rivista anarchica
anno 44 n. 391
estate 2014


pedagogia libertaria

Incidentalità/progetto

reportage di Giulio Spiazzi


Autenticità, reciproco rispetto e competenza nel rapporto educativo.
Alcune note e alcuni confronti su un tema spinoso e poco compreso dell'educazione libertaria.


Per me, il principio primo dell'anarchismo non è la libertà ma l'autonomia, la capacità di darsi un obiettivo e perseguirlo lungo un proprio cammino... La debolezza del «mio» anarchismo è che la brama di libertà è un forte motivo di cambiamento politico, e l'autonomia no. Gli individui autonomi si proteggono ostinatamente ma con mezzi meno energici, facendo anche largo uso della resistenza passiva. La cosa che vogliono la fanno comunque. Il pathos degli individui oppressi, tuttavia, è che, se si liberano dalle catene, non sanno cosa fare. Non essendo stati autonomi, non sanno cosa significa, e prima che imparino, si ritrovano nuovi amministratori che non hanno alcuna fretta di abdicare...

Paul Goodman

Kether - Saper scalare un albero, ovvero saper entrare
incidentalmente in dialogo con una realtà
sociale autoeducante

“Cavarsela da soli”. Sembra strano ma, quest'arte naturale di sopravvivenza e di equilibrio sociale, è stata dimenticata da gran parte della giovane popolazione di studenti dell'Italia attuale. Questo processo graduale, incisivo, il più delle volte viscerale, di smarrimento, riguarda i rapporti che si sono solidificati (processo inverso, corrosivo, di dipendenza) nelle strutture della micro-famiglia dei giorni nostri, nelle realtà sintetiche di bambini/e e ragazzi/e che “formano gruppi di aggregazione” artificiali, nella paradossale, assurda, istituzione della cosiddetta scuola contemporanea.
Non è un caso, che nelle piccole realtà libertarie della Penisola, arrivino sempre più bambini/e e ragazzi/e che rifiutano radicalmente il rapporto con gli adulti e, in specie con gli inoculatori di parole ed azioni preposti all' “insegnamento”, lontani da ciò che reputano essere la percezione prima del loro “ fresco senso della vita”. La domanda più frequente che affiora dalle giovani labbra è: “perché tutte quelle ore, in quelle aule, su quei banchi, ad ascoltare parole e a scrivere cose noiose?”, oppure: “ma... a cosa serve imparare tutto questo?”. Minati alla radice del loro immaginario, molti di essi vivono in una condizione di profondo spaesamento l'Unheimlich del colonizzato e non certo quello della “scelta”, ove anche i riti sorgivi e intimamente autentici del gioco, hanno ormai (e si parla di giovane o giovanissima età) assunto il tono della copia, della replica male imitata, non costruita, di difficile rielaborazione creativa. Se si annienta il gioco, come si può chiedere di affrontare la vita, esponendo la propria irriducibile particolarità all'evento?
Dunque, questo moto obbligatorio, ormai incosciente ed accettato, del portare la “cultura elementare”, del “dare conoscenza dei fatti accaduti (le materie ad esempio) o “praticabili”, (le scienze, per di più considerate esatte)”, del promuovere schematicamente il “passaggio all'astrazione”, per trasformare in fondo il tutto in “cultura”, e in specie patrimonio del sapere europeo e/o occidentale, guarda o non guarda il bambino/a, il ragazzo/a, il giovane/la giovane? E se lo fa, da quale angolatura indirizza la propria attenzione? Da quella della libertà dell'individuo? Dalla coltura della sua autonomia? Oppure da quella di qualche altro “terreno ben arato” (“volto al futuro” o semplicemente “subito nel presente”), in realtà non “altro”, nel senso dell'incontro e del riconoscimento, che poco contempla le radicali e differenziate interpretazioni del mondo del giovane che inizia una vita?
A cosa effettivamente servono, come sostengono i bambini/e rigettati/e o in fuga dalle istituzioni di tutti i tipi, (o semplicemente, il ragazzo/a “che chiede”), questi meravigliosi capolavori di tessitura, questi arazzi di dominio filati nel corso degli anni da mani/macchine che propongono democraticamente o con metodi totalitari, il “cittadino”, “l'uomo nuovo” (dopo due guerre mondiali, … ad esser corretti: 'un po' obsoleto'...), lo specialista di settore, il consumatore di massa, il tecnico esecutore ecc. ecc.? Come potrà mai rispondere un giovane o giovanissimo, a quella che percepisce chiaramente essere una minaccia alla propria libera espressione “mente-corpo-creatività illimitata”, perpetrata da un enorme Golem di menzogne e inutilità, devoto allo spegnimento dell'interesse, della curiosità, dell'errore come ineguagliabile pratica di conoscenza per la propria esistenza? Quali percorsi non-adulto-centrici di risposta potrà mai praticare un individuo, nel verde dei suoi anni, avviluppato nei legacci di una “non-scelta” che pretende sudditanza, non-pensiero, inazione, e, ancora una volta, frena il divertimento e allontana il gioco della vita? Perché nella tetra “fortezza d'Occidente” si è così “razionalmente” e “responsabilmente” lentamente ed oggi, perentoriamente ordinato che, non s'“impari ad imparare”? Che cosa “serve” effettivamente ad un ragazzo/a che si apre al cosmo del suo quotidiano, nella delicata opera di organizzazione autonoma del proprio “sapere” di pratica e di studio?

