rivista anarchica
anno 44 n. 391
estate 2014


pedagogia libertaria

L'educazione che ribolle

di Maurizio Giannangeli


Il coordinatore per la Lombardia della rete per l'Educazione Libertaria analizza la situazione della scuola, alla luce di alcuni cambiamenti in atto nel rapporto tra istituzioni e società. E nel prossimo numero metterà in relazione questi cambiamenti con alcune pratiche ed esperienze educative relativamente nuove per il nostro paese.


Nel 2009 a Verona, presso Villa Buri, si tenne il primo convegno nazionale della Rete per l'Educazione Libertaria. All'epoca chi dette vita alla REL lo fece anche nella convinzione che in Italia desideri, bisogni e esigenze riferiti all'educazione stessero cambiando. Da allora ad oggi anche solo navigando nel web troviamo informazioni, racconti, pubblicizzazione di esperienze che a diverso titolo si dichiarano prossime ai principi dell'educazione libertaria e, soprattutto, distanti da quanto le esperienze di educazione scolastica statale e privata attuano.
A tale proposito non intendo qui tracciare una mappa né offrire un primo bilancio, cose ad oggi ancora difficili da definire con la dovuta esattezza. Piuttosto cercherò di individuare alcuni cambiamenti in atto nel rapporto tra istituzioni e società, in questa prima parte, per poi, in un secondo momento, mettere in relazione questi cambiamenti con alcune pratiche ed esperienze educative relativamente nuove per il nostro paese.
L'articolo sarà quindi composto di due parti separate per comodità di esposizione, ma comunque legate da un unico ragionamento. L'una e l'altra insieme dovrebbero mostrare, con la maggior chiarezza possibile, come il bisogno di educazione in Italia non sia più rappresentabile con un modello di Scuola unico e come al contempo nel panorama della pratiche che potremmo dire antistatali, aperte alle esigenze di apprendimento di bambini e ragazzi, vi siano differenze e approcci non sempre assimilabili tra loro. I due processi così intrecciati sono già da oggi una rinnovata risposta al complesso bisogno socio-politico di educazione nel nostro paese.

