rivista anarchica
anno 44 n. 390
giugno 2014





Aria di festa

Aria di festaQuesto mese volevo segnalarvi il nuovo cd di Stefano Giaccone, e ho sforato la deadline imposta dalla redazione perché ci ho messo davvero un bel po' a scegliere le parole da mettere in fila su questa pagina. Il cd ce l'ho già da un mese e l'ho ascoltato più volte, ma le parole mi si annodano tra le dita, vengono fuori male, raccontano cose che non mi va di dire. Dopo appena qualche riga scritta sul monitor, una frase iniziata bene ma con la fine sempre inadatta e cancellata, mi accorgo che il filo dei pensieri e dei discorsi è lo stesso che tiene stretto un groviglio di oltre trent'anni di vicinanze, di complicità, di cose fatte insieme. In una parola: sto per scrivere del lavoro di un amico.
Un amico. Che parola sbagliata. Che parola consumata, sbiadita, fraintesa. Che parola giusta, invece. Ricordo che ci siamo scritti una lettera, era uscita da poco la cassetta di “Luna nera” dei Franti, qualcuno me ne aveva passato una copia, poi qualche telefonata e infine ci siamo incontrati da qualche parte a un concerto, a Milano forse. Eravamo in quell'età di mezzo tra i venti e i trent'anni, quando tutto deve ancora succedere e le sfumature attorno al futuro sono ancora incerte, quando sognare è ancora possibile. Stefano ed io siamo stati da allora molto vicini, ma non lo siamo stati sempre, va detto. Ci sono e ci sono state distanze in termini di chilometri e di ragionamenti, la sua e la mia strade con un destino diverso ma che a guardare bene sono state tracciate sotto lo stesso sole, e soprattutto sotto le stesse nuvole, gli stessi temporali, le stesse grandinate: penso sia proprio per questo che sento siamo amici. Dev'essere il maltempo che ci spinge a volerci bene.
Anche se spesso ne sono stato coinvolto in prima persona, non ho mai tenuto il conto delle cose che Stefano ha fatto, dei dischi che ha pubblicato o dei progetti di cui è stato motore. Questo perché c'è differenza tra essere un amico ed essere un suo fan: mi interessano di lui altre cose, che so, se sta bene, come stanno i suoi figli (qui messi in copertina e fisicamente dentro un paio di canzoni, a parlare e pestare sui tamburi), cose così. Alcuni dei suoi lavori mi hanno accompagnato, sono stati per un bel po' la mia colonna sonora personale e continuo ad ascoltarli volentieri anche oggi, altri li tengo lì fermi perché mi mettono a disagio. Perché sono dischi scomodi e mi mettono con le spalle al muro, perché mi mettono le mani addosso e pestano forte. Questo cd, che io chiamo “nuovo” e lui invece da tempo ha chiamato “ultimo”, appartiene senz'altro a questa seconda categoria: l'ho cancellato adesso dal lettore mp3 e penso che tra un paio di giorni o forse anche stasera lo metterò lì sullo scaffale, vicino alle altre cose di Stefano, mimetizzato fra Kina e Franti, ad aspettare. “Aria di festa” è stato registrato nell'autunno dell'anno scorso ed è uscito da poco, un lavoro “torinese” quando il precedente era “sardo”, realizzato con Gianluca Della Torca e Mario Congiu e passato attraverso le abili orecchie e le abili dita di Marco Milanesio.
Stefano Giaccone
Stefano Giaccone

Tranne qualcuna già presente ne “Il giardino dell'ossigeno” dovrebbero essere tutte canzoni recenti eppure dal primo ascolto ho l'impressione di conoscerne bene ogni singola riga, ogni singola nota. L'ha fatto spesso, e mi piace e trovo significativa l'idea che Stefano tenga per mano le sue vecchie cose: non sono roba fatta e gettata lì, e comunque non sono destinate al nostro esclusivo consumo. Sono roba sua. Mettere qua dentro tre canzoni del suo album precedente è segno di radici affondate da non strappare via, di ricordi e cicatrici che rimangono, di pezzi di te che lasci in giro, discorsi iniziati non ancora finiti. Ma qui dentro c'è aria di sbaraccamento, altro che l'aria di festa del titolo. Sembra la musica giusta per un addio non desiderato, quando bisogna andar via per forza: queste canzoni costruite di amarezza ed impastate di nervosismo, questo suono precario da cantina mai così affilato e sporco, parole sputate fuori come veleno cantate con i denti a formare un ghigno rabbioso in bocca.

“...Non ci sarà un posto al mondo dove potrò stare, quando sarò morto
E non distinguerò più il bene dal male, quando sarò morto
E non mi troverete a cantare questa canzone, quando sarò morto
E allora mi sa che dovrò farlo finché sono vivo...”

Come ho detto poco fa, non sarà un disco che avrò voglia di riascoltare spesso ma dentro ci sono dei momenti di vero brivido. Prendiamone uno: “È adesso”, versione italiana di “When I'm gone” di Phil Ochs, uno spostato, un disturbato, alcolista ed agitatore, comunista in un'America che i comunisti li voleva chiusi in carcere o preferibilmente morti, suicida a neanche trentasei anni, ha lasciato in eredità un songbook di valore inestimabile. È l'unica composizione non originale del mucchio, ma Stefano riesce ad offrirla come se verosimilmente fosse sua e fosse stato Ochs a farne una versione inglese. Gli era successo lo stesso con “Un modo diverso”, che sembrava a tutti una canzone di Stefano Giaccone resa famosa all'estero come “A different kind of love song” da Dick Gaughan.
Il cd non si presta affatto al gioco “qual è la canzone più bella”: è un mattone scagliato a forza contro la vetrina del nostro negozio personale. Noi là, a guardare, muti. Il vento che entra, esce, ritorna. Restano a terra i pezzi di vetro, a riflettere il grigio del cielo.

Marco Pandin