rivista anarchica
anno 44 n. 391
estate 2014




Monfalcone,
l'anarchia e l'esperanto

Ci sono molte tracce tematiche che possiamo riconoscere nella storia degli anarchici a Monfalcone (Gorizia). Com'è logico, il “caso Monfalcone” rappresenta un esempio concreto di questioni attinenti la storia del movimento operaio e dei movimenti popolari del Novecento. Antimilitarismo, solidarietà di classe, sindacalismo di azione diretta, antifascismo militante, spontaneismo e organizzazione, anticlericalismo e internazionalismo sono temi ricorrenti.
Il movimento anarchico monfalconese opera in modo preminente all'interno del Cantiere Navale Triestino, fondato nel 1908 da capitalisti asburgici, dove incrocia i lavoratori di diverse provenienze, in modo particolare istriani del Litorale, sloveni del Carso, coloni della campagna italiana, friulana e anche veneta nella variante bisiaca, la parlata del territorio monfalconese. Il fatto che le componenti alloglotte preminenti, quindi friulani e sloveni, evitino l'inurbamento conservando una dimensione di pendolarismo con la campagna fa sì che il movimento anarchico monfalconese si esprima inevitabilmente in lingua italiana.
Una vena internazionalista però percorre l'intera storia dell'anarchismo monfalconese e si esprime nella lingua internazionale esperanto.
L'esperanto (Speranza) è la lingua internazionale neutrale proposta nel 1887 dal medico e poliglotta ebreo Ludovico Lazaro Zamenhof, vissuto nella parte occidentale dell'Impero zarista (oggi Polonia). Dal decennio successivo al 1895 l'Esperanto si diffonde in Europa occidentale, in maniera particolare in Francia. Anche l'Austria-Ungheria – a cui all'epoca appartiene Monfalcone – ne conosce una precoce diffusione soprattutto grazie al viennese Alfred Hermann Fried. La sua attività prolifica viene riconosciuta a livello mondiale tanto che nel 1911 gli viene consegnato il Premio Nobel per la pace.
La lingua elaborata da Zamenhof trova precoce diffusione anche negli ambienti anarchici del Litorale Austriaco tanto che 'Esperanto' è lo pseudonimo usato da un corrispondente da Pola della prima serie di “Germinal” - il giornale anarchico di Trieste tuttora esistente - del 1907. Anche a Monfalcone è attivo un Circolo Esperantista perlomeno dal 1912, come emerge dai comunicati che appaiono sul giornale “Il Socialista Friulano”. L'anarchico Cobau (talvolta citato come Cobal o Kobal) è uno dei principali animatori del Circolo essendone segretario.
Dopo la parentesi bellica, in cui anarchici e pacifisti vengono internati o diventano profughi, a fine giugno 1920 si costituisce a Monfalcone, con buon numero di aderenti, il Circolo Libertario di Coltura che prende il nome di Caffè Esperanto e che probabilmente ha collocazione all'interno delle istituzioni operaie socialiste visto che presso l'Archivio del Comune di Monfalcone non sono presenti atti a riguardo (né commerciali, né edilizi). Di questa parentesi di storia degli esperantisti libertari monfalconesi non ci sono altre tracce. La loro memoria è stata cancellata o occultata da anni di violento fascismo e da una guerra atroce.
Finita la guerra un'altra generazione di anarchici si affaccia a Monfalcone ma la costante dell'interesse per l'esperanto rimane. Anarchico e principale attivista esperantista è Vittorio Malaroda che insegna la lingua internazionale agli operai del cantiere e traduce e scrive poesie in esperanto. Malaroda è uno dei due rappresentanti italiani della Sennacieca Asocio Tutmonda (Associazione Anazionale Mondiale – SAT – un'associazione esperantista indipendente mondiale) ed è, a fine anni '70, tra gli organizzatori della Conferenza degli esperantisti di Alpe Adria (comprendente Carinzia, Stiria, Slovenia e il territorio del Friuli Venezia Giulia).
Malaroda non subisce la perquisizione della sua abitazione dopo la strage di piazza Fontana come invece accade a Mario Candotto, altra figura di anarchico ed esperantista che in seguito si avvicinerà al PCI. Durante la perquisizione a casa di Candotto quando i carabinieri trovano una scatola contenente la corrispondenza internazionale in esperanto vanno in fibrillazione. La repressione riesce nell'intento di scardinare la presenza libertaria e le strade di anarchici ed esperantisti si separano con la morte di Malaroda avvenuta nel 2003.
Una storia quasi sconosciuta, quella degli anarchici esperantisti monfalconesi, che ci rivela un ambiente formato da persone coerenti con il proprio internazionalismo e spirito libertario.

