rivista anarchica
anno 44 n. 391
estate 2014


 


Un sogno
americano

Di flussi migratori si parla a ondate; di gente che arriva stremata sulle coste del nostro paese, dopo essere fuggita da impossibili condizioni di vita si riempiono le pagine dei giornali quando la disgrazia è troppo grande per essere nascosta; poi tutto viene riassorbito dalla marea, tutto riprendere a scorrere. Nulla si arresta. Dell'idea di questo movimento inarrestabile – ed è un'idea affascinante – parla Russel Banks – uno dei maggiori narratori americani degli ultimi trent'anni – nel suo libro La deriva dei continenti, uscito in traduzione italiana nel 2012 presso Einaudi (pp. 496, € 19,50).
“È come se le creature che in questi anni vivono sul pianeta, gli esseri umani – a milioni in viaggio da soli e in famiglie, clan e tribù, talvolta come intere nazioni – fossero un sottosistema all'interno di uno più grande di correnti e maree, di venti e condizioni climatiche, di continenti alla deriva e masse di terra in movimento che si sollevano, si scontrano, si spaccano. È come se le povere creature forcute che camminano, navigano e si muovono a dorso d'asino o di cammello, su furgoni autobus e treni, da un'estremità all'altra di questa Terra, rispondessero tutte a forze naturali invisibili, come se fosse la gravità e non le guerre, le carestie o le inondazioni a farle scendere in rivoli dai villaggi di collina per raggrupparsi lungo le ampie sponde fangose del fiume più a valle aspettando un passaggio su zattere che le portino al mare, e su barconi bucati al di là del mare [...]. Continuare a muoversi, continuare a riprodursi, pisciare e cacare, continuare a mangiare il pianeta sul quale viviamo; continuare a muoversi, soli, in famiglie e tribù, in nazioni e perfino intere specie: è l'unico argomento che abbiamo per contrastare l'entropia. E non è neanche un vero argomento: è una visione. [...] L'universo si muove, al suo interno tutto si muove e, spostando le proprie parti, l'universo e tutto al suo interno, fino alla più piccola cellula, viene trasformato e si perpetua. Acqua terra fuoco aria. [...] E il prodigioso – ciò che ci riempie di meraviglia e ammirazione – dobbiamo emularlo, altrimenti è la morte. [...] Il pianeta siamo noi, tanto quanto lo sono acqua terra fuoco aria, e se il pianeta sopravvive sarà solo grazie all'eroismo, [...] eroismo costante, sistematico, eroismo come principio dominante.”
Di ciò Banks ne parla solo all'inizio, come se questa visione dall'alto, distaccata e imprescindibile gli servisse da trampolino per tuffarsi nel vivo della storia che vuole narrare, composta da due storie parallele che a un certo punto si incontreranno: due persone alla ricerca di una vita migliore, del “sogno americano” di un benessere che si rivelerà illusorio e violento.
Un uomo giovane, che vive nel nord dell'America, nel freddo dello stato del New Hampshire, con moglie e figli, che ripara bruciatori a nafta e si trascina in un'esistenza grigia, affannosa, dominata dall'idea che con più denaro la vita sarebbe migliore.
Una donna che fugge da Haiti, dalla povertà e dal terrore, insieme al giovane nipote, portando con sé un bambino neonato e una manciata di soldi. Tutto quello che ha. Alla ricerca della fortuna, della Florida, la terra dei sogni e dell'abbondanza.
Il giovane uomo, Bob Dubois, una persona come ce ne sono tante, nel tentativo di guadagnare di più – perché solo in questo, gli hanno insegnato, stanno il suo valore e il riconoscimento sociale – inizia a infilare una strada sbagliata dopo l'altra, in un'inesorabile disastrosa discesa.
Vanice, donna analfabeta, vive in uno dei posti più poveri del pianeta (riguardo ad Haiti vedi i dossier già apparsi su “A” 386 e “A” 387) e per raggiungere la terra mitica sopporta l'insopportabile.
Entrambi vittime, anche se in forma e a livelli diversi, di povertà ignorante e falsi miti, entrambi arriveranno in Florida, dove, loro malgrado, si troveranno a vivere i ruoli di vittima e carnefice nell'ennesimo trasporto di clandestini via mare.
Ma non è tutto qua, perché strada facendo Russel Banks riesce – in forma magistrale, pulita, appassionata e cruda allo stesso tempo – ad avvicinare così tanto il lettore alle figure dei suoi protagonisti e alla realtà in cui vivono, che quasi quasi vorresti poter intervenire per evitare lo sfacelo. Ma non è possibile, non perché stai leggendo una storia inventata, stampata su pezzi di carta, ma perché il destino di entrambi è segnato all'origine e la deriva dei popoli, ti rendi ben conto, non si può fermare. Ma si può, anche se in piccolo, contribuire a cambiare la cultura. Questo mi sembra indispensabile: una cultura differente che crei visioni del possibile in contrasto con la monocultura del potere economico-finanziario. E di visioni abbiamo bisogno, per tante cose, compreso il dare dignità al transito dei popoli. Questo è ciò che l'autore fa con il suo libro, celebrare la vita e piangere la morte di due personaggi qualsiasi, simili a tanti di quelli che in questo momento vagano nel mondo alla ricerca di una possibilità. Rendere loro onore toccando l'animo di chi legge. Così un libro agisce e modifica la visione di un lettore/lettrice, forse poi di dieci, cento, chissà.
“Anche se nulla sembra accadere come conseguenza della sua vita o morte, anche se gli haitiani continuano ad arrivare e molti annegano, molti subiscono brutali maltrattamenti, vengono imbrogliati e sfruttati, ma il posto da dove arrivano rimane pur sempre peggiore di quello dove stanno andando; anche se gli uomini in completi tre pezzi dietro le scrivanie in banca si ingrassano, sempre più sicuri e abili nel loro lavoro; anche se giovani americani squattrinati, con mestieri anziché professioni, continuano a spezzare la propria vita tentando di piegarla intorno alla ruota del commercio, sognando che, al girare della ruota, verranno su dal fango, si ergeranno come divinità della televisione, facendo una breve apparizione speciale sulla Terra, roba mai vista prima. Il mondo così com'è continua ad essere se stesso. [...] Gioia e lutto per la vita di altri, perfino vite del tutto inventate – anzi, soprattutto quelle – priverà il mondo di parte dell'ingordigia che gli occorre per continuare a essere se stesso. Sabotaggio e sovversione, dunque, sono gli obiettivi di questo libro. Va', mio libro, e contribuisci a distruggere il mondo così com'è”.