Afghanistan, Taloqan - Il nostro nonno ciabattino e
l'apprendimento incidentale del bazaar

Afghanistan, Piana del Takhar - La strada si fa maestra
di occasioni. I piccoli venditori di dolci

Noor, bambino afghano

Noor Makhmud ha sette anni, vive nella provincia nord orientale dell'Afg2hanistan, al centro della piana del Takhar. Nella città di Taloqan aiuta il nonno ciabattino nell'attività di riparazione di sandali e di scarpe. È un lavoro che lo impegna “a tutto tondo”, anche perché prevede una costante abilità nel rintracciare nuovi potenziali clienti, disposti a recarsi dall'abile anziano ottuagenario, nel caotico e affollato mercato del capoluogo.
Per avvicinare Tajiki, Uzbeki, Hazara e Pashtun, è necessario aver imparato tutto quello che c'è da sapere su queste imprevedibili e incostanti tribù montanare. Riconoscere un uomo da un abito di foggia particolare è un'azione etnografica di un certo rispetto, ma, indovinare con precisione un soggetto culturale differenziato dal tipo di calzatura indossata, è una concretizzazione conoscitiva di percorso, riservata solo a chi desidera ed aspira ad imparare, un mestiere. Per arrivare a questo, il giovane Makhmud è passato attraverso il “praticantato di strada” del fratello maggiore Wajid che, con pazienza e caparbietà, gli ha riferito per filo e per segno come si deve osservare uno dei tanti “stranieri interni” del variegato mosaico umano dell'Afghanistan. Ridendo Makhmud racconta che Hazara e Uzbeki hanno piedi piccoli e quadrati e che a volte non è facile distinguerli e riconoscerli dal viso, avendo tutti e due lineamenti orientali ma, che “da come poggiano i piedi per terra, … non ci si può sbagliare”. “Gli Hazara poi, hanno bisogno di calzature molto robuste, a differenza degli Uzbeki, perché, pur essendo entrambi grandi camminatori, gli Hazara hanno piedi più compatti, piatti, potenti, in grado di consumare sandali da mulattiera e frantumare scarpe poco protette”. Wajid che ha dodici anni, racconta di come sia importante “aiutare il fratello minore” nel farsi sicuro in quest'arte della distinzione.
“La sera, dopo il mercato” aggiunge, “ci raccogliamo sotto l'arco di un piccolo portico per raccontarci le cose accadute durante la giornata. Con noi c'è un'altra decina di ragazzi che alla spicciolata arrivano da varie parti del quartiere. Io e Makhmud, siamo fortunati. I nostri genitori sono morti durante la guerra ed il nonno non vuole sentire parlare di farsi aiutare per sistemare le sue faccende domestiche.” “Così io posso ascoltare” sorride Makhmud e carpire “i segreti che Wajid e i suoi amici più grandi conoscono, dopo anni di attività”. Molto seriamente sostiene che non è ancora in grado di distinguere se un piede “appartiene ad un Pashtun del Sud o a uno di frontiera” ma, assicura, che nel giro di un paio di anni capirà esattamente tutte “le indicazioni e i dettagli che suo fratello maggiore gli sta illustrando con estrema pazienza da molto tempo”. E il particolare non è da poco.
Un abitante afghano d'oltre montagna (leggi: confine), è più facile da “conquistare”, rispetto ad un Patano di Kandahar ed inoltre, assicura un pagamento immediato e corposo. “E...la scuola e... le lingue per poter spiegarsi con gente così poco affine culturalmente? Il tagiko è ben diverso dal pashtun!” Wajid e Makhmud, ridono a crepapelle: “Vorrai dire il Dari e l'Urdu, vero? … S'imparano sulla strada, nel mercato. Lì puoi iniziare a parlare anche l'uzbeko, il dialetto kirghiso, il cinese degli Uiguri e... conosciamo anche la lingua degli Sciuravì: nogha-piede; obùvnoì-scarpa..., ce la hanno insegnata altri ragazzi del mestiere, più grandi di noi, che lavoravano al mercato quando c'erano i Russi...non si sa mai che...ritornino a cambiarsi gli stivali...” “Questo è quello che ci piace e ci interessa e che ci fa vivere”. Per scrivere e leggere poi, c'è sempre il nonno che ci aiuta quando gli chiediamo di farlo”.
“Nostro cugino va a scuola ma, lì vogliono farti pensare in Arabo e a noi non va bene, è pericoloso, ti può far cambiare la testa e... non serve a quello che ci piace fare e che ci dà il nan, il pane. E poi, ...gli Arabi vanno a cavallo... ”