Luca Meneghesso



Elisée Reclus, l'Etna
e le sofferenze sociali

Per due secoli interi, il Settecento e l'Ottocento, l'Etna, il maestoso vulcano che sovrasta Catania, ha attratto costantemente viaggiatori curiosi e insigni studiosi di scienze della terra, nonché geografi da tutto il mondo. Tra questi ultimi uno dei più appassionati nell'affrontare il vulcano, puntualissimo nella relazione descrittiva della sua esperienza, fu Elisée Reclus. Reclus, lo studioso, già noto nella sua patria, la Francia, per i suoi trattati scientifici e per le idee politiche (con Bakunin e Kropotkin era stato tra i fondatori del movimento anarchico internazionale), a causa delle quali era stato in esilio per ben dodici anni, nel 1865 partiva per la Sicilia, per osservare da vicino caratteristiche e attività del vulcano più famoso d'Europa. Del suo viaggio nell'Isola darà conto lo stesso anno con uno scritto dal titolo “La Sicile et l'éruption de l'Etna en 1865. Récit de voyage” pubblicato dalla rivista “Le Tour du Monde”, volume VIII (1865), e dalla “Reveu deux Mondes”, July 1, 1865. Approdato a Palermo, allo studioso francese tocca constatare come il malgoverno borbonico abbia lasciato ferite ancora aperte e profonde: grande è infatti l'incuria dei beni pubblici e la miseria in cui versa il popolo. Stessa situazione lo studioso trova a Messina: ambedue le città gli sembrano bisognose di vigorosi interventi per uscire dalla precarietà che caratterizzava quel momento storico post unitario. Catania, invece, gli appare più operosa ed economicamente florida. Ma il suo interesse preminente non è né sociologico, né economico, ma scientifico e guarda con occhio indagatore all'Etna e alla natura circostante. Per giorni, Reclus visita antri, lave sedimentate, balzi e valli dell'Etna, dai piedi alle cime del monte, accompagnato da una guida d'eccezione, Giuseppe Gemmellaro, il fratello dello scienziato catanese Carlo Gemmellaro, considerato uno dei migliori conoscitori sia dei percorsi che delle caratteristiche del vulcano. Lo scienziato francese annota scrupolosamente le sue osservazioni e le sue deduzioni, disegna gli elementi di più grosso interesse scientifico visti, descrive con oculatezza percorsi, flora, fauna, natura, cause ed effetti dell'eruzione, con impeto documentario e analitico ma al contempo poetico: tanto che il suo scritto eserciterà una forte suggestione sul grande scrittore Julius Verne, amico ed estimatore di Reclus («J' ai toute l' oeuvre d' Elisée Reclus, je professe une grande admiration pour Elisée Reclus») e gli suggeriranno parecchie pagine del suo romanzo “Mathias Sandorf”. Reclus continua il suo giro dell'isola, interessandosi anche ai fenomeni vulcanici delle isole Eolie: osserva con acume e descrive l'attività dello Stromboli. Ma, seppure venuto per indagare la terra siciliana principalmente ai fini della crescita delle conoscenze naturalistiche e geografiche, l'indole antiautoritaria e libertaria dello scienziato viene fuori e in un paio di passi del suo resoconto descrive le lacrime e il sangue che hanno provocato i detentori del nuovo potere italico.

Schiavi della macchina

A Centorbi (l'attuale Centuripe) in visita alla miniera di zolfo, Reclus vi si inoltra dentro, per le gallerie dall'atmosfera soffocante e dall'aria irrespirabile. All'interno «le volte sono basse e tagliate in modo irregolare; pesanti pilastri digrossati dal piccone sostengono il soffitto: vaghi luccicori che compaiono e scompaiono al riflesso vacillante delle lampade sorgono qua e là dalla profondità delle ombre; un momento s'intravvedono dei corridoi che sembrano infiniti, poi queste lunghe prospettive svaniscono in un batter d'occhio e lo sguardo cerca invano di scandagliare le tenebre: si sentono rumori strani, singulti, sospiri provenienti dal ripercuotersi degli echi lontani». Sono gallerie piene di acqua sulfurea e che vanno drenate, per evitare che allaghino tutto, con pompe di prosciugamento, azionate da «poveri operai, coperti soltanto da un grembiule come gli isolani dell'Oceania, e tuttavia bagnati di sudore che girano incessantemente le manovelle delle pompe.
Durante otto lunghe ore, questi uomini, appo i quali ogni intelligenza, ogni sforzo vitale si porta necessariamente verso le braccia, non sono altra cosa che le appendici muscolari dell'implacabile macchina. Questa gira, gira senza posa, e senza mai fermarsi solleva le acque che risuonano nei tubi di metallo: essa solo sembra vivere, e gli atleti che si succedono di otto in otto ore non sono che semplici meccanismi: lungi dal dominare la macchina che mettono in moto, son essi i suoi schiavi'. Ad Augusta vede i coscritti partire per il continente 'poveri contadini mal vestiti, che per la maggior parte sembravano tristi, abbattuti e spauriti come bestie selvatiche, prese di recente al laccio. Sulla spiaggia, donne, fanciulli e vecchi facevano segni di saluto, torcevasi le braccia, mandavano grida di disperazione, inviavano raccomandazioni supreme a questi fratelli, a questi figli che loro strappava la terribile coscrizione».
Erano solo «giovani soldati condannati ad un servizio che per essi era la deportazione» scrive Reclus, che subito dopo vede un drappello di galeotti «intrattenersi amichevolmente coi gendarmi che li accompagnavano. Dalle catene in fuori si sarebbe detto fossero camerata, ai quali il destino aveva assegnato parti diverse, ma non meno onorevoli l'una dall'altra. La più perfetta uguaglianza regnava fra i guardiani e i prigionieri: ridevano insieme, si raccontavano storielle, si davano reciprocamente nomi familiari, si ricambiavano i sigari e le pipe. I gendarmi non se la prendevano con questi poveri diavoli per alcune disgrazie e peccatucci, e dal loro lato i briganti accettavano la loro sorte con una rassegnazione filosofica, e sembravano dire fra loro ch'essi non erano da meno dei loro interlocutori». Con la visita a Siracusa, al «paesaggio greco che la circonda» e alle azzurrine acque del fiume Ciane, si conclude l'itinerario siciliano di Reclus. Tornato in patria si dedicherà all'elaborazione teorica dell'anarchismo, che cominciava a mettere radici in tutta Europa, e all'azione politica diretta (partecipando tra l'altro alla Comune parigina nel 1871). Questo tuttavia senza trascurare gli studi geografici, in un lungo e fruttuoso girovagare per il mondo. Nel 1878 lo scienziato anarchico venuto dalla Francia farà ritorno in Sicilia. Sta ultimando la sua imponente “Nuova Enciclopedia Universale”, commissionatagli dall'editore Hachette - che vedrà la luce in dieci volumi - e parlerà ovviamente ancora della Sicilia. Di Palermo dirà della presenza della “maffia” - e sarà il primo geografo a scriverne - di come crea e gestisce il suo «territorio illegale» nella città, delle ragioni sociali della violenza criminale. In generale, affermerà la necessità che la geografia si occupi di territorio ma anche di economia e società, ponendo così le basi dell'eco-geografia moderna.
Un precursore che fece della Sicilia il suo laboratorio personale per gettare lo sguardo oltre la natura, soffermandosi sulle sofferenze sociali che affliggevano il sud d'Europa.

