rivista anarchica
anno 44 n. 390
giugno 2014


dibattito

Il tempo ritrovato

di Federico Battistutta


Gli anni Settanta
tra libertà, democrazia e violenza.


Oh ragazzi sfortunati,
che avete visto a portata di mano
una meravigliosa vittoria che non esisteva
Pier Paolo Pasolini

La natura del vero è quella di farsi largo quando è arrivato il suo tempo
Georg Wilhelm Friedrich Hegel

Non vi stupisce che il ritorno del rimosso e la rimozione siano la stessa cosa?
Jacques Lacan

La verità mi fa male, lo so
Caterina Caselli


Tra farsa e tragedia

In questi anni sta accadendo una cosa strana: ogniqualvolta si verificano, nel corso di manifestazioni di protesta per la crisi in corso, incidenti di sorta, i media e i politici di turno, con riflesso pavloviano, evocano immediatamente la minaccia terrorista, gli “anni di piombo”, insomma il fantasma dei nefandi anni Settanta. Quegli anni vengono associati, senza mezzi termini, a forme di violenza politica, tanto più gratuite e ingiustificate di fronte a un assetto costituzionale garante del pluralismo e della democrazia.
Tali evocazioni – e qui anticipo il senso generale del discorso che svilupperò – nulla hanno a che fare con una riflessione che rientri, seppure in forma liminale, nel campo di una ricostruzione storica. Il discorso sugli anni Settanta, su ciò che è accaduto in Italia in quegli anni, rientra a pieno titolo nella categoria della rimozione storica. La rimozione, secondo la vulgata freudiana, altro non è se non l'allontanamento dalla coscienza di desideri, pensieri considerati inaccettabili e intollerabili dall'io e la cui presenza sarebbe fonte continua di dispiacere. E, a proposito degli anni Settanta, proprio di rimozione si tratta, di allontanamento di qualcosa che non può venire accettato dalla coscienza storica dominante. Ma di tutto ciò siamo responsabili anche noi, non solo chi negli anni Ottanta ha vinto, i reaganiani e tatcheriani nelle varie versioni (anche di “sinistra”). Di tutto ciò ha dunque una parte di responsabilità chi ha partecipato, pur con modalità differenti, agli accadimenti di quegli anni e ha preferito chiamarsi fuori o proporne una versione addomesticata. Per questo è importante parlare proprio ora degli anni Settanta – un discorso inter nos – a fronte di quello che sta accadendo adesso in Italia e nel mondo, per rovesciare sui revisionisti del momento la loro interpretazione di quegli anni. Non per proporne una qualche attualizzazione, un'imitazione che rivelerebbe sembianze farsesche (“La storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”, Marx), ma, più prosaicamente, un saper andare avanti, dopo averne riconosciuto e apprezzato ricchezze e miserie.
Per questo sarebbe bene che prendesse la parola chi ha vissuto in prima persona gli anni Settanta, raccontando la sua di storia e, soprattutto, l'elaborazione che ne ha tratto. Ognuno con la sua visuale: dalle metropoli o dalla provincia, operaio o studente, militante o “cane sciolto”, maschio o femmina. Infinite microstorie che si intersecano per dare corpo al rompicapo delle vicende di quegli anni. Quindi il racconto di chi scrive queste note sarà per forza di cose tendenzioso, parziale, partigiano (sarà, nello specifico, la ricostruzione di chi in quegli anni è stato, nella città di Milano, prima studente medio, poi universitario e lavoratore precario, partecipando a vari livelli all'esperienza dell'area dell'autonomia operaia).