Afghanistan - Generazione della speranza. Giovani e
adulti in stretto contatto autoformativo

A Kether, nessuna maggioranza

Sul pavimento della “stanza dei computer”, nella Piccola Scuola Libertaria Kether di Verona, H. si rotola lentamente osservando a tratti il soffitto e saltuariamente gli affaccendati ragazzi delle medie, intenti a sfogliare i fascicoli di una vetusta enciclopedia ad immagini, per giovani studenti di un tempo. I fascicoli colorati di rosso e le stampe variopinte di “Conoscere”, non attraggono particolarmente H. (a differenza dei suoi voraci “colleghi di lavoro”), come pure e tanto meno, gli accompagnamenti di materia, tarati per la sua fascia d'età ed abbandonati sul piano di una sedia. Ad H. piace librarsi nei cieli dei suoi mondi fantastici, percorsi da vuoti d'aria e da repentine brezze primaverili provenienti, in simbiosi, dal bosco circostante. Osserva le volute di una pesante mosca nera che visita l'ambiente con traiettorie irregolari, per poi imitare con le dita sollevate, i tracciati geometrici scomposti, dell'insetto. H. non dipende da nessuno, se non da se stesso. Per mesi è stato “messo alle corde” in concitate assemblee di bambini/e-ragazzi/e-accompagnat/ori/rici che ne volevano l'allontanamento momentaneo o drasticamente, l'espulsione, a causa delle sue marcate provocazioni, vere e proprie violenze ai danni di persone e cose, “capricci e opposizioni”. Ma a Kether non vige il metodo della “maggioranza” e, il raggiungimento fondamentale dell'“unanimità” in decisioni lente e faticose, ha permesso fino ad ora ad H. di “darsi del tempo”, per imparare a convivere “a modo suo” e a partecipare ad un percorso individuale e comune di quotidiana, serena frequentazione. Dunque H. vaga libero nel suo scorrere dei giorni, nel suo spazio fisico e immaginifico osservando tutto e tutti, al più passivo, non agente, in una simulata dimensione di dimenticanza dell'altro, quasi abitasse una tregua ipnotica necessaria a capire se stesso e il contesto in cui si vuol calare ma di cui non riesce ancora appieno ad apprenderne le indicazioni, per poter forgiare i propri utili strumenti di rapporto e di rispetto. Considerando come si è presentato a settembre, comunque H. ha impercettibilmente imparato da L. e da G. a non scontrarsi fisicamente per ogni situazione di contrasto nel gioco e nello studio. Egli ha costruito invisibilmente con F. e con N. un parametro di relazione per quel che concerne la “costruzione di un ambiente ludico” come la “base”, il “mercatino” nel bosco o più semplicemente, ha stabilito la propria posizione nella ritualità della partita di calcio sul prato, alternando momenti come operatore attivo del gioco o come spettatore delle dinamiche di attacco e difesa, quando il confronto si fa più deciso.