Silvestro Livolsi



Appunti di viaggio/
Nepal, non solo Kathmandu

Kathmandu non è il Nepal, come Roma non è l'Italia e Parigi non è la Francia.
Il Nepal per me sono le montagne, Kathmandu è... Kathmandu.
A me Kathmandu ricorda la ruota della vecchia Mercedes Benz mentre Bentivoglio ed Abatantuono stanno viaggiando in “Turné'” (G. Salvatores, 1990), ma soprattutto Kathmandu a me ricorda Sarajevo.
A Sarajevo sono coesistite tre etnie, pacificamente, per secoli: i bosniaci (musulmani), i serbi (ortodossi), e i croati (cattolici). Sarajevo ha rappresentato un esempio di coesistenza, purtroppo distrutto dall'artiglieria serba agli inizi degli anni novanta.
In Nepal sono censiti ufficialmente più di 100 gruppi etnici. I famosi sherpa sono tra i meno popolosi. I newar, i tamang, i tibetani e gli stessi sherpa differiscono considerevolmente per lo stile di vita, l'abbigliamento ed i riti religiosi. A Kathmandu i gruppi etnici vivono vicini, molto vicini.
Nel Nepal, a seconda della provienenza, si parla il Maithili, Bhojpuri, Tharu, Avadhi, Rajbanshi, Hindi, Urdu, Tamang, Nepal Bhasa (Newari), Magar, Rai/Kiranti, Gurung, Limbu, Bhote/Sherpa, Sunuwar, Danuwar, Thakali, Satar, Santhal ed altre lingue minori. Un tamang ed un newari non si capiscono se parlano le proprie lingue. A Kathmandu tutti devono parlare nepalese.
Nima, il tizio nepalese che ci ha aiutato ad organizzare il trekking all'Everest BaseCamp ci ha detto che un tempo, quando lui era giovane (30 anni fa), eri conosciuto in base alla famiglia alla quale appartenevi, adesso è meno importante. Tutto si fonde, tutto si mischia, e paradossalmente tutto s'acutizza.
In Nepal si va dagli 80 mt vicino alle rive del Gange agli 8848 mt del monte Everest in soli 147,181 km2. Quindi, sebbene di dimensioni piccole, questo paese offre casa a diverse etnie, religioni, tradizioni, culture. A Kathmandu è tutto concentrato a 1.300 mt.

Kathmandu (Nepal)

Quanto vale uno sherpa

Lo stipendio mensile di un nepalese è di circa 400 dollari al mese. Circa 5000 dollari all'anno è lo stipendio di uno sherpa. Gli sherpa lavorano per le spedizioni alpinistiche per 5 mesi all'anno, due in primavera e tre in autunno. Il lavoro degli sherpa sull'Everest consiste nell'attrezzare la via di salita e preparare, oltre al campo base, i campi 1, 2, 3 e 4, in modo che gli “scalatori” trovino tutto pronto al loro arrivo. A seguito dei fatti del 18 aprile 2014, in cui 16 sherpa sono morti sulla cascata di ghiaccio del Khumbu, travolti da una valanga mentre assicuravano le corde tra il campo base e il campo1, gli sherpa sono scesi a Kathmandu per rivendicare nuovi, e più robusti diritti. Come per esempio quello d'incrementare l'indennità in caso di morte: era di 7.000 dollari adesso è diventata di 10.000 dollari, in pratica poco più di due anni d'aiuti economici alla famiglia in caso di morte della fonte di reddito.
Ciò che però fa “sorridere”, a denti stretti, i non sherpa è che tra le rivendicazioni c'è stata anche quella di 3 seggi del parlamento d'assegnare a rappresentanti sherpa. Inquietanti segnali di una convivenza che potrebbe risultare difficile.
Dal 2006 il Nepal ha sancito la fine dell'unico Stato fondato sulla religione induista. Oggi il Nepal è uno stato laico. Potere politico e religioso sono distinti. Ciò nonostante la componente spirituale è importante, fondamentale, se si vuol tentare di capire questo paese.
A Kathmandu le religioni sono un casino. Ci sono i buddisti e gli induisti che s'intrecciano e in alcuni casi si mischiano come a Swayambhunath (il tempio delle scimmie), dove il tempio buddista è di fianco a quello induista, e i riti si mischiano come le raffigurazioni. Anche se la maggioranza della popolazione professa l'Induismo (80%), il Buddismo è l'altra religione importante (10%), in particolare è la religione della corrente tibetana Vajrayana. Il Nepal del nord ha subito molto l'influsso e l'immigrazione dal Tibet, in particolare a seguito della repressione cinese. A Kathmandu quando cambi via, o piazza, passi da un tempio Buddista dove si rullano i cilindri dei mantra, ad uno induista dove si fanno le puja. Comunque entrambi purificano l'anima.
Nima è sherpa, quindi buddista, e ci dice che in un piccolo paese nei pressi di Kathmandu recentemente la comunità buddista ha chiesto d'erigere un tempio, gli induisti si sono opposti. Un po' come a Cantù, nella ricca Brianza, dove i musulmani trovano la resistenza dei cattolici che scoprono la loro dimensione religiosa quando diventa una questione politica, di presunti diritti. Paese che vai, difficoltà a superare le diversità che trovi.
Nima ci spiega che non c'è niente di magico nella convivenza tra buddismo e induismo, è semplicemente una questione geografica. Il buddismo sta in montagna, l'induismo sulle rive dei fiumi, quindi a valle. Fin che si rispetta la geografia non c'è problema. Beni, una collega di Nima, ci tiene a sottolineare che è la politica a creare i problemi, la gente, anzi, le genti possono coesistere pacificamente.
La comunità musulmana è in crescita, la si stima intorno al 5% della popolazione. Beni ci rassicura che i buddisti e gli induisti sono pronti ad includere le feste di rito islamico nel calendario nepalese, ma poi sottovoce precisa che i musulmani, come i cristiani, non sono geograficamente definiti. Li si trova in montagna come sulle rive dei fiumi.
Tra le cose da visitare a Kathmandu c'è il tempio di Pashupatinat, dove quotidianamente, a tutte le ore, si assiste al rito funebre induista della cremazione sulle rive del Bagmati, fiume sacro per gli indù nepalesi. Fa impressione, per i colori, per i sadhu, per la cerimonia. L'induismo è così lontano dalle usanze occidentali, così incomprensibile. Quello che sconvolge è la miscela. La miscela tra animali/uomini, igiene/ascetismo, folclore/purezza, musica/silenzio, pubblico/privato. Nel tempio indù ci sono mucche che girano libere. Le mucche sono magre, sporche, e si nutrono della spazzatura. La difficoltà a comprendere questo mondo per un occidentale può essere descritta con il paradosso svizzero: sebbene la mucca da queste parti, in Nepal, sia un animale sacro, se io fossi una mucca non avrei dubbi, certo di finire prima o poi sul tavolo di qualche macellaio, preferirei passare i giorni della mia vita in qualche alpeggio in Svizzera.
Salendo all'Everest BaseCamp, ho assistito, nel monastero buddista di Tengboche, a 3800 mt, alla cerimonia del pomeriggio: 2 ore nelle quali i monaci hanno cantato, suonato e proclamato litanie, tutto questo rigorosamente seduti nella posizione del loto.
Buddismo ed induismo hanno la stessa origine, ma fanno riferimento a mondi diversi, e si proiettano sulla società in modo completamente diverso, un esempio per tutti: nel buddismo non ci sono le caste. A Kathmandu buddismo ed induismo si mischiano, pur mantenendo le differenze.