Il generale dai capelli corti

Verrebbe da dire, in estrema sintesi: formidabili quegli anni! (Anche se per ragioni diverse da quelle adoperate da chi ha reso celebre tale espressione in un volume rievocativo, prima di dedicarsi ad attività più remunerative). “Formidabili quegli anni”: perché è stato un periodo di grande, smisurato esercizio di libertà e democrazia. Nelle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri, finanche nei rapporti interpersonali. Parliamo qui, sia ben inteso, di democrazia diretta, radicale, partecipata, non quella basata sulla delega a professionisti della rappresentanza politica. E l'esercizio di questa libertà e di questa democrazia è stato a volte coniugato con l'uso della forza e, in certi casi, della violenza. Su ciò non si tratta di nascondersi. In tali pratiche c'era il riconoscimento che le leggi non hanno un valore assoluto, intangibile, ma sono relative ai rapporti di forza che la società in un dato momento esprime. E un insegnamento spicciolo della storia è che tali rapporti di forza, in certi casi, possono essere rovesciati, devono essere rovesciati, anche con la forza. Tutto lì. Picchetti davanti alle fabbriche, sit-in studenteschi, occupazioni di case e “basi rosse” nei quartieri di periferia, autoriduzione delle bollette, “espropri proletari”, manifestazioni non autorizzate, scontri con le forze dell'ordine sono episodi che rientrano, a diverso ma a pieno titolo, nella narrazione degli anni Settanta.
Per fare un esempio: nel febbraio '77, all'università occupata di Roma viene cacciato a furor di popolo l'allora segretario della CGIL, Luciano Lama, presentatosi con tanto di servizio d'ordine sindacale, per ridurre a miti consigli gli occupanti: ecco, quello fu un grande esempio di democrazia e libertà, anche se di ciò non si parlerà sui manuali di storia (ma rimarrà immortalato in una bella canzone di Fabrizio De Andrè: “Ed ero già vecchio quando vicino a Roma a Little Big Horn / Capelli Corti generale ci parlò all'università / dei fratelli “tute blu” che seppellirono le asce. / Ma non fumammo con lui, non era venuto in pace”).
Non basta: gli anni di cui stiamo parlando non hanno visto solo l'esercizio della forza e della violenza di massa, ma vi sono stati anche attentati, gambizzazioni, omicidi, vale a dire quell'insieme di azioni classificate sotto il nome di terrorismo. Non è possibile parlare degli anni Settanta senza fare i conti con questa parte di storia, per quanto ingombrante e pesante possa risultare. E anche su ciò, è bene ripeterlo, non nascondiamoci.

