlio che non vedeva da tre giorni. Così continuò, animandosi un po', quasi a liberarsi di un grumo di sorda sofferenza consolidatasi giù, nel profondo – I figli... chi li capisce più? Certo, vivevamo a fatica, con i francesi a imporre alla nostra gente il modo di vivere o di morire, ma in famiglia si parlava, si condivideva la fatica del lavoro e della vita quotidiana. Poi scesero quelli di Costantine e i giovani, quasi tutti, uscirono sempre più spesso da casa, senza motivi apparenti. Divennero evasivi, sfuggenti. Sembrava avessero trovato altrove una famiglia più accogliente e che avvertissero improvvisamente angusti non solo gli ambiti familiari ma anche le motivazioni consolidate che ne sostenevano l'impianto.. Da un giorno all'altro non andava più bene niente: come ci si vestiva, come si sceglieva e si cadenzava il lavoro, perfino come si mangiava.
La famiglia – continuò – i parenti più prossimi, gli amici di sempre sembrava costituissero per loro solo l'appendice di qualcosa più grande e importante, a noi vecchi lontana e imponderabile –.
Si agitò sulla sedia sconfortato, forse sorpreso di aver parlato così a lungo con un perfetto sconosciuto al quale il suo mondo era ignoto e indifferente.

Negli anni '60...

Debbo confessare che, sul momento, questo dialogo sorprendente con un vecchio al quale avevo solo chiesto dove potessi trovare suo figlio, mi parve solo lo sfogo di un padre, preoccupato delle frequentazioni di un giovane poco più che ventenne, in un'Algeri sconvolta da una guerra spietata.
Dopo qualche tempo, ripensando a quella stagione sconvolgente, andai pian piano convincendomi che quello sfogo sorprendente di un anziano genitore nascondeva molto di più di un comune conflitto familiare tra un padre ansioso e un figlio insofferente.
Nelle società patriarcali il fattore generazionale era di norma vissuto, con maggiore o minore sofferenza, all'interno dei nuclei familiari. Era, insomma, il prodotto di quel lento progresso delle tecnologie che sostituivano il trattore all'aratro ma non intaccavano più di tanto i riti e le consuetudini delle comunità.
In Italia, sino agli anni Sessanta del Novecento, i valori, le gerarchie, le classi sociali erano quelli tradizionali: non vi erano scambi tra i vari strati sociali: i figli dei contadini sapevano di dover continuare a fare i contadini, i figli degli operai gli operai, così come i figli dei notai i notai, quelli degli avvocati gli avvocati. La cultura dominante era quella cattolico-conservatrice e la società nel suo complesso sembrava condividerne i valori. Naturalmente, non mancavano i fermenti: l'espandersi dell'industria manifatturiera e i flussi migratori dal Sud al Nord di masse contadine che tentavano di trovare la soluzione dei loro problemi esistenziali nelle fabbriche del cosiddetto Triangolo industriale, in una certa misura scossero le fondamenta di un mondo che era rimasto immobile per secoli. Ancora, però, appariva del tutto normale che ciascuno dovesse rimanere ancorato al proprio ambito sociale e all'interno di questo delimitare aspirazioni e speranze. Su tutti, poi, aleggiava la massa opprimente dei valori consolidati, dei riti ripetitivi di costumi e consuetudini mummificati.
Con il Sessantotto, il malessere profondo che serpeggiava già dal drammatico dopoguerra, prende coscienza e mette in discussione, non solo le discriminazioni e le ingiustizie di un assetto sociale sostanzialmente immobile, ma la legittimità stessa delle istituzioni che lo sostengono.
Per la prima volta il conflitto generazionale assumeva il carattere di una rivolta contro l'esistente e impiegava le sue forze migliori per progettare un futuro alternativo al presente, un futuro credibile, fondato sull'egualitarismo, la solidarietà e la libertà. Era la rivolta non più contro le ingiustizie particolari, ma contro un mondo che complessivamente era ingiusto ed oppressivo.
Il vecchio algerino incontrato nella primavera del 1961 non poteva capire il male di vivere che aveva indotto suo figlio a buttarsi nella mischia, certamente per liberare il suo Paese dal dominio coloniale, ma anche e soprattutto per non continuare a vivere nella sconfitta continua alla quale erano destinati lui e la sua gente.
Non poteva capire, e neppure io compresi appieno la forza e la profondità del movimento algerino di liberazione. Anche se avevo conosciuto donne ed uomini incredibili per determinazione e coraggio, non riuscii a percepire l'alito di quel vento che avrebbe investito presto i popoli di due continenti.
Purtroppo, alla resa dei conti, si rivelò solo una folata, fresca e rigeneratrice ma solo una folata.
Dalla fine degli anni Settanta iniziano quel progressivo regredire delle condizioni generali del Paese, quel recupero lento ma inesorabile del sistema capitalistico-borghese con il suo reticolo implacabile di norme oppressive, di sfruttamento e di mortificazione continua della dignità dei popoli.

Grande aspettativa?

Lo scarto generazionale si manifesta oggi nell'emblematico, sconfortante ritorno di quel figlio alla casa paterna. I volti e le cose che sognava di liberare dalle spesse ragnatele di un vissuto che si riteneva poter relegare in un passato remoto, adesso riacquistano attualità, anzi, appaiono come ancore di salvezza.
Nell'era dei Renzi, oltre il 40% della popolazione giovanile si trova senza risorse per vivere una vita normale. Molti, già avanti negli anni, si ritrovano, senza colpa, a casa dei genitori, a dipendere da loro.
Il nuovo che avanza ha i connotati di un passato remoto che credevamo di aver sepolto.
A sopravvivere – e bene – sono gli imbonitori di sempre. Continuano a mischiare le carte, a manipolare la gente, promettendo mirabolanti riforme e futuri radiosi, rimanendo loro comodamente seduti su quelle stesse poltrone dalle quali i loro predecessori, vicini o lontani, usavano i medesimi termini per imbrogliare i rispettivi contemporanei.
C è grande aspettativa per quello che Renzi riuscirà a fare per uscire da una crisi che ha spossato un intero popolo. La gente è esausta e vuole credere nei miracoli, affidandosi come al solito all'uomo carismatico di turno. Sarà ancora una volta delusa, sempre che, in aggiunta, non debba pagare un prezzo salato per questa sua ennesima illusione.
Qualcuno ha definito Renzi un riformista minimalista, forse perché tenterà di raggranellare qualche briciola dal grandioso progetto di riforme che promette. Se volete la mia opininione, eccovela: il Renzi che io vedo è un mediocre giocatore di poker che abusa del rilancio. Alla fine del gioco, avrà sperperato soldi non suoi e noi rimarremo soffocati dai debiti.

Antonio Cardella