Kathmandu (Nepal)

Consigli per viaggiatori intraprendenti

Kathmandu ti entra nelle orecchie, con i clacson, nei polmoni, con lo smog, negli occhi, con i colori dei vestiti e delle spezie. Ci sono tre cose che suggerirei di fare a Kathmandu, intendo fuori dai doveri del turista:
1. Bere i lassi in piazza Pote Bazaar.
2. Fare una corsa con un bus di linea.
3. Perdersi nel quartiere a sud di Durbar Square.

1. Quando mi sono messo in fila per bere il lassi con i locali a Pote Baazar, il tizio che lo vendeva, sorridendo, con un vistoso incisivo d'oro, quindi un tipo ¨brillante¨, mi ha chiesto: “How far is your hotel?”. Finito di bere questo nettare, ha aggiunto “Run! Run!”. Sono tornato a bere il nettare dal tizio brillante ogni volta che potevo.
2. Bhaktapur è una città ad un'ora di bus da Kathmandu. Meravigliosa, da starci una notte. Ogni bus di linea è gestito da un autista pazzo, e da un ragazzino che sta sulla porta d'ingresso a riscuotere soldi, gridare contro gli altri automobilisti, far salire le persone alle fermate. Nel viaggio di ritorno il ragazzino non aveva più di 10 anni, con gli occhi svegli e furbi di chi si deve arrangiare sin da piccolo.
3. Perdersi nei quartieri malfamati è un dovere di ogni viaggio che si rispetti. Se vuoi capire un posto devi andare dove la gente vive veramente. Così è stato in ogni città che ho visitato. A Kathmandu ho camminato per un paio d'ore senza parlare, registrando nella memoria immagini di una vita impossibile, tra miseria e sporcizia. Mentre camminavamo i bambini sorridendo ci prendevano le mani per accompagnarci per un tratto di strada, in cambio volevano una caramella o semplicemente un saluto. Uno di loro ha chiesto di comprargli un vocabolario nepalese/inglese, glielo abbiamo comprato. Io, certo che lo avrebbe rivenduto dopo qualche minuto, Chiara, convinta che lo avrebbe usato per imparare l'inglese. Poco importa, in entrambi i casi è stato utile ad una causa importante.
Sono seduto su una poltrona sfondata in un caffè a vicino a Durbar Square a Kathmandu, ho ordinato un tè al ginger, mentre riordino gli appunti di un viaggio che ci ha permesso di camminare per 14 giorni nella valle del Khumbu, fino ad arrivare all'Everest BaseCamp (#glueverest). Sto provando a contare quante tazze di tè ho bevuto in questo viaggio, impossibile. Il tè al ginger sta al Nepal come quello alla menta sta al Marocco.
Guardo dal vetro del caffè e vedo il casino di questa città. Viviamo un'epoca dove tutto si mischia, si confonde, si miscela. Kathmandu rappresenta una delle tante miscele di questo mondo, patrimonio dell'umanità che dovremmo imparare a preservare, prima che, come Sarajevo, la diversità diventi disuguaglianza.

Gianluca Luraschi



Storia della menzogna politica:
il Tav e le streghe

Si può scindere il Governo delle genti dalla gestione politica dalla repressione? La risposta è presto detta: no. Uno degli strumenti privilegiati dal Potere di ogni tempo per annullare il dissenso è l'uso brutale del braccio secolare. Questa è una verità lampante, testimoniata dalla Storia stessa, ma sorprendentemente spesso dimenticata dai più.
Eppure la violenza non può essere perpetrata senza proporne una giustificazione; il Potere costruisce delle cornici narrative all'interno delle quali la sua verità appare legittima e perciò l'uso della forza diventa doveroso. Le altre versioni dei fatti sono invece marginalizzate, dichiarate eretiche, sovversive, pericolose. La storia è piena di organizzazioni massive del consenso effettuate per giustificare i metodi brutali, le violenze arbitrarie, le torture e le segregazioni perpetrate dagli inquisitori di turno, sempre impuniti dietro la cataratta di omertà che copre gli occhi di chi guarda e passa. Tutti i soprusi del Potere si realizzano all'interno di una costruzione autoreferenziale della verità, in cui la sua versione dei fatti viene strategicamente messa in scena senza nemmeno un grande impegno nel renderla verosimile. Del resto esistono dei portavoce delle parole del Potere, deputati all'invenzione di artifici che ne aumentino la credibilità e pongano il sigillo dell'autorità.
In tutti i casi è però vero che la repressione effettuata si indirizza verso un nemico considerato pericoloso per via dei valori che esso incarna, estranei a quelli che invece guidano i capi. Ogni epoca ha perciò la sua pletora di dissidenti accusati, violentati, sfruttati e ridicolizzati. E il Potere si dedica a marginalizzarli e colpirli con un'applicazione che ha del sorprendente. La storia ripete attentamente i suoi copioni e a volte la constatazione della sua ridondanza provoca un brivido; è in momenti simili che l'osservazione degli incessanti ricorsi del tempo porta a dubitare dell'esistenza di un suo fine positivo, visto che a ripetersi sono spesso e volentieri le sue parti più disgustose.
Uno dei più noti esempi delle persecuzioni di nemici creati ad arte è rappresentato da quello, proverbiale, effettuato contro la cosiddetta “stregoneria”. Agli albori dell'epoca moderna, in quel XVI secolo scosso da guerre di religione e dai primi vagiti dell'economia di mercato che iniziava allora a muovere i suoi primi passi all'interno dei nascenti Stati nazionali, si assistette in Europa ad un'ondata di processi nei confronti di una categoria ben precisa di persone, cosiddette “streghe” e “stregoni”. Appartenenti a gruppi rurali dispersi nelle campagne, pare poco probabile che costituissero un culto con pratiche comuni. È molto più verosimile che con tale etichetta gli inquisitori identificassero un vasto coacervo di donne e uomini dediti ad un cristianesimo sincretico contenente ancora forti elementi di paganesimo, di cui l'adorazione di un dio cornuto è l'aspetto più famoso, contenutisticamente folkloristico ma anche storicamente controverso. Streghe e stregoni finirono in questi anni al centro di quella che oggi chiameremmo una “campagna diffamatoria” assieme a molte altre categorie di individui che occupavano i margini della società – vagabondi, malati, folli, prostitute – tutti di lì a poco confinati tramite leggi repressive fintamente caritatevoli negli hôpitaux di cui Michel Foucault ci narrò la storia in un suo fondamentale libro.