Silvia Papi



Ma le relazioni biologiche
sono sempre sociali

Che cos'è un parente? Esistono davvero dei legami “di sangue” che ci uniscono in famiglie? O forse la parentela umana è piuttosto l'esito di convenzioni sociali, di consuetudini variabili tanto storicamente quanto culturalmente?
Nel libro La parentela (elèuthera, Milano, 2014, pp.128, € 13,00) Marshall Sahlins dispiega un ampio ventaglio di casi etnografici per mostrare che i parenti, più che consanguinei, sono persone che condividono uno l'esistenza dell'altro. La famiglia non è mai stata fatta di solo sangue: si può essere parenti perché figli della stessa terra (Platone), per essere nati nello stesso giorno (Inuit), per aver osservato gli stessi tabu (Araweté), per essere sopravvissuti ad una pesca pericolosa in mare (Truk), e persino per aver sofferto insieme di tigna (Kaluli). Accanto alla parentela per mera nascita, l'autore ne illustra un'altra acquisibile con l'accudimento, la nutrizione, l'affetto, ossia attraverso le relazioni.
Al centro della teoria di Sahlins è la nozione di “reciprocità dell'essere”, un'unione così intima della persona al suo gruppo da portare i parenti a vivere uno la vita dell'altro, a morire uno la morte dell'altro. Contro la concezione occidentale di un Ego individualista e massimizzatore di profitti personali, Sahlins ci invita a ripercorre le scoperte di un'eretica psicologia evolutiva, che studiando i rapporti fra madre e bambino nei primi mesi di vita ha individuato una facoltà tipicamente umana di immedesimazione reciproca, una capacità simbolica sconosciuta ai primati e che ci distinguerebbe dal regno animale.
Sahlins, Professore emerito all'Università di Chicago, pone questa innata disposizione transpersonale come rivoluzionaria chiave di volta per concepire le relazioni di parentela, con uno sguardo che travalica il metodo genealogico dell'antropologia e ricorda ancora una volta che anche le relazioni biologiche sono sempre e comunque relazioni sociali.