La madre di tutte le violenze

Sarebbe una visione distorta parlare della violenza di quel decennio, soprattutto di ciò che va sotto il nome di terrorismo, senza menzionare debitamente quella che fu all'epoca la “madre di tutte le violenze”: la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Là morirono diciassette persone, lasciandone altre ottantotto ferite. Non si può comprendere la violenza di quel periodo senza considerare ciò che Piazza Fontana ha rappresentato. E non solo per fatti ad essa direttamente collegati o collegabili (il 15 dicembre dello stesso anno muore Giuseppe Pinelli, illegalmente fermato in questura; di lì a poco viene arrestato Pietro Valpreda con l'accusa di essere l'esecutore materiale dell'attentato; il 12 dicembre dell'anno successivo viene ucciso a Milano durante una manifestazione lo studente Saverio Saltarelli, colpito da un lacrimogeno sparato ad altezza d'uomo; nel 1972 è ucciso il commissario Calabresi, accusato della morte di Pinelli da parte della nuova opposizione sociale e politica). Ma con piazza Fontana c'è l'inizio della svolta autoritaria e tendenzialmente golpista, ormai ampiamente documentata, che si celava dietro quella strage. È la strategia della tensione.
Leggiamo: «Strategia eversiva basata principalmente su una serie preordinata e ben congegnata di atti terroristici, volti a creare in Italia uno stato di tensione e una paura diffusa nella popolazione, tali da far giustificare o addirittura auspicare svolte di tipo autoritario. [...] La bomba di piazza Fontana costituì la risposta di parte delle forze più reazionarie della società italiana, di gruppi neofascisti, ma probabilmente anche di settori deviati degli apparati di sicurezza dello Stato, non privi di complicità e legami internazionali, alla forte ondata di lotte sociali del 1968-69». Questa citazione non proviene da qualche foglio della sinistra extraparlamentare del tempo, ma dall'Enciclopedia Treccani alla voce “strategia della tensione” e, se leviamo dalle proposizioni soprariportate pochissime parole (ad esempio “probabilmente” e “deviati” riferiti agli apparati dello Stato) direi che si può concordare in toto con una simile definizione.
E ancora: l'ufficio del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Savona, all'inizio degli anni Novanta, ha svolto un'analisi degli attentati avvenuti nella prima fase della strategia della tensione, adoperando queste parole: «Dal 1969 al 1975 si contano 4.584 attentati, l'83 per cento dei quali di chiara impronta della destra eversiva (cui si addebitano ben 113 morti, di cui 50 vittime delle stragi e 351 feriti); la protezione dei servizi segreti verso i movimenti eversivi appare sempre più plateale».
La finalità politica della strage di Milano si proponeva di convincere l'intero Paese che i responsabili fossero alcuni di quegli “estremisti di sinistra” i cui cortei continuavano ad attraversare le strade delle città della penisola. I più deboli tra quegli “estremisti” – sul piano delle alleanze politiche o anche solo nell'immaginario sociale – erano gli anarchici; proprio loro dovevano essere indicati come i responsabili di quella mattanza, tanto che in un primo momento la stessa sinistra parlamentare (socialisti e comunisti) sposarono le versioni ufficiali, considerando gli anarchici responsabili della strage. Bisognerà attendere l'uscita de La strage di Stato, la controinchiesta compiuta da “un gruppo di militanti della sinistra extraparlamentare”, uscita nel '70 e ripetutamente ristampata, per ristabilire un minimo di verità.
E' anche in questo contesto che nascono le prime organizzazioni armate e clandestine. Dietro scelte del genere confluirono vari filoni: l'idea di una nuova resistenza contro la svolta neo-golpista; il terzomondismo e il guevarismo, allora in auge; l'immediatismo metropolitano (ciò che K.H. Roth ha definito “esistenzialismo armato”); e, non ultime, le tendenze millenariste all'interno del dissenso cattolico. È al contempo corretto riconoscere che l'uso della forza e della violenza non aveva solo connotati difensivi. Non allineiamoci alla “cultura del piagnisteo”. Per essere franchi: tutta la “nuova sinistra” di quegli anni si riconosceva in un disegno rivoluzionario, magari dividendosi poi su quale evento rivoluzionario modellarsi (la rivoluzione bolscevica, la lunga marcia maoista, la guerriglia cubana, le rivoluzioni consiliariste, ecc.). “Lo stato borghese si abbatte e non si cambia” fu uno dei pochi slogan condiviso pressoché da tutti. Ci fu chi, a differenza di altri – e non erano pochi – provò a mettere in pratica quelle parole.