“Legittime” persecuzioni

Come si sa il Potere innalzò una macchina persecutrice tremenda nei confronti di costoro, costituita da inquisizioni, torture, processi nettamente sproporzionati rispetto alla gravità dei pretesi “reati”. Uno stuolo di giuristi si era adoperato per legittimare la campagna diffamatoria costruita appositamente, composta da riletture in negativo di vecchie leggende e trasformazioni concettuali tese ad individuare una malvagità inesistente nelle pratiche magiche. Riti che tempo prima non erano oggetto di nessuna forma di stigmatizzazione, semmai di divertenti scene da commedia, assunsero una luce fosca e inquietante, inventata di sana pianta al fine di giustificare una persecuzione.
«Si hanno prove che, nell'imminenza del Rinascimento, non è vero che la magia e la stregoneria fossero realtà accette [...]. Solo un secolo dopo e per mezzo della violenta propaganda dei monaci mendicanti la fantasia delle streghe diventò credenza di tutto un popolo», propaganda effettuata attraverso libri come la Demonomania di Jean Bodin e i più antichi Malleus maleficarum dei domenicani Jacob Sprenger e Heinrich Kramer e Formicarius di Johannes Nider. È interessante valutare a questo punto le motivazioni che “il procuratore di Belzebù” Bodin addusse per giustificare i processi perpetrati sulle streghe, che ovviamente, in quanto procedimenti decisamente inusuali per il diritto, dovevano essere condotti secondo modalità straordinarie, fuori dalle righe. «Le leggi pagane et divine riconoscono molte cose come certe, et impossibili per natura, et nondimeno possibili contra tutti i corsi ed ordini della natura»; del resto, se così non fosse, se non potessero cioè accadere dei fatti soprannaturali estranei all'arbitrio delle leggi fisiche, come i malefici e le stregonerie, nemmeno potrebbero esistere i miracoli e dunque Dio non sarebbe onnipotente. L'ordinario corso della natura può, secondo Bodin, venire sospeso da chi possiede le forze adatte. Dio o il Diavolo o chi da essi è ispirato – un santo o una fattucchiera – possono operare oltre le leggi di natura, e non ammettere questa possibilità significa inficiare l'onnipotenza divina. Dunque l'inquisitore, davanti a simili fatti, sarà costretto a sospendere l'ordine razionale del suo agire – e di quello dei suoi processi. «“Dove c'è pericolo et necessità et cosa essorbitante, che non bisogna fermarsi altrimenti alle regole di ragione, ma per contrario è procedere giustamente secondo la ragione lasciando l'ordine di ragione”. V'è cioè, a suo [di Bodin] parere, una ragione/legge divina che obbliga la ragione umana anche a sragionare, quando ne sia il caso, ed eliminare i suoi nemici che, del resto, costituiscono una minaccia anche dell'umana convivenza civile».

Illiceità della sospensione della ragione

Esistevano quindi, ed esistono con ogni apparenza tutt'oggi, alcune circostanze particolari in cui per l'onesto magistrato, in ottemperanza alle necessità particolarmente pressanti indotte dalle circostanze – la salvaguardia della civiltà cristiana da pericolose sette demoniache, oppure ai nostri giorni l'indispensabile costruzione di un treno ad alta velocità tra Torino e Lione – è lecito sospendere l'uso della ragione e condurre un processo che non rispetti alcuna garanzia degli accusati, tramutati senza colpo ferire in mostri. Ma «un processo ai mostri a sua volta è consapevolmente mostruoso (e condotto da mostri).». È in realtà un processo speciale, addirittura un “non-processo”, data l'illiceità delle premesse da cui esso parte. E tali sono le motivazioni che trasformano mostruosamente – nel senso latino della parola monstrum: colui che deve essere mostrato, esposto, con il fine di essere additato dal pubblico – il danneggiamento di un compressore in un atto terroristico le cui ripercussioni cadono sull'Italia intera. Si tratta di vera e propria alchimia: un reato di bassa lega viene tramutato in quello supremo, il più vicino all'essenza stessa del Male. La stessa parola “terrorismo” evoca immediatamente scenari catastrofici, immagini strazianti, attori diabolici e perciò gli accusati di un reato simile possono lecitamente essere tenuti dietro le sbarre in condizioni di detenzione inumane. Peccato che “terrorismo” – a ragione, ma come abbiamo detto in questo caso il suo uso è sospeso ad maiorem Status gloriam – dovrebbe essere considerata l'offesa sopra civili inerti, non quella contro un inanimato compressore in un cantiere. Per convalidare queste ipotesi persecutorie alle Demonomanie e ai Mallei Maleficarum si sostituiscono oggi le parole di giornalisti asserviti al governo, sempre pronti a convalidare la sua indiscutibile versione dei fatti.
Cambiano i tempi, ma persistono gli orrori dell'inquisizione. Si ripete incessante il sacrificio al Moloch del Potere, che in ogni momento e luogo ingoia uomini e donne con l'unico fine di mascherare le proprie motivazioni: ricchezza e brama, perversa e sadica volontà di disporre della vita altrui come materia inerte.

