rivista anarchica
anno 44 n. 390
giugno 2014


Vietnam

Zij Poj Niam

reportage di Moreno Paulon


Le ripercussioni che le politiche demografiche del Gigante Cina hanno avuto su una minoranza vietnamita.
I H'mông fra farfalle cinesi e traffico di esseri umani.

Villaggio H'mông


Nel 1963 Il matematico Edward Lorenz scrisse che il battito d'ali di una farfalla in Brasile era in grado di scatenare un uragano in Texas. L'immagine era certo iperbolica, ma inquadrata nella più ampia teoria del caos la figura illustrava l'estrema sensibilità di un sistema dinamico non lineare al variare delle sue condizioni iniziali. Nel corso del tempo la pur minima alterazione di un sistema può generare ripercussioni crescenti e imprevedibili sul suo comportamento complessivo, e un margine di variabili trascurate, crescendo, è in grado di provocare sviluppi esponenziali e stravolgenti. La conseguenza immediata dell'effetto farfalla è che il comportamento di un sistema complesso è difficilmente prevedibile o pianificabile in una finestra di tempo utile. Se l'assioma di Lorenz vale per i calcoli della meteorologia e delle azioni di Wall Street, di certo trova un'applicazione fertile anche nella lettura dei sistemi sociali, come è evidente nelle ripercussioni che le politiche demografiche del Gigante Cina hanno avuto nel giro di vent'anni sul più piccolo villaggio rurale di una minoranza vietnamita.

Mappatura etnica del Vietnam del Nord - Museo etnologico di Hanoi

I H'mông del Vietnam

Che i H'mông siano cittadini di serie B in Vietnam è chiaro come l'acqua. Per la verità molti di loro non sono nemmeno considerati cittadini a pieno titolo da parte dello Stato centrale. Visti un po' come vecchi intrusi e un po' come nuovi traditori, moltissimi non sono mai stati dotati di una carta di identità e a volte, specie fra gli anziani, nemmeno di un certificato di nascita che ne dichiari l'esistenza. Scarsamente scolarizzati e privi dei capitali che permettono di intraprendere attività commerciali, i H'mông restano inesorabilmente legati al lavoro della terra, vivendo in piccoli villaggi di capanne fra le risaie del Nord.
Quelli che sono in possesso di un documento statale sono coloro che ne hanno fatto espressamente richiesta al governo per frequentare gli studi elementari e superiori erogati dalla nazione vietnamita, per viaggiare liberamente sul suolo nazionale, o anche solo per ottenere la patente di guida di un motorino. Negli anni recenti ripetute violazioni dei diritti sulla terra, arresti sommari, discriminazioni etniche e persecuzioni politico-religiose da parte del governo vietnamita a danno dei H'mông sono state denunciate a più riprese tanto dalla BBC (04/05/11; 12/05/11; 12/12/11; 14/03/12; 13/12/12) quanto dal New York Times (05/05/11). Sul piano popolare, nel micidiale senso comune quotidiano, la discriminazione subita dai H'mông fa buona eco alla lezione statale. Capita che i vietnamiti incrociandoli sulla strada riservino loro espressioni dispregiative che li assimilano agli animali, e capita che domandando loro spiegazioni di un simile disprezzo arrivino in fretta ad accusarli di avere militato con gli Stati Uniti durante la guerra, come se ogni H'mông vivente (dentro e fuori dal Laos poco importa) fosse destinato a portare una croce per la militanza delle truppe di Vang Pao fra gli anni '60 e il '75. Nelle località turistiche come Sapa i rapporti fra vietnamiti e H'mông sono più distesi, soprattutto per ragioni di interesse: infatti molti turisti in cerca di “autenticità” esotiche e tradizioni “incontaminate” si recano fra le montagne del Nord proprio per vedere e fotografare i H'mông e le altre minoranze locali, portando introiti ragguardevoli nelle tasche dei vietnamiti locali, i quali gestiscono in maniera esclusiva le strutture turistiche di accoglienza, le attività commerciali e le agenzie di trasporti. Così anche qui la posizione riservata al popolo H'mông è senz'altro quella ai gradini inferiori, e i più fortunati possono giusto aspirare alla professione di guida turistica nei villaggi delle loro famiglie. Ma se la condizione subalterna dei H'mông è sotto la luce del sole nel recinto nazionale, le implicazioni su larga scala della loro vulnerabilità strutturale hanno implicazioni internazionali sbalorditive.