H., all'inizio, aveva una particolarità tutta speciale da spendere, per cercare di ricevere una propria visibilità speculare all'interno di un gruppo: quella di fungere da capro espiatorio. Quando indirizzava le sue risposte violente a qualcosa o a qualcuno di mirato (facendo così intendere che a tutti gli effetti vedeva “l'altro”), si assumeva quasi con consapevole indifferenza la patente di colpevole. Quando non era realisticamente l'artefice di qualche azione che infrangeva le regole auto-stabilite in assemblea, costruiva una sorta di immagine catalizzatrice che permetteva agli altri di indicarlo come responsabile, anche se in effetti non aveva agito né svolto alcunché di contrario alle suaccennate decisioni collettive. Dopo mesi di sfuggente scambio di informazioni sociali non verbali, dopo numerosi passaggi d'esempio e d'esperienza tra bambini/e, ragazzi/e, raccolti sul terreno del loro sentire e del loro agire come micro-comunità in grado di auto-produrre vita, gioco, interesse alle cose del mondo, H., pur rimanendo a tratti ancora “H.”, si sta auto-educando alla relazione non conflittuale con chi compone attualmente il cammino libertario di Kether. H. sostiene che a lui “serve” stare con gli altri, provare cose che non siano solo i giochi elettronici (pur andandone pazzo), sentirsi coinvolto nelle situazioni ludiche, senza dover essere sempre “il primo attore”, anche se è difficile riconoscere questo. A tratti e subitaneamente, dichiara di essere stato abituato a “primeggiare”, anche solo per il fatto di passare ore e ore senza un coetaneo o con adulti seri e/o “eccessivi”. H. è sensibile al contatto fisico rassicurante, si “scioglie” quando un amico o una compagna lo abbraccia con affetto e lo “smonta” pezzo dopo pezzo della sua corazza d'irascibilità e frustrazione scomposta. Ed H. impara, perché vuole imparare, ma non dai libri, né dagli accompagnamenti di materia o di studio scolastico.
H. frequenta un percorso di auto-apprendimento dell'essere umano con l'essere umano, e non può né vuole “vedere” un traguardo d'esame che sancisca una sua presunta “idoneità alla classe successiva”. Che senso può avere per H. una simile astrazione lontana, rispetto ad una lenta conquista del suo stare nel gioco ed imparare ad imparare relazioni di vita? H. in questi giorni passa alcune ore su un albero. È diventato uno dei maestri d'arrampicata, grazie alle sue forti doti di equilibrio fisico, coraggio e disponibilità allo scambio di tecniche di salita. Aiuta “piccoli” e “grandi” in quest'arte antica e dimenticata attraverso la sua profonda generosità. Tutto ciò lo fa star bene e già molti lo vivono con più accettazione ed iniziano a stimare i suoi aspetti socializzanti emergenti. Forse quella mosca che gira vorticando nella stanza, gli sta insegnando parametri ignoti sul come scalare meglio la cima di un albero.