Crisi delle istituzioni e istanze sociali

Prima di iniziare il nostro viaggio nella 'galassia educativa' mi soffermo sulla crisi della scuola di Stato. Ritengo questo un passaggio utile per produrre successivamente, grazie a un quadro di sfondo definito, una lettura attendibile delle esperienze educative in atto e delle loro reciproche differenze. Occorre quindi, come premessa, sviluppare una riflessione che consenta di cogliere cosa comporta e a quale ordine di discorso faccia riferimento il formarsi del bisogno di educazione oggi.
Parto dal dato di fatto che il sistema scolastico nazionale dominante si trova messo sotto accusa da diversi punti di vista e da più parti, e non mi riferisco solo alle esperienze educative ispirate o prossime alla pedagogia libertaria.
Risulta evidente che un conto è criticare i “sistemi scolastici dominanti” in quanto sistemi che trasformano “i giovani da soggetti a oggetti”, che preparano “le nuove generazioni alla consapevolezza e alla accettazione del proprio valore in termini di «capitale umano» attraverso la logica della meritocrazia” fornendo così “al mercato del lavoro globalizzato e fluido soggetti-oggetti malleabili e utilizzabili in contesti diversi, privi di contenuti, ma ricchi di capacità di adattamento psicologico e professionale”1, pronti ad entrare in modo acritico nel mondo così come è. Altra cosa è assumere un punto di vista diametralmente opposto, che privilegia le osservazioni, reiterate da più di vent'anni, di chi ha gestito e gestisce a vario titolo la cosa pubblica per altro senza fare mai alcuna autocritica: «Essa (la scuola) non può più continuare ad essere un'organizzazione impegnata soltanto a perpetuare se stessa ingoiando energie, risorse, intelligenza a dispetto dei risultati e del particolarissimo prodotto che dovrebbe realizzare. [...] Corriamo almeno due rischi strettamente intrecciati: di continuare ad alimentare una macchina inutile, un sistema educativo sempre più sfasato rispetto al mutare della società, del lavoro, della politica, dell'economia, con il risultato di produrre una specie di nuovo analfabetismo di massa.».2
Diverso ancora è rivendicare la centralità della famiglia e dei genitori quali titolari esclusivi dell'educazione dei propri figli, seppur con motivi e aspettative assai differenti: da un lato chi ritiene la scuola statale troppo autoritaria, irregimentata e poco adatta al libero e autonomo sviluppo di bambini e ragazzi3, dall'altro chi vede invece nella laicità della scuola di Stato una minaccia dalla quale difendersi4.
Altra cosa ancora è considerare la scuola statale insoddisfacente per la mancanza di un progetto educativo e pedagogico chiaro ed evidente. In questo caso alcuni genitori scelgono di non mandare i propri figli nella scuola di Stato preferendo ad essa contesti che si rifanno a teorie e a pratiche educative consolidate, a insegnamenti di noti filosofi e pedagogisti5 oppure ad esperienze più recenti che adottano ad esempio i principi della comunicazione non violenta6 o dell'educazione biocentrica7. Tanti soggetti diversi realizzano così esperienze di educazione in scuole non sempre parificate, con le modalità dell'educazione attiva, in forma di laboratori, centri estivi o giardini di infanzia. Queste realtà sono accomunate dal principio di avere come proprio riferimento metodi educativi e sistemi filosofico-pedagogici conosciuti e codificati che consentono, per chi vi si rivolge, di riconoscersi e quindi di affidarsi ad esse.