Moreno Paulon



I giovani rifuggono
da certe “nonne”

Perché scrivo queste cose? Per giustificare il mio Sessantotto? Le ribellioni, i cambiamenti, che però non hanno portato a ciò che volevamo? Io mi ribello contro l'ignoranza, la mancanza di senso critico e contro l'omologazione, che ci vuole tutti giovani, belli e sani, tutti uguali e felici, con l'ultima novità tecnologica in tasca”.
In tredici racconti, Luisa Ronconi (Donne di ieri, Rupe Mutevole Edizioni, Bedonia, 2014, pp. 124, € 15,00) narra storie di donne qualunque. Il passato neanche troppo lontano, da prima degli anni Cinquanta agli anni Settanta, restituisce una Romagna terra di contadini, immersa in una palude di acque stagnanti e di piallasse, dove l'acqua del mare fluiva e rifluiva seguendo la marea. In quella terra atavica e ancestrale, madri sacrificano i propri figli di pochi anni alla palude, rituale per allontanare la malaria, oppure li fanno segnare dalla Sampira per levare il malocchio.
Si coglie lo strazio delle madri per la fucilazione dei loro figli renitenti alla leva: quando l'Emilia Romagna rimane soggetta alla costituita repubblica sociale italiana e serve la formazione di un esercito repubblichino con le classi di leva 1923, 1924 e 1925, la condanna a morte per i disertori è l'applicazione della legge di guerra. Altri racconti di donne analfabete, modeste, ubbidienti al padre, al marito e alle suocere. La rassegnazione di Nina, ragazza ventenne, costretta a prostituirsi dal patrigno e una madre consenziente. L'umiliazione di Antenisca per aver disonorato il marito con un pastore. Lina e il suo aborto mancato o il matrimonio forzato di Giulia, combinato da un padre-padrone. E se negli anni Sessanta “le contadine non siedono a tavola con gli uomini”, agli inizi degli anni Settanta, Maria è per tutti una “merce avariata” perché partorisce a sedici anni durante una gita scolastica nel bagno di un autogrill un feto morto, frutto della sua colpa. Donne destinate ad essere chiamate zitelle per una scelta diversa e libera dal vincolo del matrimonio oppure obbligate a scegliere tra la carriera e la famiglia. Donne violentate per aver osato avventurarsi da sole in campagna per una passeggiata in bicicletta. Sono storie di ignoranza, superstizione e di una visione patriarcale e maschilista del mondo.
Tuttavia, l'autrice disattende gli intenti iniziali: “I giovani d'oggi non si rendono conto di quanto sia stato difficile [...] . Ora siamo compagne dei nostri uomini, non vogliamo stare né sopra né sotto di loro, ma al loro fianco per costruire un mondo migliore”. Ancora: “La donna oggi lavora ed è impossibile per moltissime famiglie allevare e mantenere molti figli, in quanto la società è cambiata ed è giusto seguire i figli nel loro percorso formativo [...] aiutarli a mettere su famiglia e seguire i figli dei figli, i nipotini, per quanto possibile”.
Ronconi sembra proprio non cogliere i mutamenti oggi in atto, ad esempio rispetto alla famiglia. Nelle sue esternazioni replica alcuni modelli unidirezionali di quel passato, che proprio nei suoi intenti vorrebbe stigmatizzare. Con la presunzione di voler rivolgere il suo messaggio ai giovani. Ma alle nuove generazioni credo non serva la retorica ingenua e paternalistica della nonna, dalla quale invece, i giovani – da saggi – rifuggono.