Ragazza H'mông

Donna Zao

Zij poj niam

Secondo il censimento del 2009, i confini del Vietnam racchiudono 86 milioni di abitanti, 5 famiglie linguistiche e 54 gruppi umani. Quelli che chiamiamo “vietnamiti” apparterrebbero alla famiglia Kinh, che comprende l'86% della popolazione nazionale e costituisce il ceppo di discendenza maggioritario. Nel corso della storia, i Kinh si sono insediati soprattutto nelle aree pianeggianti, lungo la costa oceanica e sui delta dei grandi corsi d'acqua, come il Mekong. Fra le altre 53 minoranze, la famiglia che comprende i H'mông, gli Zao e i Pà Thèn è la più estesa e conta circa 1.8 milioni di individui, distribuiti principalmente fra le montagne del Nord, lungo il confine cinese. I H'mông, con una popolazione di circa 800 mila anime in Vietnam, sono fin dalle origini coltivatori di riso, allevatori di bestiame, lavoratori di metalli, intarsiatori di legno e raffinati tessitori dediti al ricamo. Hanno famiglie patrilineari con residenza virilocale e sono arrivati dalla Cina nei territori dell'odierno Vietnam tra il XIX ed il XX secolo. Seguono una religione tradizionale comunemente detta “sciamanismo”, il cristianesimo e il buddhismo, e si distinguono reciprocamente in Black H'mông, Flowered H'mông, Blue H'mông, White H'mông e altri gruppi ricorrendo a criteri di distinzione linguistica, varietà nell'abbigliamento e differenti abitudini sociali. Fra i più caratteristici tratti culturali H'mông che sopravvivono nel Vietnam del Nord c'è la tradizione dello zij poj niam: il matrimonio per cattura.
Come per tutte le tradizioni culturali, lo zij poj niam conosce canoni originari e declinazioni locali. Da un gruppo all'altro e da una nazione all'altra cambiano i suoi nomi, le sue pratiche e la sua distribuzione nei territori. Nell'area vietnamita di Sapa, in provincia di Lao Cai, il matrimonio per cattura viene chiamato hai nyaab oppure hai pu, espressioni che nel dialetto H'mông locale significano letteralmente “rapire la nuora” o “rapire la moglie”. Denigrato aspramente dai H'mông convertiti cristiani, i quali preferiscono il comune accordo fra i fidanzati e le rispettive famiglie, il rapimento è praticato principalmente dagli sciamanisti più tradizionalisti. Accade spesso di domenica e durante i festeggiamenti per Tét, il nuovo anno vietnamita, che si celebra fra la fine di gennaio e l'inizio di febbraio. I H'mông in questa occasione sfilano per le piazze cittadine sfoggiando vestiti blu nuovi e sgargianti, imbevuti così di fresco nell'indaco da macchiare ancora le mani, cuciti e ricamati appositamente dalle donne dei villaggi nelle settimane a ridosso di Tét. Nei giorni di festa ognuno mostra l'abito nuovo e passeggia in compagnia, i giovani addocchiano le ragazze, alcuni cercano di instaurare un contatto, giocano a volano e si presentano, altri semplicemente seguono le giovanissime donne come dei segugi. Quando e se scatta il rapimento, il pretendente e quattro o cinque uomini fra amici e familiari sollevano di peso la malcapitata e la portano di forza al villaggio del ragazzo, in motocicletta oppure a piedi, con processioni di anche mezz'ora fino alla casa della famiglia di lui. La giovane viene chiusa in casa e trattenuta per tre oppure quattro giorni. Conosce la famiglia del suo rapitore, viene trattata da ospite, testata nelle sue abilità domestiche, ed è sempre accompagnata e sorvegliata da una sorella o una cugina del suo pretendente, la quale cerca di convincerla della bontà del ragazzo e della famiglia affinché essa accetti la proposta di matrimonio. In quest'area, a differenza di altre, il rapimento non implica alcuna violazione sessuale della ragazza. Dopo il breve periodo di prigionia, la giovane (che di solito ha fra i 15 e i 19 anni) è libera di decidere se sposare o meno il suo rapitore. Nel primo caso le famiglie contrattano il prezzo per la cessione della sposa e, trovato l'accordo, celebrano l'unione dei coniugi con due pranzi (e 12 torte di riso) nei rispettivi villaggi di lei e di lui; in caso di diniego invece la ragazza compie il gesto rituale di riempire due bicchieri di ruou (“zsiu”, un fortissimo distillato locale di riso) e di bere un bicchiere sia con il rapitore sia con suo padre, spiegando loro che non è interessata alla proposta di matrimonio e che desidera essere riportata a casa. Accade tuttavia che, incrociandosi le antiche tradizioni H'mông con un più vasto mondo di politiche internazionali, la famiglia di una ragazza appena scomparsa non veda ritornare la figlia entro i termini stabiliti dal costume dello zij poj niam. I giorni passano, la giovane non rientra al villaggio e nessuna dichiarazione di rapimento giunge da alcuna famiglia vicina. Quando i parenti realizzano che la sparizione della ragazza non si deve ad una proposta di matrimonio è semplicemente troppo tardi per intervenire. Il nemico, decisamente fuori portata, non è una piccola famiglia H'mông che non vuole restituire la nuora: è il traffico internazionale di esseri umani, e la meta principale della tratta nel Vietnam del Nord è niente meno che la Repubblica Popolare Cinese.