Valerio Morosi

Le citazioni e molti spunti sono prese dal vecchio ma ancora affascinante libro di Luciano Parinetto Streghe e Politica, IPL, 1983; il libro di Foucault citato è ovviamente Storia della follia nell'età classica, Rizzoli 1976. Per approfondire l'argomento stregoneria consiglierei anche il classico di Carlo Ginzburg Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Einaudi 1989, mentre di tutta la vastissima letteratura sulle menzogne a cui il potere ci ha abituati nella sua narrazione quotidiana fatta di mass media invasivi e spudorate alterazioni della verità un agile quanto approfondito compendio è La fabbrica del falso di Vladimiro Giacché, Derive Approdi 2011.



Quelle scatolette di “merda d'artista”
che hanno cambiato l'arte

Arriva sì con un anno di ritardo dalla ricorrenza dei cinquant'anni dalla morte di Piero Manzoni (Soncino 1963- Milano 1963), ma l'antologica di Palazzo Reale (“Piero Manzoni 1933-1963”, ha chiuso il 2 giugno, catalogo-Skira) voluta dal comune di Milano ricompensa ogni disappunto o mancanza verso questo artista che, nell'arco di una stagione brevissima, ha cambiato l'arte e il modo di fare arte non solo nel nostro Paese.
Nelle centotredici opere scelte dai curatori Flaminio Gualdoni e Rosalia Pasqualino di Marineo (nipote dell'artista) c'è tutta la parabola artistica ed esistenziale di un innovatore controverso che, dopo Burri e Fontana, ha indicato alle avanguardie una diversa strada da percorrere. C'è stata un'arte prima di Manzoni, ma una volta che è passato lui sulla “scena” nulla è stato considerato come precedentemente.
Manzoni ha sorpreso e scandalizzato per la sua eccentricità e stravaganza, ma la sua finalità non era quella di dare scandalo, piuttosto dare del suo lavoro l'idea di una ricerca sempre più filosofica e concettuale. Infatti, come si può vedere dalla prima sala dell'esposizione milanese, da giovanissimo segue un tracciato di principi psicoanalitici e di automatismi espressivi e gestuali riconosciuti nel Movimento Nucleare, ma presto si allontana dal nuclearismo di Bay e Dangelo per passare a lavorare sulle famose superficie bianche degli “Achrome” (e siamo intorno al 1957), radicalizzando il teorema del concettualismo e ponendosi domande del tipo “Perché non liberare questa superficie? Perché non cercare di scoprire il significato illimitato di uno spazio totale, di una luce pura ed assoluta”?
Per il Nostro l'opera d'arte in primis è un'idea, un pensiero, per cui non conta quello che si vede in essa ma quello che non si vede. Secondo il suo punto di vista un manufatto artistico non ha niente da comunicare, dipende tutto da chi lo realizza o ne è fruitore nel provare a creare con esso un rapporto. Dopo gli “Achrome”, Manzoni supera la bidimensionalità del quadro con quelle “Linee” di carta inchiostrate e nascoste in cilindri le quali, assumendo una profondità tutta spaziale, concretizzano l'idea di “un flusso vitale e infinito” ed agevolano un fare arte in totale libertà. Non si può pensare di allestire un'antologica su Piero Manzoni e non considerare la centralità che hanno poi avuto nella veloce parabola dell'artista “Il fiato d'artista” catturato in palloncini di plastica, le “Uova sode” pronte per essere mangiate ed impresse da impronti digitali o le “Sculture viventi” (corpi nudi di donne) che vengono firmate dall'artista ed accompagnate da un certificato di autenticità.
Ma l'icona che ha marchiato il Manzoni avanguardista e rivoluzionario è sicuramente la leggendaria serie di scatole di “Merda d'artista”. Nel maggio del 1961 Manzoni sigilla in novanta “boites” per conserva di alimenti 30 grammi dei suoi escrementi. Sebbene l'intento dell'artista sia economico, e, quindi, di vendere le proprio feci a parità del prezzo dell'oro al grammo, “Merda d'artista” provoca reazioni ironiche e perplesse, lo scrittore Dino Buzzati sentenzia: “questi barattoli le cui intenzioni ironiche rivoluzionarie non bastano a riscattare la volgarità e il cattivo gusto di stampo goliardico”. Finché Manzoni è in vita lo scandalo pubblico della “Merda d'artista” viene tenuto in naftalina, ma scoppierà nel 1971, quando Germano Celant alla Galleria D'Arte Moderna di Roma curerà la prima retrospettiva dedicata a Manzoni. Le piccole scatole di latta con gli escrementi scateneranno reazioni forti e scomposte, tant'è che persino un deputato presenterà un'interrogazione parlamentare per chiedere le dimissioni della direttrice dello spazio romano, rea di aver sperperato denaro pubblico per promuovere una mostra che degrada i valori dell'arte. Così Manzoni diventerà il genio (e il mito) irriverente e sfrontato alla maniera di Duchamp con il suo orinatoio, ma come spiega lo stesso Flaminio Gualdoni nel libretto appena uscito per Skira “Breve storia della Merda d'artista” “l'opera di Manzoni continua a interessarci, intrigarci, irritarci, perché si regge su un'ambiguità insanabile, tra mistico e corporeo, tra alto e basso, tra rivalità e morte. Tra oro e merda”.

Mimmo Mastrangelo



Considerazioni dopo il corteo NoTav
a Torino il 10 maggio

Il 10 maggio scorso Torino è stata attraversata da una riuscitissima manifestazione NO TAV* contro la detenzione di quattro giovani compagni accusati con un accanimento fuor di misura di essere dei terroristi a causa del loro impegno nel movimento NO TAV e in generale contro la repressione. Una di quelle situazioni che rendono visibile il fatto che esiste un'area politica, sociale, culturale refrattaria all'omologazione, un'area che raccoglie, accanto a penne grigie o bianche come colui che stende queste note, molti giovani vivaci e combattivi. Insomma, anche dal punto di vista esistenziale, una situazione gradevole, una riprova del fatto che, come si diceva una volta, l'amor mio non muore.
Il caso ha voluto che facessi un pezzo di corteo col compagno, e mio compaesano di sindacato, Stefano Capello, uomo nel contempo analitico e melanconico, che è riuscito pure in un contesto così favorevole all'entusiasmo o almeno all'ottimismo a cogliere un motivo, appunto, di melanconia e mi ha fatto rilevare come si viva in tempi che permettono mobilitazioni generali, come appunto quella alla quale partecipavamo, ma non vede un livello adeguato di mobilitazione della working class nelle aziende e sul territorio, con l'effetto che mentre noi ogni tanto adorniamo le piazze con cortei vivaci, colorati, comunicativi nella società passa la precarizzazione radicale del lavoro, la liquidazione delle residue libertà sindacali e consimili nefandezze praticamente senza colpo ferire.
Assumendo come corretta la valutazione di Stefano, ed io convengo con lui per l'essenziale, ne conseguirebbe che una serie di mobilitazioni, da quella NO TAV a quella per la casa e il reddito, che si sono sviluppate in questi ultimi mesi, pur essendo assolutamente da condividersi e da sostenersi, lascerebbero senza risposta l'esigenza, ammesso vi sia, di azione e di organizzazione dei lavoratori.
Sul piano metodologico si potrebbe obiettare che una cosa sono i movimenti sociali generali a difesa del territorio, per il reddito e la casa ecc. ed altro è l'organizzazione dei lavoratori, ma è anche vero che il movimento dei lavoratori sul quale scommettiamo non è altro rispetto ai processi di autorganizzazione sociale e non si limita alla pur necessaria difesa del salario, ma propone una radicale trasformazione sociale.