Kether - Esperimenti e autodidattica. Alcune calamite, molta
passione e qualsiasi orizzonte della fisica ci appartiene

Con serenità e caparbia

A questo punto, ci si potrà dunque chiedere, che cosa possa legare dei bambini nati e vissuti in Asia Centrale con un ragazzo in crescita nell'Europa Occidentale. Quale “flutto di contatto” (considerando l'educazione un “divenire” simile all'acqua che scorre in ogni dove di un fiume), possa mai esserci tra l'auto-formarsi sulla base della propria gioiosa volontà di sopravvivenza, in una strada afghana, e la ricerca graduale e a volte sofferta, di un'accettazione in un gruppo (che diventa un prototipo di società italiana), sulla base di un'auto-correzione volta allo sviluppo di una partecipazione? Una possibile risposta, tra altre, potrebbe ben essere, la possibilità di esercitare pratiche di educazione incidentale, coscienti o al più delle volte inconsapevoli, ove il giovane viene coinvolto dalla vita, non tanto per raggiungere un obiettivo di sapere astratto e codificato ma, per imparare, nell'assunzione della propria autonoma volontà d'intervento, nella costanza dell'inevitabile prova di rispetto reciproco, nella stretta frequentazione, nell'autenticità di relazione, le estensioni intensive (i qualia dunque e non solo i quanta) di rapporto con l'altro, ovvero quell'aspetto fluido, impalpabile di crescita sociale, che i ragazzi/e molte volte sintetizzano, chiaramente (per chi vuole intendere), con il verbo, non a caso al presente e in terza persona: “serve”.
Come sosteneva Paul Goodman, per chi non lo avesse momentaneamente presente, ricordo brevemente chi fosse questo “maestro” di Ivan Illich [Paul Goodman nasce il 9 settembre 1911 a New York (nel Greenwich Village), da famiglia ebraica. Compiuti gli studi superiori, si laurea al City College di New York nel 1931, seguendo poi corsi alla Columbia, a Harvard e all'università di Chicago, dove ottiene il dottorato nel 1954. Nel 1939-40 è già assistente all'università di Chicago, incarico che perde quasi immediatamente a causa della sua condotta apertamente omosessuale. Si definiva “uomo di lettere”, dunque era anche un poeta, un drammaturgo, un romanziere e un acuto critico, e pure un pensatore educativo, uno psicoterapista e un anarchico e per me, senz'altro un filosofo da annoverare nel limbo del pensiero contemporaneo, se non altro per la sua capacità di creare o rifondare a modo proprio, concetti], ebbene, si diceva, “fino ad un'epoca assai recente, in tutte le società, sia primitive che altamente civilizzate, gran parte dell'educazione era incidentale. Gli adulti svolgevano il loro lavoro e assolvevano gli altri compiti sociali. I bambini non erano esclusi. I grandi prestavano loro attenzione e li preparavano alla vita futura; ma non si impartiva loro un <<insegnamento>> vero e proprio. Nella maggioranza delle istituzioni e delle società, l'educazione incidentale è stata presa per scontata. Essa ha luogo nel lavoro della comunità, negli organismi di apprendistato, nelle gare, nei giochi, nelle iniziazioni sessuali e nei riti religiosi.”
Se accompagnato con serenità e caparbia, nelle piccole realtà libertarie educative già operanti in vari contesti nazionali, questo processo incidentale si adatta alla natura dell'apprendere, meglio del cosiddetto insegnamento diretto. “Il giovane sperimenta cause ed effetti, invece che esercizi pedagogici. La realtà è sovente complessa ma, ogni giovane può coglierla a modo suo, nel suo momento, secondo i suoi interessi e la sua iniziativa. Inoltre, cosa ancora più importante, può imitare, identificarsi, essere approvato o disapprovato, cooperare o competere senza soffrire dell'ansia causata dall'essere il centro dell'attenzione.”