Donna H'mông

Una farfalla batte le ali in Cina

Nel 1979, poco dopo la morte di Mao, Deng Xiao Ping introdusse una semplice e letale strategia per ridurre la crescita demografica cinese: la famigerata politica del figlio unico. La proliferazione delle coppie urbane fu ristretta alla sola prima nascita, e alle minoranze “etniche” delle zone rurali fu concesso un secondo figlio in caso il primo parto avesse dato luce ad una figlia femmina. Soltanto coppie composte da coniugi entrambi figli unici potevano avere due bambini. L'idea di chiudere il rubinetto delle nascite effettivamente ha finora impedito a 400 milioni di cinesi di venire al mondo (BBC 22/11/13) riducendo senza dubbio la crescita demografica, ma il suo razionalismo radicale e a cuor leggero applicato a monte ha provocato enormi effetti collaterali a valle. Malgrado certa stampa italiana abbia sbrigativamente dato il suo “addio alla politica del figlio unico” dal pulpito nazionale (Repubblica 29/12/13), nello scorso novembre la politica demografica è stata piuttosto allentata dal governo cinese, non abolita, consentendo un secondo parto alle coppie in cui anche uno solo dei coniugi sia figlio unico. Tuttavia un imprevisto squilibrio nella popolazione cinese è già innescato e fuori controllo.
L'esito più evidente di questi decenni di sperimentazione biopolitica è stato infatti uno sbilanciamento di genere all'interno della nazione cinese. La popolazione maschile è diventata di molto superiore a quella femminile, e i dati demografici (da considerare certo riduttivi, salvo fidarsi delle stime propagandistiche cinesi) dicono che entro la fine del decennio ci saranno 24 milioni di uomini privi della possibilità di trovare una moglie (BBC 15/11/13). Tina Rosenberg (NYT, 19/08/09) riporta che in conseguenza alla scellerata politica statale cinese ogni anno sono nate 1.5 milioni di femmine in meno, e molte altre sono morte entro il quinto anno di vita per mancanza di cure, assistenza medica ed attenzioni. Emily Oster (Harvard University) nel 2005 aveva cercato di sostenere la scivolosa tesi biologista secondo cui la scarsa natalità femminile fosse da imputare semplicemente a madri cinesi largamente affette da epatite B per carenza di vaccinazioni mediche, portate quindi da fattori meramente biochimici e patologici a generare più figli maschi (l'influenza stimata era niente meno che il 50% delle nascite). Tuttavia studi più approfonditi condotti con Gang Chen, Xinsen Yu e Wenyao Lin (2008) hanno smentito che l'affezione da epatite B avesse incidenze così rilevanti sul sesso del nascituro, ed hanno dedotto che la carenza di donne nella Repubblica Popolare Cinese non fosse affatto una questione strettamente scientifica e biomedica.
La politica del figlio unico è stata infatti applicata sulla popolazione come una mera manovra di logica razionale, una pianificazione tecnico-scientifica, un calcolo matematico esatto, tralasciando una variabile culturale fondamentale nelle condizioni iniziali del sistema: la preferenza culturale cinese per i primogeniti maschi all'interno di un ordine sociale fortemente patriarcale. Il provvedimento del '79 ha dato il via ad enormi campagne statali di sterilizzazione delle donne, a sanzioni pecuniarie sui secondi figli, ad aborti forzati perpetrati dalle autorità governative, ma anche a infanticidi spontanei di figlie femmine da parte di una popolazione profondamente maschilista. Gli studi antropologici di Monica Das Gupta in Cina e in India mostrano che molte famiglie trascurano volentieri le figlie femmine in favore dei maschi, e curiosamente questo accade più spesso nelle aree più ricche anziché in quelle più povere. Dove c'è povertà, figli maschi e figlie femmine sono democraticamente deprivati di beni e servizi, ma laddove esistono delle pur magre risorse da investire in istruzione, vaccini e assistenza medica, le famiglie cinesi accudiscono i maschi e lasciano le femmine al loro destino. La stessa spietata logica economica si è vista in azione anche nel parto: desiderando figli maschi che potessero accumulare beni e occupare posizioni di rilievo nella società, le famiglie hanno fatto largo ricorso ad esami a ultrasuoni illegali, aborti clandestini e infanticidi per essere certe di massimizzare le possibilità di ottenere un nascituro maschio. «Una cultura patriarcale rende la nascita di un figlio maschio una necessità sociale e finanziaria», scrive Rosenberg parafrasando Das Gupta. Come rimediare quindi alla carenza interna di donne, se non importandole dall'estero?