Il fatto che approcci e visioni così diversificati e talvolta divergenti assumano spesso la critica al sistema scolastico statale come punto di partenza per dare ulteriore leggitimità al proprio percorso ritengo sia indicatore interessante di quanto accade nel mondo dell'educazione in Italia.
Le critiche al sistema scolastico nazionale oscillano dall'attribuizione di gravi responsabilità alle azioni di governo, nazionale e sovranazionale, in merito alle politiche scolastiche, alle accuse di incapacità e obsolescenza rivolte tanto al personale della scuola quanto all'organizzazione della stessa come alla scarsità delle risorse disponibili.
Nella rappresentazione corrente la Scuola è spesso descritta come inadeguata a soddisfare al presente i bisogni di chi la abita e la fequenta quotidianamente e, per ciò che concerne il futuro, incapace a garantire le aspettative di rinnovamento e di crescita sociale e culturale che la società sempre più debolmente le affida.8
Che i diversi governi abbiano dato corso ad una errata interpretazione della funzione sociale della scuola, a politiche scolastiche sbagliate, ad una cattiva gestione delle risorse frutto anche di una generale insipienza di quanti e quante si sono succeduti/e nella direzione della cosa pubblica è indubbiamente vero. Che a questo si aggiunga un'evidente incapacità di cogliere le trasformazioni di un mutato bisogno sociale in ambito educativo che richiede forme di organizzazione delle realtà scolastiche meno mortificanti per i soggetti che le abitano è altrettanto condivisibile. Né si può affermare che le politiche scolastiche abbiano reso un servizio utile agli obiettivi di efficacia e di efficienza che gli stessi governi dichiaravano di perseguire fingendo di legare la funzione della scuola ai destini di crescita economica, sociale e culturale del paese.
Tutto vero, eppure a mio giudizio non si tratta qui solo di incapacità politica o, all'opposto, di una precisa scelta politica di asservimento all'unica logica del mercato e del lavoro precarizzato, in un'economia capitalista orientata al moloch del consumo e strutturata nella forma totalitarista e pervasiva della società dello spettacolo integrato. Questa interpretazione possibile indica cose di per sé vere, elementi che di fatto agiscono nella direzione di una erosione del senso dell'esperienza educativa che non fanno altro che far girare a vuoto ogni tentativo di 'riforma' senza arrivare mai a trovare il bandolo della matassa. A mio giudizio però non sono queste le cause principali della crisi del sistema scolastico istituzionale.