Colpire al cuore

Ciò che qui si vuole affermare – potrà piacere o meno – è il riconoscimento dell'integrale internità delle formazioni armate e clandestine al movimento che in quegli anni si esprimeva. Sia chiaro: dire questo non significa condividere quelle scelte, ma solo riconoscere un dato. In Italia, negli anni Settanta, è nato e si è sviluppato un vasto movimento sociale e politico, al di fuori dei partiti e dei sindacati della sinistra istituzionale. Questo movimento ha operato concretamente per una trasformazione in senso rivoluzionario della società, collocandosi, quand'era il caso, in una prospettiva di illegalità di massa e diffusa. E dentro questo movimento, estremamente articolato e variegato al suo interno, sono sorte e hanno agito formazioni armate e combattenti. Le quali – e qui sta il giudizio politico su tali scelte – sono intervenute perseguendo i loro obiettivi, cercando di sovradeterminare le istanze del movimento, proponendo in più di un'occasione un innalzamento dello scontro. Un esempio, fra i tanti: nel maggio '77 era stata indetto a Milano un corteo di protesta contro l'assassinio della studentessa Giorgiana Masi, avvenuto alcuni giorni prima a Roma durante un'altra manifestazione. Il corteo milanese, giunto in via De Amicis venne intercettato dagli agenti della celere. In breve tempo lo scontro degenerò in un vero e proprio conflitto a fuoco; lì, un nucleo di manifestanti iniziò a sparare contro le forze dell'ordine, uccidendo un agente, cercando di trasformare il corteo in un'operazione di guerriglia armata.
Da questo punto di vista il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro fu l'inizio della fine. Con tale operazione si volle portare “l'attacco al cuore dello Stato”, trascinando a forza in questo scontro frontale tutto quel variegato movimento che si era formato in quel tempo, proprio mentre era in corso un conflitto ramificato in ogni luogo del sociale; un conflitto, è bene sottolinearlo, di per sé duro, forse tra i più duri, a livello sociale, tra quelli avvenuti dall'unità d'Italia. Se nel '74 era stata allungata a dismisura la carcerazione preventiva (fino a 8 anni), nel '75 era entrata in vigore la “legge Reale” che autorizzava, fra l'altro, la polizia a sparare nei casi in cui ne ravvisasse necessità operativa. Nel '78 si assisterà all'istituzione di corpi speciali con finalità antiterrorismo: il GIS dei Carabinieri e il NOCS della Polizia. Infine nell'80, a seguito del rapimento Moro, verrà emanata la “legge Cossiga” che estenderà ulteriormente i poteri della polizia. Un'organizzazione super partes come Amnesty International prese posizione su ciò, affermando che quelle misure rappresentavano una diminuzione dei diritti dei cittadini, soprattutto perché la legislazione già vigente dava poteri sufficientemente ampi a polizia e magistratura. Sempre nei primi anni '80 le denunce per torture nei confronti di detenuti politici raccolte da avvocati e da Amnesty, riferite anche in Parlamento, furono dozzine. Il “caso 7 aprile” e il “teorema Calogero” del '79, secondo cui esisteva un'unica organizzazione occulta che dirigeva quell'arcipelago informe di realtà sociali e politiche, dai collettivi di quartiere alle formazioni clandestine, completerà poi il quadro. L'intera legislazione emergenziale riuscirà laddove aveva fallito la strategia stragista: soffocare la partecipazione democratica, blindare i movimenti in corso, ricacciare uomini e donne nelle proprie case, far prevalere la logica della paura. Non si può che concordare nel giudizio espresso da Erri De Luca: quella degli anni Settanta fu la generazione più carcerata dell'Italia repubblicana.