Claudia Piccinelli



Teologia della liberazione
contro la dittatura brasiliana

Cosa hanno in comune Ferrara e São Paulo, un frate e un guerrigliero, l'anarchia e la teologia? In questo libro (Frei Betto, Battesimo di sangue, Rete Radié Resch, Quarrata (PT), 2009, pp. 332 € 15,00, rete@rrrquarrata.it), geografie, storie e impegno politico si intersecano e si intrecciano, per scrivere un capitolo di storia taciuto per troppo tempo: quello del Brasile durante la dittatura militare. Soggetti della storia, Augusto Marighella, meccanico italiano ateo e anarchico, e Alberto Libânio Christo, frate domenicano meglio conosciuto come Frei Betto. Anello di congiunzione, un giovane immigrato di seconda generazione, passato alla storia come il Che Guevara del Brasile: Carlos Marighella.
Figlio di Augusto, emigrante in Brasile, e di una discendente degli schiavi haussa catturati in Africa per popolare il nuovo mondo, Carlos Marighella fu ammesso alla facoltà di ingegneria del prestigioso Politecnico di Bahia, ma non dimenticò mai la sua origine proletaria, le idee libertarie ereditate dal padre e l'ostinata volontà della madre di fare dei propri figli non degli schiavi come i suoi antenati neri, ma donne e uomini liberi e padroni del proprio destino.
Carlos aveva ascoltato sin da bambino le storie delle lotte dei lavoratori europei, e quelle dei quilombolas, gli schiavi fuggitivi nascosti nelle foreste del Nordest brasiliano, e presto aveva compreso che “il gusto amaro dell'ingiustizia brucia le viscere, fa sanguinare il cuore e richiede una mediazione politica per non inaridirsi nella rivolta individuale o nella rinunciataria fatalità del destino” (p.5). Pertanto diventa uno dei più attivi militanti del PCB (Partido Comunista do Brasil) distinguendosi per l'impegno, le capacità logiche e oratorie, il coraggio. Ha 21 anni quando critica in versi il governo baiano, che non apprezza le sue doti poetiche né politiche e lo spedisce in prigione. Vi ritorna il primo maggio del 1936, durante le manifestazioni dei lavoratori paulisti; torturato per ventitré giorni, non rivela i nomi dei compagni di partito. Esce dopo un anno e, mentre ha inizio la dittatura di Getúlio Vargas, per Marighella iniziano la clandestinità e la mobilitazione dei lavoratori paulisti contro l'avanzata del nazifascismo. Nel 1939 è di nuovo arrestato e torturato; è liberato dopo sei anni in seguito alla caduta del regime Vargas. In carcere scrive sulla Libertà: Non resterò a lungo solo in arte/con decisione vigilante e forte/tutto farò per te, per esaltarti/sereno, noncurante di mia sorte. (p.12).
L'autore lo ha incontrato a São Paulo nel maggio 1969; si conoscevano solo di nome e condividevano lo stesso impegno di aiutare i perseguitati politici a uscire dal Brasile; per Marighella era un servizio reso all'ALN (Ação Libertadora Nacional), per Betto era la consapevolezza che aiutare i rifugiati politici fosse in linea con la tradizione della chiesa perché “servire la causa della liberazione dei poveri è servire Cristo” (p.74). Questo afferma la teologia della liberazione, e in quest'ottica è teologica la scelta rivoluzionaria di Camillo Torres, assassinato in combattimento nelle foreste della Colombia.
L'appoggio a Marighella e la condivisione della causa libertadora del Brasile, valsero a Frei Betto la fama di pericoloso sovversivo, la clandestinità, il carcere, la tortura. Durante un interrogatorio definì Marighella “uomo assetato di giustizia che ha dato la vita per la causa del popolo”. “Come può collaborare con un comunista?” – fu la domanda dei suoi inquisitori. La risposta lo bollò definitivamente come leader pericoloso e alleato della guerriglia, oltre che eretico e blasfemo: “La dottrina della chiesa non scarta il diritto degli oppressi di difendersi, con le armi, dall'oppressione di strutture che li schiacciano” (p.147). E rispondendo ancora dei suoi legami con Marighella, nemico numero uno della dittatura, “Sono i gesti concreti di giustizia che ci salvano” (p. 146).
Battesimo di sangue narra questo intreccio di storie, e spiega, con notizie di prima mano, come sia realmente avvenuto l'assassinio del capo carismatico dell'ALN, attirato in un'imboscata da un noto criminale che con la tortura aveva estorto notizie utili ai frati domenicani vicini alla resistenza; ma narra anche di un'altra morte, non meno violenta e più sottile, che ha ucciso lentamente e scientemente prima la personalità e poi la persona di Tito de Alencar, il giovane domenicano che ha saputo resistere alle torture ma non al ricordo di umiliazioni e degrado. Quello dell'essere umano che, accecato dalla ferocia del potere, svilisce e svende la propria umanità.
Frei Betto, esponente della teologia della liberazione e giornalista, ha narrato al mondo i crimini compiuti dalla dittatura militare brasiliana e nei suoi tanti libri ha ricostruito le storie drammatiche dei prigionieri politici nel carcere di Tiradentes a São Paulo. Battesimo di sangue, da cui nel 2006 è stato tratto un film di denuncia, ha ricevuto il Premio Jabuti, principale riconoscimento letterario del Brasile.