Come dunque la “strada”, meglio ancora la “strada che cresce” o una piccola comunità d'intesa educativa aperta all'imprevedibilità della vita, possono essere un “paradigma sbocciato” di una ricerca educativa incidentale, così per Goodman, l'archetipo realizzato di questa fattiva possibilità incidentale è “il bambino che impara a parlare, impresa intellettuale formidabile che si attua universalmente. Non sappiamo come avvenga, ma le condizioni principali sembrano essere quelle di cui parlavo prima: l'attività procede ad implicare il parlare. L'infante partecipa: gli adulti fanno attenzione a lui e gli parlano; egli gioca liberamente con i suoi suoni; e infine, è vantaggioso per lui [come dicono i bambini/e, ragazzi/e: “serve”] farsi comprendere”.
“Lo scopo della pedagogia elementare è molto modesto: un bambino piccolo deve essere in grado, per spinta propria, di interessarsi curiosamente a tutto quanto avviene e, con l'osservazione, le domande e l'imitazione pratica, trarre qualche insegnamento da questo suo curiosare intorno. Nella nostra società ciò succede a casa, fino ai quattro anni; ma dopo, diventa di una difficoltà proibitiva.”
Ed è proprio da questa “difficoltà proibitiva” di cui parla lucidamente Goodman, da questa “distorsione immobilizzante”, che ripropone l'“angoscia dell'imparare”, dalla corretta percezione dell' “insensatezza per ciò che comunque si deve fare ma che non ‘serve'” del bambino/a, del preadolescente e dell'adolescente che ricerca una visione accettabile del proprio impegno scolastico, che si crea la “dimensione di azione” nel qui ed ora, di una prospettiva libertaria che vuole la pratica negli interstizi del fare attuale, lontana dai terreni anestetizzati dell'aspettare futuro. L'implicare come dice bene Goodman, ci riporta correttamente al concetto di plier, “piega”, il fulcro d'ellissi situato nella parte concava della curva di inflessione che è la condizione nella quale appare al soggetto la verità di una variazione. Il bambino/a, il ragazzo/a, in una situazione di libertà ed autonomia pressoché assoluta, vive costantemente nell'ambiente inattaccabile dalle logiche adulte, di quei ripiegamenti interiori che permettono la rappresentazione del mondo e i ripiegamenti esteriori della materia (l'albero, la buca, i materiali “vivi”, la corteccia, il colore, l'acqua, il fango, la neve ecc. nel loro “ripiegarsi cavernoso”).
Come l'infante di Goodman, in cui si esercita la fattiva possibilità incidentale dell'imparare a parlare, il puro Evento, della linea o del punto, il Virtuale o l'idealità per eccellenza che si fa attuale nel gioco di auto-crescita è il mondo, o piuttosto il suo cominciamento, come diceva Klee, è il “luogo della cosmogenesi”, “punto non-dimensionale”, “tra le dimensioni” del giovane che impara ad imparare. È dunque l'incidentalità il punto di crisi che fa dell'apprendimento la “possibilità d'oltre orizzonte” dello studente che auto-impara. L'educazione incidentale, vista dunque nell'ambito di una geometria della relazione umana, porta nel proprio tratto agente l'evento della vita, la linea di crescita, il punto di comprensione acquisibile, scaturente dal contatto di esperienza diretta con il concreto “altro”, con la frequentazione spontanea e naturale del o dei soggetti “immersi e operanti nelle realtà delle cose”, che creano la condizione “fonte” il luogo-gioco di inflessione, il fulcro laddove la tangente attraversa la curva come il punto-piega, il punto elastico che segna la genesi delle linee attive e spontanee, il continuum di variazione invisibile e costante di un imparare da sé partecipante, nella propria autonomia d'esposizione. Per dirla con Gilles Deleuze, oltre le lande dello Strutturalismo, il bambino/a, il ragazzo/a, che cresce nella incidentalità conoscitiva del proprio percorso di vita, che è e che incessantemente (in senso eracliteo) diviene opera di sensazione esso stesso, nella pratica libera dell'approccio alle cose del mondo, “crea” in sé e con sé una «modulazione temporale che implica una variazione continua della materia e uno sviluppo continuo della forma».