Che cosa possiamo credere

Credo che in gioco vi sia, più radicalmente, il fatto che la società stessa non sia più in grado di definire adeguati bisogni socio-politici e non riesca di conseguenza ad attribuirli ed allocarli in modo efficace. Questa mancata identificazione di un progetto sociale condiviso determina per buona parte il fallimento della possibilità che, a livello istituzionale, si trovino forme e risposte adeguate in grado di soddisfare bisogni individuali e soggettivi molto differenti tra loro. In assenza di un'azione sociale in grado di definire natura e carattere dei propri bisogni, il livello istituzionale non si trova più nelle condizioni e nella posizione di svolgere la funzione che ha ereditato dalla modernità, ossia quella di dare risposte “facendo scaturire un'identità a prescindere dalle differenze”9, di individuare un'opinione prevalente che risulti massimamente accettata e che consenta di identificare una compiuta realizzazione formale che le corrisponda.
“Il credere si mantiene tra la riconoscenza di un 'alterità e l'istituzione di un contratto, sparendo nel caso in cui uno dei due termini viene meno.”10 Le istituzioni sono da anni in crisi e mancano di credibilità proprio perché si sono di fatto ritrovate separate e distanti dalla società che dovevano rappresentare disvelando l'illusione del contratto sociale. Questa separazione e questa disillusione si è potuta definitivamente compiere anche perché la società, nel suo complesso, si è dimostrata sempre meno capace di esprime conflitti portatori di istanze chiare, autorevoli e destinate ad imporsi.
In epoca premoderna “a svolgere la funzione del garante poteva essere la semplice circolazione, entro il circuito sociale, di ciò che è verosimile, di ciò che viene “preso per vero” dai più - o dai “saggi”, dagli individui, cioè, che godono di una stima incontrovertibile.”11 Tempi più recenti hanno generato la società di massa ed in essa i totalitarismi del XX secolo e più avanti la società dello spettacolo integrato costruendo nel tempo ben altri meccanismi per la produzione del consenso. Giunti ad oggi sarebbe persino ridicolo rinnovare la denuncia di un “tradimento dei chierici”. Non è un caso che il tentativo di ripristinare una forma di endoxa premoderna attuato dal ministro Luigi Berlinguer istituendo una commissione di Saggi sia finito con un nulla di fatto. Ciò ha reso ancor più evidente l'impossibilità da parte delle istituzioni di adempiere un compito che, separato dal riconoscimento sociale, è divenuto di fatto interdetto e che può essere ripristinato solo in una forma distorta, ossia attraverso l'esercizio della propria autorità in modo unilaterale.
Nella storia ancora recente le istituzioni formali si sono invece spesso composte attraverso un processo istituente che ha visto da un lato una società che, attraverso processi simbolico politici costati anche forti e aspri conflitti, è riuscita ad esprimere opinioni prevalenti ed autorevoli - quelle opinioni notevoli o riconosciute e comunemente accettate dotate di forte autorità collettiva - e dall'altro lato un ceto politico amministrativo che non poteva far altro, pur dentro interessi contradditori e divergenti, che operarsi per tradurre quelle stesse opinioni, espresse dalla società in bisogni socio-politici, in istituzioni in grado di soddisfare nel modo più compiuto possibile i bisogni stessi.
Vale la pena ricordare che “la scuola italiana non è sempre stata statalista e «unica». In passato, all'origine del movimento operaio e delle associazioni di autodifesa e riformatrici, era un concetto importante quello dell'autonomia dell'educazione, e dunque della scuola dallo Stato, dalla confessione religiosa dominante, dai sindacati, dall'industria e dal grande capitale. Lo statalismo fascista e poi le leggi concordatarie [...] erano visti [...] come il nemico da battere. L'antifascismo si occupò però poco della scuola e dell'educazione [...] e gli anni della riscossa e della nascita di una nuova Italia videro l'illusione [...] di un'unità attorno allo Stato, di una presa di possesso dello Stato cui delegare tutto o quasi il progetto pedagogico, diventato «per tutti» secondo una convinzione e un'eredità che erano, a ben vedere, più dello Stato fascista che dello Stato unitario.”12 Tra fine anni Cinquanta e inizio anni Sessanta questo processo porterà poi “lo statalismo e centralismo della scuola italiana” al loro apice.”13
A metà anni Settanta a testimonianza della conflittualità sociale, oltre al vissuto personale di ognuno e ognuna di noi, per chi c'era, si possono anche rileggere le proposte di legge per la «riforma della scuola superiore» che le forze politiche parlamentari presentarono. Tali proposte articolavano i piani di studio divisi in tre aree dove l'ultima area, la terza, detta elettiva, si svolgeva, per un 10 per cento dell'intero impegno scolastico settimanale, “in attività libere, prevalentemente autogestite dagli alunni con l'assistenza di docenti ed eventuali esperti.” 14