Bambino H'mông

E in Vietnam si scatena l'uragano

Da decenni ragazze fra i 16 e i 22 anni scompaiono continuamente lungo i 1.300 km che separano il Vietnam settentrionale dalla Repubblica Popolare Cinese, e in modo drammaticamente crescente dagli anni '90. I dati ONU – SIREN sostengono che almeno il 70% delle donne vietnamite che cadono in preda al traffico internazionale di esseri umani finisce in flussi di mercato diretti in Cina, e fra il 2001 e il 2005 le vittime salvate e riportate in patria per opera delle agenzie anti-traffico ammontano a più di 1.800. La domanda cinese richiede tanto prostitute quanto mogli, e al di qua del confine la fascia di popolazione più vulnerabile, ingenua, povera e ignorante è quella delle minoranze, in particolare Zao e H'mông.
Stimare un numero delle sparizioni sarebbe un'impresa ardua: nessuna ricerca approfondita è stata ancora avviata ed è difficile stimare statisticamente la sparizione di non-cittadini senza documenti sperduti per villaggi di montagna. Tuttavia la certezza empirica è che visitando i villaggi intorno a Sapa non c'è insediamento H'mông che non abbia subito decine di sparizioni nell'arco degli ultimi anni. Tutti sanno qualcosa di certe ragazze rapite e vendute verso la Cina, tutti hanno un'amica o una parente sparita e mai più sentita. Chou, una giovane H'mông di Sapa, è stata rapita e venduta oltreconfine due anni fa per 5.000 $ ad un marito cinese. Un giovane H'mông l'ha avvicinata amichevolmente durante il “mercato dell'amore”, una delle occasioni sociali in cui i giovani H'mông si incontrano e si conoscono, e le ha fatto la corte a lungo, dichiarandole il suo amore e trascorrendo molto tempo con lei. Una notte, quando il legame di fiducia era diventato sufficientemente forte, l'ha portata oltreconfine in motocicletta, vendendola al primo gradino del traffico di esseri umani. Chou, 16 anni, è stata spostata per giorni da un luogo all'altro (ossia venduta e ricomprata, con relativi aumenti di prezzo in quanto merce) e infine trattenuta in una stanza insieme ad altre giovanissime ragazze. Sistematicamente gli agenti del traffico hanno portato uomini e ragazzi cinesi a visitare la stanza, uomini e ragazzi in cerca di moglie, finché uno di essi ha deciso di comprarla per il suo matrimonio. Chou ha quindi preso marito col benestare della famiglia di lui, è stata fornita di documenti falsi dai trafficanti ed è rimasta reclusa in casa per sette mesi, senza sapere nemmeno dove si trovasse nell'enormità sconfinata della Repubblica Popolare. Su due piedi la sua famiglia ha creduto che la figlia fosse stata rapita dal giovane H'mông per una richiesta di matrimonio, racconta la madre, ma nei tre giorni di attesa previsti dallo zij poj niam Chou ha fatto in tempo a percorrere mezza Cina, passando da un trafficante all'altro per migliaia di chilometri. L'ultimo gradino del traffico da parte cinese è organizzato come una banalissima operazione di acquisto, con agenzie che si occupano di procurare mogli ad aspiranti mariti cinesi, o prostitute esotiche per un bordello che ha posti vacanti. Il crimine diventa procedura burocratica, transazione di capitale, azione quotidiana. Il villaggio di Chou non ha avuto sue notizie per un anno, finché la ragazza, guadagnata un po' di fiducia da parte del marito, non è entrata in possesso di un telefono cellulare col quale ha contattato segretamente un'amica europea ad Hanoi, che a sua volta ha avvisato la OMG Blue Dragon Children Foundation, la quale ha preso in carico il suo salvataggio cooperando con le autorità vietnamite e cinesi.