Kether - Alcune pietre, bastoncini e il racconto
materico di una situazione, ricreano la casa perduta di C.

Nel rispetto della relazione educativa

Conseguente ad una pratica coerente quotidiana e di lungo periodo, relata all'educazione incidentale, sta la mediazione (adulto/non adulto) che si potrebbe instaurare tra un accompagnatore preparato, consapevole ed auto-disciplinato (dunque con alle spalle una propria, appassionata auto-formazione meglio se poliedrica e “vissuta”, tenuta in paradossale fecondante, tensione-elastica non-impositiva, con il gruppo di lavoro collettivo) e i/le giovani frequentanti le realtà educative libertarie. Il rapporto dialogico tra le componenti differenziate coinvolte nel progetto di crescita comune, coinvolge tutte le figure (dunque accompagnatori e studenti posti su un piano di parità) negli aspetti decisionali di gestione, anche fisica della “scuola” (pulizie, raccolta di legna per la stufa durante il periodo invernale, pasti, scelta delle materie, frequentazione di corsi specifici, giochi, discussione sui programmi didattici da presentare agli esami e così via) e viene concepito e praticato direttamente in assemblea. Ma è sul “nodo delle competenze” che spesso, chi opera in questo campo, glissa istintivamente il confronto, quasi fosse questo, un vero e proprio “campo minato” per l'educatore-accompagnatore. E così in effetti è.
Summerhill, con la sua lunga esperienza, nella nostra contemporaneità, ci ha insegnato che esiste un percorso delicato, spinoso e al contempo irrinunciabile, di strenuo contatto tra la salvaguardia della dimensione esistenziale e di auto-apprendimento di valori del giovane e le conoscenze culturali necessarie per potersi collocare con altrettanta necessaria consapevolezza e, io direi, soddisfazione nel mondo. Questo vasto fiume del fluire educativo o meglio, auto-educativo, ci permette di cogliere l'immagine di due sponde, due “argini” se vogliamo, che per essere frequentati, entrambi abbisognano di un “bridge”, un “ponte” abbastanza solido da permettere uno scambio costante tra il momento relazionale e quello dell'istruzione (chiamiamola così per intenderci su un termine sibillino, che ha albergato e ancora oggi è ben presente, nel “modo statico” di concepire la “massa delle conoscenze”, “da portare”).
Questo “passaggio assiduo a doppio senso di marcia”, osservato in modo simbolico attraverso l'immagine, appunto di un ponte, a mio avviso si chiama: equilibrio. Nell'arte reiterata del rispetto della relazione educativa, si dovrebbe con perseveranza e in contemporaneità, “far schiudere” in modo armonico ed organico il proprio bagaglio d'esperienza fecondante, con l'apporto culturale delle conoscenze, e l'apprendimento dei saperi indispensabili e di base, insomma, utilizzando tutti quegli strumenti coerenti, alchemicamente mescolati nella condizione di un “incontro inaspettato”, atti a poter iniziare ad affrontare il mondo degli uomini e delle cose.
Francesco Codello, che qui cito, di buon grado, per la sua insostituibile dedizione allo sviluppo e alla diffusione di un sentire educativo libertario applicabile e reale, ci parla, a questo avviso, della “metacognizione”, cioè dell' “acquisizione del metodo col quale si impara ad imparare”, ancora una volta, guarda caso, basato sul “come” si impara ad imparare, che nella frammentarietà e continua instabilità dei mutamenti delle “scienze e dei dati d'insegnamento”, rimane un fattore “abbastanza stabile nel tempo e nel mutare dei saperi”. Fu William Godwin (si vede che tra God[win] e Good[man] e viceversa, ...ci deve essere qualcosa di buono...così sembrano dirci incidentalmente anche gli OM di Al Cisneros, in un loro recente album musicale intitolato appunto … ‘God is Good'... [tipico gioco di parole in voga tra chi compone liberamente e ‘cabalisticamente' testi “seminali” inattesi]), a mettere in essere questo concetto, già nella seconda metà del Settecento e Summerhill, come si è accennato, a sperimentarne la pratica nel tempo (e questo dovrebbe far pensare chi, ogni anno, attonito, ancora ci guarda stupito, in sede di commissione statale d'esame, applicando alla lettera la “non volontà adulta” di conoscenza per i centenari e io rimarcherei, rifacendomi alla storia dell'uomo, addirittura millenari, tracciati dell'educazione libertaria - solo per citare analisi di “riposizionamento” di John Zerzan o di Riane Eisler o della antropologa lituana Marija Gimbutas).