Criticammo allora, giustamente, proposte di riforma inaccettabili perché blandivano richieste ben più radicali. In ogni caso rileggere oggi quelle proposte restituisce il clima e il senso di un impegno collettivo portatore di istanze condivise.
Tornando ad oggi quindi non si tratta forse dell'incapacità di leggere le trasformazioni sociali, quanto del fatto che tali trasformazioni sono esse stesse il segno di una modernità oramai conclusa e dell'avvento di un nuovo evo al quale più non appartiene la capacità di co-istituire narrazioni nuove altrettanto forti e unificanti quanto quelle che la modernità ha visto nascere e morire.
Purtroppo questa situazione di divaricazione oramai insanabile tra soggetti istituzionali e società ha portato i primi, venuta meno la loro funzione storica, così isolati dal tessuto sociale, a divenire sempre più autoreferenziali, sempre più presi da meccanismi e procedure di tipo normativo e burocratico che, quando va bene, assolvono una funzione meramente autoreplicante.15 Quando invece va male, l'impossibilità delle istituzioni di riconoscersi quale forma compiuta ed adeguata di bisogni reali espressi dalla società ha contribuito a produrre, senza comunque esserne giustificazione, quella cattiva gestione che, nella più totale autoreferenzialità, è divenuta frequentemente dolosa, figlia del malcostume o comunque del prevalere dell'interesse privato anche nella gestione della 'cosa pubblica'; forme queste alle quali spesso si imputa la responsabilità del fallimento dell'azione dell'istituzione stessa.
L'evidenza di questo stato di cose è confermato non solo dalle condizioni in cui versa l'istituzione scolastica (basti pensare ai problemi che affliggono l'edilizia scolastica) ma anche dalla condizione di analogo dissesto, a vari livelli, dell'amministrazione pubblica e della rappresentanza politica parlamentare.
In questo senso oggi le istituzioni formali, e tra queste vi sono sicuramente oltre la scuola anche i partiti politici, la previdenza sociale e più in generale il welfare così come l'abbiamo conosciuto nel xx secolo (ma anche le istituzioni in senso proprio, ossia cosa è oggi “il linguaggio, la religione, il potere; [...] ciò che è l'individuo [...] l'uomo e la donna”16), non possono che essere espressione dell'enorme fatica che la società stessa compie nell'attribuire ai suoi componenti le proprie 'esigenze', i propri bisogni socio-politici.
Come per altri ambiti anche il 'discorso' circolante sull'educazione non può essere più ricomposto entro quei sistemi “che avevano la capacità di costruire un racconto unitario e sistematicamente connesso, entro il quale gli eventi singolari e contingenti della storia venivano ricondotti a un'origine e compresi in una concatenazione in grado di rendere ragione dell'unità e della continuità dell'insieme. [...] È stato abbandonato il paradigma che aveva tentato di fare della Storia l'unico grande personaggio a cui ricondurre l'intero dell'esperienza. [...] quel discorso [...] non entra più nell'orizzonte primario dell'esperienza” e quindi ad esso non si può più fare riferimento. Prevale ora la narrazione che attinge, come “proposta di senso che si costituisce senza fondamento [...] solo nell'esperienza individuale della persona [...] una narrazione che è di fatto risposta a domande che è l'esperienza ad aver suscitato” e la cui “oggettivazione di senso [...] non è infatti più una visone del mondo (Weltanschauung), ma è risposta ai bisogni che appartengono all'orizzonte dell'esperienza umana.” 17
È in questo senso che la quantità, la diversità e la pluralità di desideri e bisogni individuali, anche legittimamente divergenti, faticano a riconoscersi in un bisogno socio-politico omogeneo, a convergere nell'esigenza di educazione che il livello istituzionale dovrebbe rappresentare come modello. Questo scarto è il segno palese dell'impossibilità per una sola interpretazione, tra quelle in campo, di farsi unica risposta adeguata “ad attribuire sia le tipologie (specie) di bisogni sia ciò che può soddisfarli” ovvero a decidere sia cosa si debba intendere con 'educazione', sia le risorse e i mezzi, i modi e gli strumenti, anche normativi, necessari al soddisfacimento del bisogno stesso. Non si ha più una rappresentazione unitaria che circoli come accettata e prevalente e, tra i soggetti in gioco, ossia tra le istituzioni e l'espressione sociale dei bisogni, non corre più quel tempo necessario all'una e all'altra per riconoscersi e scambiarsi credito e fiducia. Finalmente non possiamo e non dobbiamo attendere più, se mai l'abbiamo attesa, una riforma della scuola giacché nessuna riforma potrà mai restituire né senso né tempo ad una relazione oramai perduta e “nelle relazioni sociali, la questione del credere è la questione del tempo.” 18