Alba Monti



La vera rivoluzione?
La pace

L'impegno per la pace dell'autore viene raccolto, elaborato e tramandato in questo catalogo (Abbasso la guerra, persone e movimenti per la pace dall'800 ad oggi, catalogo della Mostra a cura di Francesco Pugliese, editore Grafiche Futura – Helios, pp. 178, 2013), da cui è tratta una mostra documentaristica itinerante che viene esposta ovunque si presenti la volontà di offrire un contributo culturale al recupero della memoria storica dell'attivismo dei costruttori di pace contro l'orrore delle guerre. Occorre sottolineare la particolare ampiezza della ricerca, il valore di strumento di consultazione del libro-catalogo e l'intento di rispondere a un bisogno di sistematizzazione nella narrazione dell'impegno contro la guerra.
Il catalogo redatto da Francesco Pugliese e lo studio applicato alla raccolta spaziano, nell'ampia ricostruzione storicistica e storiografica, tramite documenti e fotografie d'epoca, dal periodo anticolonialista all'antifascismo, dagli scioperi del marzo 1943 al movimento dei partigiani della pace, fino ad arrivare al celebre appello di Einstein e Russel, alla prima marcia Perugia-Assisi, ideata da Aldo Capitini e all'opposizione pacifista nella guerra del Vietnam.
Pugliese tratta inoltre delle ingenti manifestazioni contro gli armamenti e le basi militari a Comiso e dell'attualissima questione nucleare, dove l'annientamento dell'umanità viene scongiurato dal nobile atto e dall'audace scelta dell'obiezione di coscienza alle spese militari e  nucleari e dell'attivismo diretto alla denuclearizzazione mondiale e totale. L'autore non tralascia di condurre la ricerca documentaristica e dall'alto spessore pedagogico e didattico, attraverso i percorsi storici contemporanei, analizzando le guerra nella ex-Jugoslavia e la guerra in Iraq del 2003 condotta da Bush, a cui si sono opposte tutte le campagne pacifiste e nonviolente; per poi giungere alla raccolta di materiali e documentazioni, fruibili da un pubblico attento e sensibile, sulle manifestazioni e i movimenti contro le basi USA, come la Dal Molin, e sulle campagne pacifiste attuali contro gli F35, evidenziando le conseguenti polemiche inerenti il taglio drastico delle risorse alla sanità, alla scuola e in generale allo Stato sociale.
La pace, da sempre, è l'ideale nobile a cui deve aspirare l'intera umanità, perché con essa tutto è possibile e realizzabile, perché la pace è creazione e creatività, è desiderio e speranza, è avvenire, è futuro per la donna e l'uomo di tutti i tempi. La vera rivoluzione è la pace, quando comincia un pensiero alternativo alla guerra. Il termine “pacifismo” è stato introdotto tra l''800 e il ‘900 con il significato culturale di un pensiero e di pratiche, di teorie e movimenti tesi a prevenire e contrastare la guerra, le culture violente, le tradizioni guerresche e le relative politiche guerrafondaie.
Il pacifismo e la nonviolenza sono espressione popolare e simbolo di uno sforzo collettivo, di un anelito interiore, di rivolte personali, interioristiche e individuali e di teorie di figure profetiche, ossia l'opposizione ai conflitti armati di persone, donne e uomini che osano ribellarsi alla presunta fatalità della guerra e che singolarmente e collettivamente, individualmente e interiormente, hanno trovato il coraggio di creare una rivoluzione di pensiero dal basso per opporsi a tutte le guerre, agli imperialismi, alle armi e alle violenze. Persone singole e moltitudini, si incontrano nelle marce, nelle manifestazioni, nei cortei per opporsi alle guerre, al nazionalismo e all'uso delle armi nucleari e di distruzione di massa.
Il nome dell'Italia, del nostro bel Paese, brilla nel mondo, non per le imprese militari in epoca coloniale e fascista e per le cosiddette e surrettizie guerre umanitarie contemporanee in Iraq, Afganistan, Libia, ma per la sua immensa cultura, per il patrimonio artistico, culturale e paesaggistico. Il cammino per una rivoluzione pacifista e nonviolenta è arduo e tortuoso, perché lungo è ancora “il cammino che dobbiamo imparare a percorrere” come sostiene il partigiano e “padre costituente” Stéphane Hessel, affinché “la guerra diventi un tabù come l'incesto”, così ribadisce il comboniano Padre Alex Zanotelli.
Per ordini, esposizioni e presentazioni della Mostra, mail: franz_pugliese@yahoo.it (proventi destinati ad Emergency e a realizzare un pozzo per acqua potabile in Africa).