Le conseguenze di un passato recente

In ogni caso la domanda su quali sono le condizione per una ripresa di iniziativa dei lavoratori in relazione con i movimenti sociali resta aperta. Proviamo ora a fare un passo, non troppo lungo, indietro:
- il 10 gennaio 2014 CGIL-CISL-UIL hanno stilato con Confindustria (e poi con Confservizi) un accordo che lega il godimento dei diritti sindacali – per fare un solo esempio quello di presentare candidati alle elezioni delle Rappresentanze Sindacali Unitarie - alla firma di un accordo che prevede la cosiddetta “esigibilità” degli accordi di carattere economico e normativo che verranno firmati in futuro. In concreto ciò vuol dire che un sindacato firmatario di quest'accordo non potrà, ad esempio, indire uno sciopero contro un contratto che ha visto la firma della “maggioranza” sindacale. Per non tediare i lettori, per quanto riguarda le modalità di misurazione della “maggioranza”, basta dire che è blindata. D'altro canto un sindacato che non firmerà l'accordo verrà spazzato via dalle aziende dove non potrà contare su di una presenza particolarmente forte e combattiva, con il risultato di rischiare di ridursi, per quanto riguarda le aziende, ad una serie di ridotte isolate;
- all'inizio di maggio è stato approvato il cosiddetto Job Act che praticamente rende il lavoro precario libero dai pur limitati vincoli sinora esistenti dato che sarà possibile assumere reiteratamente lavoratori precari sino ad un (presunto visto che basta licenziare ed assumere dopo dieci giorni per dilatare i termini) tetto di trentasei mesi e che cadono diversi obblighi sinora previsti come la “formazione”, peraltro storicamente inesistente, dei lavoratori precari e la giustificazione sulla base di ragioni produttive della necessità di assumere precari. Se si tiene conto che nel primo anno di funzionamento della precedente legge sul reclutamento, quella legata al nome del ministro Elsa Fornero, il 70% delle assunzioni è avvenuta per lavori precari, è facile immaginare cosa avverrà dopo la liquidazione di vincoli che, come ricordavo, il precedente governo aveva ritenuto di porre. Anche in questo caso non mi dilungo in una disamina della legge, ritengo avere sufficientemente chiaro che permette una precarizzazione radicale della working class.
Si tratta di due misure apparentemente non in relazione fra di loro, la prima è un accordo di carattere corporativo fra sindacati dei padroni e dei lavoratori che in una logica, appunto, corporativa vale per tutti piaccia o meno, nel secondo caso è una legge imposta da un governo che si fa vanto del suo essersi emancipato da una relazione troppo stretta con i sindacati e con confindustria.
In realtà, se esaminiamo le cose in maniera più attenta, ci rendiamo conto che il gruppo parlamentare del PD che controlla la commissione lavoro della Camera e del Senato è però espressione organica proprio di CGIL-CISL-UIL cosa che riconduce a maggior modestia le pretese di Renzi di essere svincolato da tutto e tutti.
Qual è, di conseguenza, l'effetto combinato di due misure che per certi versi ricordano il celebre aforisma di François de La Rochefoucauld secondo il quale “L'ipocrisia è un omaggio che il vizio rende alla virtù” giacché sembrerebbero rendere più esplicito e brutale un potere della burocrazia sindacale e del padronato già per l'essenziale esistente?
Fatto salvo che quando i gruppi dominanti abbandonano una maschera ed esercitano il loro potere con meno infingimenti, significa che ritengono di essere in condizione di farlo e che non vale la pena di pagare dazio; credo che sia evidente che in questo modo, per un verso, si punta a ripulire le aziende da ogni presenza sindacale scomoda e, per l'altro, dal garantire il dispotismo padronale su lavoratori precari che si vedranno privati finanche della possibilità di ricorrere ai tribunali del lavoro contro le “esagerazioni” padronali.
Se questo è il quadro, il sindacalismo di base rischia seriamente, visto che è ragionevole supporre che, con i dovuti aggiustamenti, l'accordo verrà assunto da altre associazioni padronali, di diventare una sorta di sindacalismo di ultima istanza esterno rispetto alle aziende e ridotto ad organizzare settori marginali della società e della working class.
Proviamo a ricapitolare, nei luoghi del lavoro, come si suol dire, l'asticella si alza. Organizzare un sindacato combattivo è tendenzialmente sempre più difficile, una working class in discreta parte precaria, in altra parte coinvolta da crisi aziendali, per una discreta componente composta da lavoratori senza diritti, stenta a riorganizzarsi. Nello stesso tempo lotte non organizzate sindacalmente non si danno in misura degna di nota con l'unica, importantissima, eccezione dei lavoratori immigrati che operano nel settore strategico della logistica sulla quale una riflessione approfondita va fatta.
Si tratta in una fase come questa di riorientare l'azione tenendo conto di un contesto che chiede un incremento importante dell'iniziativa generale delle organizzazioni radicali dei lavoratori che in qualche modo devono – mentre resta essenziale il radicamento aziendale e categoriale - puntare alla costruzione di un tessuto organizzativo che sappia tenere assieme collettivi di lavoratori e movimenti della società in una prospettiva meno angusta dell'attuale.