Come possiamo agire

Sembra allora che la società non riesca più, o non abbia più interesse, a pretendere che un'istituzione formale si raccolga attorno a una categoria o tipologia di bisogni in un'astrazione che comprenda al suo interno tutti i tipi possibili, ad esempio di educazione, espressi dalla molteplicità dei bisogni individuali e soggettivi. E se l'eventualità di una sintesi felice fosse oramai impossibile, consumata per sempre, mai più restituita alla storia per come oggi si compongono e si esprimono i bisogni? E se questa situazione fosse un'opportunità?
In una società i cui soggetti sono sempre più atomizzati ed eterogenei, attraversata da 'discorsi' non riconducibili ad alcun principio unitario, non credo che si corra il rischio della babele quanto piuttosto si possa realizzare in positivo l'opportunità di un rinnovamento continuo, di un equilibrio metastabile offerto dal costituirsi di “universi di discorso differenti” che all'interno della società giocano rappresentazioni e pratiche possibili nella diversità, estranee appunto ad “un'identità a prescindere dalle differenze” e quindi non riconducibili ad un modello istituzionale unificante.
Si tratta forse di affidarsi a “narrazioni che una collettività condivide in forme non codificate - narrazioni nomadi, a cui si può attingere al di fuori dei circuiti istituzionali. In tali narrazioni si nasconderebbe un potenziale eversivo [...] esse attestano la persistenza di altre forme di strutturazione simbolica del reale, per principio non assimilabili a quella che viene offerta dalle forme di razionalità che costellano l'esperienza culturale moderna.” 19
Di fatto ciascuna esperienza e ciascuna realtà educativa che si voglia offrire come soluzione 'locale', per quanto nata all'interno di un gruppo, di una 'comunità educante' che viene, probabilmente esibisce solo la propria particolare interpretazione dello specifico bisogno socio-politico in questione, offre la propria rappresentazione dell'astratta esigenza di educazione circolante nella società che il livello dell'istituzione statale non riesce più a rapresentare e a realizzare come istituzione formale, come Scuola.
In realtà, nel suo complesso, tale bisogno astratto si trova espresso nella società, come risuta evidente anche dai pochi esempi proposti, in desideri e bisogni concreti di apprendimento non più riconducibili ad un unico modello astratto. Per questo l'offerta dello Stato viene sempre più percepita come una tra le tante, quindi non come sintesi ma come 'concorrente', ossia come realtà che letteralmente concorre insieme ad altre a dare parziale risposta ad un bisogno che resta diffuso. Del resto già a metà anni Ottanta nei discorsi degli 'esperti' sul sistema educativo e scolastico circolava, sebbene su di un piano che metteva al centro il tema della sussidiarietà, l'osservazione dell'inevitabile proliferazione delle 'tante agenzie formative' che nel tempo si sarebbero occupate di educazione, istruzione e formazione20.
Dove l'opportunità allora? Non certo nell'intendere il concetto di 'concorrenza' in una logica mercantile e affaristica. Piuttosto, all'opposto, nell'accogliere il dispiegarsi del molteplice apparire di istanze diverse quale occasione di realizzare in modo diffuso un'educazione davvero pubblica, non astrattamente di tutti e per tutti ma concretamente di ognuno/a per quel che ognuno/a cerca ed ha bisogno.
La scommessa sarà probabilmente tutta nel riuscire o meno a contrastare l'egemonia, forte nel nostro paese, di Stato, Chiesa e Famiglia e nel rendere le diverse esperienze educative realmente pubbliche tessendo racconto, incontro e scambio tra realtà e contesti non riducibili ad un'unica rappresentazione e interpretazione. Uno sforzo che necessita da parte di ogni realtà di disporsi in ascolto, in relazione dialogica con quanto di altro e di diverso ci trascende senza pretendere che la nostra particolare e parziale 'visione' trovi composizione in un nuovo modello valido per tutti.
Ecco allora che si rende necessario, nella galassia educativa che viene, conoscersi e riconoscersi a partire dalle reciproche differenze. Nominarsi per quel tanto che renda evidente l'articolazione della propria singolarità soggettiva senza negare quanto possa dirsi prossimo e, al tempo stesso, senza che ciò che accomuna ottunda differenze anche profonde.