Guerra, potere, politica

Si è parlato poco sopra di un giudizio politico sulle derive armate degli anni Settanta. Ma non può bastare, non ci si può accontentare di valutazioni, più o meno machiavelliche, di opportunità politica; accanto a ciò va riconosciuto un giudizio etico. La storia ci illustra con la freddezza che la caratterizza continue situazioni in cui sono avvenuti degli omicidi politici. E allora, cosa impariamo da ciò? L'omicidio politico è un gesto che va colto nella sua drammaticità estrema. Un essere umano che prende su di sè la decisione di sopprimere la vita a un suo simile, assumendosene la responsabilità. Gesto eccezionale, extrema ratio. Ma da dove può provenire la legittimazione per un simile azione? Non sono questioni da poco, né toccano solo il nostro passato prossimo, bensì stanno alla base di qualsiasi discorso politico serio. Ad esempio, fra il XVI e il XVII secolo, in Europa, era sorto un dibattito politico (o meglio teologico-politico) ispirato da un gruppo di scrittori denominati monarcomachi, i quali sostenevano il diritto del popolo alla ribellione, fino alla messa a morte del monarca. Tale dibattito fu anche all'origine delle teorizzazioni sul contrattualismo, il giusnaturalismo, quindi di gran parte del pensiero politico moderno e contemporaneo. Quando poi nell'Ottocento il generale prussiano von Clausewitz dirà che “la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”, non farà altro che riproporre il discorso sul legame tra politica e violenza.
Giungendo ai nostri giorni, Foucault, dal canto suo, ribalterà la formula di Clausewitz, con l'intenzione di smascherare le dinamiche di potere e di violenza insite nella società, affermando che “il potere è la guerra, la guerra continuata con altri mezzi”. Si tratta allora, seguendo Foucault, di collocarsi proprio su questo piano.
Allora, a complicare il quadro sugli anni Settanta, va aggiunto un altro tassello a quanto detto sopra. Insieme al progetto rivoluzionario, in senso “classico” pur variamente inteso, aveva preso forma un diverso modo di intendere la processualità rivoluzionaria: quella che prendeva a fondamento la vita quotidiana. Non più solo militanti o quadri di un'organizzazione politica, ma soggetti disposti a trasformare fin da subito e alla radice il proprio vissuto e le relazioni con gli altri. Si pensi alla rivoluzione della vita quotidiana propugnata dai situazionisti (“l'insurrezione della vita completa”, la definirà Vaneigem) o dalla cultura underground. O, come diranno forse in forma più incisiva le femministe, “il personale è politico”. Dire tutta la difficoltà nel provare a vivere e a tenere insieme dentro di sé questi elementi differenti è dire null'altro che la verità (per chi scrive ha significato, ad esempio, trovarsi inquadrato nelle prime file di un servizio d'ordine ai cortei autonomi e, nello stesso tempo, prendere parte ai primi sparuti gruppi di autocoscienza maschile).
Ma attraverso esperienze del genere – conflittuali, contraddittorie, minoritarie, caotiche fin che si vuole – è passato qualcosa: si è manifestata una critica pratica della politica come attività parcellizzata (quella, ad esempio, del rivoluzionario di professione) che è anche una critica del potere, della guerra e della nozione di nemico che essa comporta. All'epoca, Deleuze e Guattari coniarono il termine “microfascismo”, riferendosi a quell'insieme di pratiche di prevaricazione quotidiane, basate su soprusi, esclusioni, auto-inganni e risentimenti. Non vennero presi sul serio. Recentemente Jacques Camatte sulla homepage del suo sito/rivista “Invariance” ha posto questa laconica frase: “Non ho nemici:  il rinchiudersi viene cosi abolito”.
Ecco, prendere parte alla storia, senza amarla (“la storia disprezza chi la ama”, diceva Canetti), entrare nelle sue dinamiche, incontrarsi e scontrarsi, fino in fondo, se è il caso, ma senza avere nemici, non annullare l'umanità di chi mi sta di fronte, non ridurlo a untermensch; non c'è nemico, non esiste il radicalmente altro, qualcuno o qualcosa di costitutivamente diverso da me. E ancora: rifiutare non solo la logica della guerra, ma anche quella del potere. Che errore quello di voler “portare l'attacco al cuore dello stato”! Non solo perché lo Stato non ha un cuore, ma perché l'idea di poter prendere il potere è stata una trappola terribile e oggi gli zapatisti sono qui a mostrarci la possibilità di fare politica – e una politica radicale - senza prospettare la presa del potere.
In questo senso la diatriba violenza/nonviolenza, riproposta in questi tempi in modo più che sospetto dai fautori dello status quo, non tiene. C'è un'energia, un'enorme energia immanente all'essere umano, da cui emerge la forza e la violenza. Si tratta, senza enfasi, di entrare in contatto con tale energia – che non è strumento di nessuno e che nessuno può dichiarare sua – ed esprimerla. La prospettiva non è l'acting out, il quale alla fine si rivela per essere ciò che è: mera disperazione; ma è invece l'azione possibile, in grado di esprimere, in determinati casi, una certa qualità di forza e violenza. “Ma come e quanta?”, sorge immediata la domanda. Qualche anno fa Luisa Muraro ha proposto questa formula: regoliamoci come le cuoche dinanzi ai fornelli. Come dire: quanto basta, «quanto basta per combattere senza odiare, quanto serve per disfare senza distruggere».

Federico Battistutta