Cosimo Scarinzi

* Vedi: Maria Matteo “Torino, 10 maggio. Il sole oltre i blindati” in Umanità Nova



Dal Festival del cinema a Cannes,
riflessioni in disordine

Nell'attanagliante atmosfera glamour del Festival per antonomasia, si fa presto a dimenticare che un film possa farti male. Il Cinema é ancora capace di far tremare anche le più stabili fondamenta morali e intellettuali: interrompere la nostra convinzione Don Quixottiana di sapere cosa veramente succede intorno a noi.

Simav, l'eroina. Filmmaker in Eau Argentée

Mi sono fatto proprio male quest'anno. Ho iniziato col botto, nel senso straziante del termine. Ho visto infatti Eau Argentée –Siria Autoritratto. Un insieme di video strappati da youtube, pezzi di un mosaico apocalittico che rappresenta la Siria dall'inizio della rivoluzione fino ad ora... probabilmente. Probabilmente perché io, di definitivo, non voglio dire più nulla.
Spinto dalla poesia narrante del regista Ossama Mohammed, mi trovo tra tanti formati video di telefonini e videocamere amatoriali, e divento partecipe di torture e morti di decine, centinaia di siriani.
Ero presente? Assolutamente no, ben protetto dalla mia poltrona rossa. Però ho visto gli ultimi attimi delle vite di molti ribelli, la loro dignità calpestata da uno stivale pro-Assad, o il loro passato rappresentato da un'istantanea, di un bimbo che fu...ora solo uno dei tanti “martiri”.
Mohammed ci porta nel suo mondo, di esule che non può più stare in Siria, e allora attinge a 1001 testimonianze per raccontare anche la sua. Ma soprattutto quella di Simav, testarda eroina kurda che documenta con la sua telecamerina un inferno a cielo aperto, Homs, dove è nata e cresciuta. Lei non se ne va. Non si copre il volto. Ma filma...filma qualsiasi cosa. Filma la morte dei suoi vicini, il quartiere in macerie, orde di bambini vittime delle bombe mattutine e gli animali domestici ridotti a fiere dantesche senza zampe, che mangiano l'un l'altro.
É tutto vero: è successo. La camera non è abbellimento, è testimonianza che filtra solo una volta: da realtà a video. Non è informazione, è memoria in immagine. Si può ancora interpretare, certo, ma ciò non toglie la potenza amorale di un proiettile che perfora il cranio di un uomo bendato.
“Assad è il tuo dio, bacia la suola di questo stivale.”
E intanto la rivoluzione ristagna, anche ideologicamente. E Simav risponde aprendo una scuola, perché “non possono mettere anche i nostri cervelli sotto assedio, vero bambini?”
Allora si impara. Si impara nonostante la morte sia sempre compagna di banco: gli alunni diminuiscono – o perdendo la vita, o semplicemente perché gli adulti non vogliono che i propri bimbi vengano educati da una donna senza il velo.
“...La rivoluzione mangerà i suoi stessi figli.”
E a me, cosa resta da fare? Questo è il più grande problema. Piango, mi viene da vomitare, mi sento inutile. E il film finisce. Mi rimane l'amaro di bile, e penso ai fratelli siriani che lottano e muoiono in nome di una Siria - per tutti.
Rimango inerte. Quello che so vale nulla. Un pacchiano sentimento socratico che mi rende solo cosciente dell'entità della parola 'guerra'. L'atrocità dell'uomo sull'uomo non si ferma se voltiamo pagina. Allora scrivo qui, di getto, invitando noi tutti, prima di soluzioni, a vivere immediatamente nello spirito di Simav.

Nicolò Comotti

P.S: Ossama Mohammed mi ha detto che ne ha visti di miracoli durante la rivoluzione Siriana. Uno tra questi, per lui, è stato vedere Garcia Llorca citato su un cartello: La libertà che ami sopra di tutti, la libertà sono io, io che dono il mio sangue, che è il tuo sangue ed il sangue di tutte le creature.

 


Villaggio Ecologico di Granara
Granara Festival 2014
dal 2 al 10 agosto

Granara di ieri è un villaggio contadino sull'Appennino Parmense in Val di Taro abbandonato dai suoi abitanti negli anni Sessanta. Granara di oggi è un ecovillaggio nato negli anni Novanta su iniziativa di un gruppo di associazioni e singoli che hanno ricostruito le vecchie case di pietra con le tecniche della bioedilizia. All'interno del villaggio operano diverse associazioni: l'Associazione Centopassi, che organizza ogni anno campi di educazione ambientale per bambini e ragazzi; l'Associazione Teatro, che organizza residenze, spettacoli ed eventi culturali; il Geco, Granara ecologia, che si occupa di tecnologie appropriate e formazione ad un approccio ecologico alla nonviolenza; la Granera, che si dedica alla cura dei campi e degli animali; il Granaio, che si occupa della gestione della casa per l'ospitalità. Le decisioni all'interno del villaggio vengono prese da abitanti e associazioni attraverso un metodo orientato al consenso per vivere e gestire in modo orizzontale questo grande spazio e tutte le attività che si svolgono al suo interno.
Nasce in questa cornice, nel 2000, il primo Granara Festival, una settimana in agosto che propone laboratori, spettacoli, incontri, momenti di scambio, attività per adulti, bambini e ragazzi: teatro, danza, musica, arte contemporanea, ecologia e nonviolenza. Artisti, staff, spettatori e ospiti, tutti per una settimana vivono il festival tra le case di pietra, i prati e il bosco e sperimentano un modo diverso di stare insieme e di rapportarsi con la natura. Negli anni sono stati ospitati oltre 40 spettacoli teatrali e musicali e 30 laboratori per adulti e bambini, dando spazio a giovani talenti e ad artisti già affermati. Il Granara Festival si basa sul lavoro volontario di associazioni e singoli e si propone per una scelta politica di mantenere i prezzi per quanto è possibile contenuti. Laboratori, incontri, spettacoli ed eventi con Daria Deflorian, AntonioTagliarini, Fratelli Dalla Via, Marcela Serli - Compagnia Atopos, Stefano Laffi, AnnaRossi, Serena Sinigaglia - A.T.I.R., Camilla Barbarito, Giorgio Sangati, Maria Carpaneto, Alessandro Sarra, Chiara Camoni.

Per maggiori informazioni: www.granara.org - villaggio@granara.org.