Maurizio Giannangeli

Note

  1. Francesco Codello, L'educazione libertaria alla prova dei fatti, in L'anarchismo oggi. Un pensiero necessario, a cura di Luciano Lanza, pagg. 47-65, Mimesis Libertaria 2014, 2013
  2. Romano Prodi, La società istruita. Perché il futuro italiano si gioca in classe, rivista “il Mulino” n. 346, 2/1993
  3. “[...] per molti bambini la scuola non è un luogo dove imparare con gioia. Lo stare seduti a lungo, lo stress per l'apprendimento passivo, il cambiamento innaturale delle materie al suono della campanella, la paura dei voti negativi, il divieto di socializzare liberamente durante la lezione, le interazioni violente e sistematiche tra bambini, la lontananza dalla famiglia per troppo tempo, gli insegnanti logori e senza energie, l'alzarsi presto per andare a scuola e l'andare a letto tardi per studiare, la mancanza di supporto per l'apprendimento delle competenze sociali, l'impossibilità di ricevere attenzione individuale sono solo alcune dei motivi per cui la scuola non può essere considerata un luogo piacevole.” Da: http://www.controscuola.it/cambiare-i-paradigmi/
  4. Vedi: http://www.rassegnastampa-totustuus.it/modules.php?name=News&new_topic; http://vaticaninsider.lastampa.it/
  5. Vedi: http://www.krishnamurti.it/, http://www.operanazionalemontessori.it/index.php?option=com_frontpage&Itemid=1, http://www.educazionewaldorf.it/home/, http://www.scuolacittapestalozzi.it/
  6. http://www.villaggioempatico.it/, http://www.comunicazioneempatica.com/
  7. Vedi: http://www.educazionealtalento.com/i-nostri-riferimenti/educazione-biocentrica/; http://www.lavitaalcentro.org/
  8. È appena uscito in edicola l'ennesimo vacuo ed agile libretto di velata critica e di non troppo nascosto autocompiacimento che reitera l'invenzione dello stato dell'arte in cui versa la Scuola per ribadire, in fondo, la necessità di sostenerla. Andrea Bajani, La scuola non serve a niente, 2014 Gius. Laterza & Figli
  9. Ágnes Heller, Una teoria dei bisogni riesaminata, in Ágnes Heller, La bellezza della persona buona, a cura di Brenda Biagiotti, 2009 Edizioni Diabasis, p.30.
  10. Michel de Certeau, La pratica del credere, 2007 Edizioni Medusa, p.30
  11. Giovanni Leghissa, Michel de Certeau, storico e credente, introduzione a Michel de Certeau, op cit., p.21
  12. Goffedro Fofi, Prefazione, in Lamberto Borghi, La città e la scuola, a cura di Goffredo Fofi, 2000 Elèuthera editrice, pgg. 8 e 9. Disponibile anche su: http://www.eleuthera.it/scheda_libro.php?idlib=129
  13. Goffedro Fofi, Prefazione, op. cit. pag. 11
  14. Scuola: Riforma o controriforma? Le posizioni delle forze politiche sulla «riforma della scuola superiore». I progetti di legge di DC, PCI, PSI, PSDI, PRI. Interventi di Lotta Continua, Avanguardia Operaia, PdUP, Lega dei Comunisti, Movimento Studentesco, a cura di Cesare Donati, Filippo Ottne, Franca Rosti, Attualità Politica 11, 1976 Savelli Editore, pag.90
  15. Nei documenti dei gruppi di lavoro della commissione dei 40 saggi istituita da Berlinguer si legge: «Le rigidità di un sistema centralizzato di gestione della scuola, con un eccesso di regolamentazione e autoreferenzialità e un intervento amministrativo frammentario, a discapito di altre funzioni di governo, di indirizzo e di valutazione, hanno contribuito ad un abbassamento della qualità dell'apprendimento e dell'insegnamento. In queste condizioni, anche il tentativo di far fronte dall'alto, per via burocratica, ad una convulsa domanda sociale si è tradotto in un aumento dell' inefficienza del sistema e in un abbassamento del livello delle responsabilità individuali e sociali.» Surreale se si pensa alla natura della fonte: Gruppo di lavoro n. 1 - Coordinatore: prof. Giuseppe Tognon, Moderatore. isp. Marisa Valagussa, Ragioni, finalità e obiettivi della riforma; indicazioni generali per la sua attuazione. Si trova in: http://www.fisicamente.net/SCUOLA/index-1529.htm#1
  16. Cornelius Castoriadis, La rivoluzione democratica. Teoria e progetto dell'autogoverno, a cura di Fabio Ciaramelli, 2001 Editrice A coop. Sezione Elèuthera, p.40
  17. Ugo Perone, Premessa, in Agnes Heller, Per una antropologia della modernità, pagg. 10-11, Rosemberg & Sellier 2009
  18. Michel de Certeau, op. cit., p.31
  19. Giovanni Leghissa, op cit., p.21
  20. Angelo Malinverno, Ragionando di professionalità, in http://www.cidimi.it/DOCUMENTI/Documenti_Archivio_ProfessionalitaDocente_MALINVERNO.html. Dello stesso autore un'interessante analisi critica della funzione del “centralismo statuale” nel sistema dell'istruzione pubblica in Italia si trova in: Angelo Malinverno, La scuola in Italia. Dalla legge Casati alla riforma Moratti (1860-2004), 2006 Unicopli.

Signori benpensanti,
spero non vi dispiaccia

Fabrizio De André

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