Kether - Scelta e incidentalità. Nord chiama Sud,
Sud chiama Nord. Magneti e attrazioni, la vita crea lezioni

La scuola di un tempo “altro”

Codello ci mette comunque in guardia a riguardo di questa ottima “prospettiva di lavoro” definita come “meta-cognizione”, per ciò che concerne la sua attenta “applicabilità” nel nostro contesto diciamo “globalizzato”, affinché essa non arrivi a creare paradossalmente delle disuguaglianze. Ed è ancora una volta pesantemente in gioco, io ritengo, l'azione consapevole dell'accompagnatore adulto che, per poter svolgere un buon cammino con i giovani, deve, saper intervenire con, ripeto, equilibrio, per valutare appunto la presenza o meno di “parametri motori” diciamo “attuali”, che vedono nella “scuola come mercato” la mistificazione del principio stesso di “metacognizione”. Persone che, grazie ad un percorso particolare di crescita nell'educazione scolastica ottengono delle solide metodologie di acquisizione delle conoscenze, risulterebbero più avvantaggiate rispetto a quelle che strutturano delle conoscenze specifiche, chiamiamole “inamovibili”. Se ciò, però venisse come oggigiorno viene spesso virato, in ambito di dominio, risulta evidente che “l'esaltazione della 'metacognizione', rispetto all'acquisizione di contenuti,” diviene “il parametro attraverso il quale passa il potere all'interno dei sistemi scolastici.” Dunque, paradossalmente, “anche il valore della 'metacognizione' è stato calato in una concezione consumistica dell'educazione e dell'istruzione, una concezione per la quale non conta la tua qualità [si ritorna al qualia dell'educazione incidentale] come individuo, ma la tua adattabilità al sistema economico.”
Sulla base di questi pensieri, l'accompagnatore auto-formato, dovrebbe innervare il suo cammino di competenza, appellandosi ad una ricerca di sentire metacognitivo (che in quanto tale si pone categoricamente in opposizione al deleterio nozionismo, entrato drammaticamente anche nei corsi universitari che dovrebbero ancora avere il sapore della “passione per lo studio”), che sappia rinunciare alle logiche di mercato e di consumo ossessivo delle conoscenze, ormai marcatamente indotte dall'impianto omologante dell'Occidente.
Non è un caso, (e qui concludo), che si sia partiti da un ragionare sull'educazione incidentale, ponendosi fuori dai confini della cosiddetta “civiltà progredita del sol calante”, per dare un fuggente sguardo alle semplici pratiche di crescita spontanea, nelle polverose contrade dell'Asia rurale che ancora “resiste” alla strumentalizzazione dell'acculturamento “usa e getta”. La “scuola” di un tempo “altro”, che si esprime nelle piccole realtà educative libertarie, nasce contemplando ritmi diversi, recupera “una condizione di 'costante ripensamento' e di ‘saggezza' nella conoscenza, rivedendo e metabolizzando costantemente i contenuti, proposti incidentalmente e non, sulla base delle sensibilità e delle percezioni d'interesse delle collettività di studio composte da giovani ed accompagnatori. L'imparare ad imparare coinvolge dunque le “responsabilità di vita” e di scelte di coloro che in toto sono attori del proprio, autonomo progetto educativo: bambini/e, ragazzi/e, giovani e adulti.
Per quanto ci riguarda dunque, individualmente e collettivamente, l'incidentalità è in sintesi il “progetto”.

Giulio Spiazzi
giuliospiazzi@gmail.com
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