«Il trafficante non è affatto un cattivo da film che va in giro con il passamontagna» spiega Michael Brosowski, fondatore della Blue Dragon di Hanoi, «è quasi sempre una persona che la vittima conosce più o meno bene, una persona di cui si fida e che al momento opportuno la tradisce, vendendola per sfruttamento lavorativo, sessuale o come moglie. Ogni anno salviamo circa 70-80 bambini sugli 11 anni dallo sfruttamento del lavoro minorile e circa 15-20 ragazze dal mercato sessuale. Li portiamo fuori dalla fase critica e li seguiamo nel reinserimento nella società, nel proseguimento degli studi, nell'ottenimento di un lavoro dignitoso, diamo loro un posto dove stare e li rappresentiamo di fronte al tribunale contro i trafficanti. Una delle sfide maggiori è definire che cosa sia il traffico di esseri umani sul campo: ci sono moltissimi casi di traffico in Vietnam che non sono riconosciuti come tali, che passano come azioni comuni, normali, familiari, addirittura come favori».
Ascoltando le parole di Michael non posso che ripensare alla lezione di Hannah Arendt in La banalità del male, alla necessità di oltrepassare il senso comune che conduce a identificare il nemico con individui mostruosi e raccapriccianti; penso all'assurda cinematografia commerciale americana che disegna quotidianamente psicologie sinistre e contorte per improbabili maestri del male, laddove le basi del crimine sono spesso di natura sociale e le azioni più mostruose perpetrate da uomini mediocri e solerti, da normalissimi burocrati qualunque che fanno il loro innocuo e letale dovere con fede cieca verso l'autorità di turno, uomini più o meno in buona fede, più o meno ricattabili, più o meno indifferenti. Penso proprio ad Eichmann, che imputato delle deportazioni naziste a Gerusalemme affermava di essersi occupato in fondo semplicemente di “trasporti”. L'umanità conosce infinite forme di adattamento all'ambiente sociale e finisce per naturalizzare condizioni culturali che appaiono a prima vista disumane e inammissibili, e lo fa fino al punto che definire “disumane” azioni, comportamenti e strutture così costantemente ricorrenti nella storia della nostra specie sembra solo un modo per non guardare nello specchio che cosa sia questa umanità. Penso al male prodotto semplicemente dalla centralizzazione del potere politico, alle responsabilità che riposano nelle istituzioni statali che promuovono la disuguaglianza di genere e di classe, il nazionalismo contro tutti, l'attribuzione differenziata di diritti alle diverse parti sociali e a tutte le sfumature dei più logici razionalismi biopolitici. Penso agli studi di Paul Farmer nella poverissima Haiti in preda all'HIV, e a ciò che a suo tempo chiamò “violenza strutturale” per indicare proprio quei meccanismi di oppressione che sembrano colpa di nessuno, alla violenza indiretta di un'organizzazione sociale che, basata sulla disuguaglianza, diventa infaticidio, traffico di esseri umani, miseria, abusi sessuali, malattia, riproponendosi nei percorsi storici e politici che producono inevitabilmente sofferenza e violenza all'interno di una società. Penso alla biopolitica cinese senza un vero volto se non quello illegittimo di un vago “Congresso Nazionale del Popolo”, senza veri colpevoli se non migliaia di burocrati e marionette, ma che provoca violenza quotidiana su nomi e cognomi H'mông e Zao, nomi e cognomi scritti su un volto e invisibili all'anagrafe. Le famiglie H'mông e le loro tradizioni si trovano inesorabilmente nell'occhio del ciclone di condizioni strutturali che si impongono loro sia dall'interno vietnamita sia dall'esterno cinese, mediante timbri e provvedimenti legali, pianificazioni sociali, governi centralizzati senza legittimità, discriminazioni nell'attribuzione di diritti, velleità di ascesa socio-economica che portano le donne a prostituirsi agli uomini, gli uomini a prostituirsi all'industria, una madre a vendere tre figlie al traffico e a finire in prigione. Penso a tutto questo, e alla difficile lotta quotidiana di chi come Michael, con gli occhi aperti fuori dall'oppio della normalità, si domanda quali conseguenze inesorabili provocherà chissà quale farfalla che sta battendo le ali dall'altra parte del mondo.

Moreno Paulon

Le informazioni e le storie qui raccontate sono state raccolte nel corso delle ricerche di The Human Earth Project.