Laura Tussi



L'armata
dei sonnambuli

Ho letto con piacere il nuovo libro dei Wu ming sulla rivoluzione francese.
Parlando con un compagno è emersa una domanda su quanto serva oggi parlare del passato. Secondo me ne vale sempre la pena; cercare le fallacie del passato anche da diverse prospettive può essere in buon metodo per capire quei ricorsi storici e dinamiche che ogni volta bloccano un'insurrezione portando alla restaurazione o al riformismo. Il bello del romanzo, a mio avviso, è per prima cosa il fatto che gli autori contrappongono alle armate della restaurazione, fatte di sonnbuli auto diretti, delle individualità autonome che agiscono nel palcoscenico della rivoluzione, spinti da un sano egoismo stirneriano. È come se in tutto il racconto fosse evidente quello che alcuni psicologi chiamano “complesso gemellare”: a forze sovversive che chiamerò radicali, nella psiche così come il sociale, si oppongono altrettante forze conservatrici che impediscono lo sviluppo e il salto avanti.
Uno dei moventi della restaurazione o del riformismo è sicuramente la paura: paura che nel libro è rappresentata dal viaggio nell'inconscio simboleggiato dal viaggio del dottore illuminista ai confini delle province francesi. I personaggi principali del romanzo a differenza dei “cattivi”, esplorano i loro limiti interiori affrontando una ferita personale. Questo può dare adito ad una lettura individualista stirneriano nel senso che solo l'unico che arriva a possedersi e agire per il suo egoismo, può confrontarsi in modo sano con l'altro, anch'esso liberato. Nel libro c'è anche un'istituzione totale come il manicomio: per chi come me si occupa di psicologia è interessante notare come si evidenzi quanto l'ideale folle di guarire tramite il controllo dell'altro in fondo non è che una forma di plagio e potere.
Questo è molto evidente nel romanzo dove si tratta ampiamente di sonnambulismo come metodo di cura che sottomette invece di liberare il paziente. Individuo contro l'armata dei sonnambuli, individuo contro le sue stesse debolezze, individuo contro l'istituzione totale: la rivoluzione è sempre teatro dell'Uno che si scontra e incontra con più piani di conflitto. E infatti solo dopo aver fatto il percorso personale, i personaggi principali possono unirsi. Insomma, ne “L'armata dei sonnambuli” ho letto questo: senza un precedente percorso di liberazione interiore, agire in modo rivoluzionario e unirsi agli altri è difficile. Almeno per chi è libertario: per le forze della reazione fascista e conservatrici non serve un uomo o donna completo, basta un burattino da guidare e plagiare con marketing e propaganda. Il personaggio che più ho amato è stato l'uomo mascherato, quasi un eroe romantico della vecchia propaganda del fatto, un rivoluzionario egoista e bislacco, un teatrante, che punisce i nemici prima mosso da un bisogno di esserci nel palcoscenico, poi, dopo tante cadute, li affronta unendosi agli altri. Lèo l'attore è un j'accuse sincero a tutti coloro che vedono lo scontro come un atto teatrale ed esibizione ma anche un personaggio nobile che nelle due contraddizioni non nega le sue ambizioni personali. Il mito del rivoluzionario duro e puro che non ha mete egoistiche è di matrice cattolica: lungi dall'essere martiri, quel che mi è piaciuto è che qui gli eroi sono individui.
Io avrei approfondito nel capitolo finale il racconto su “Gli arrabbiati”: i famosi Enragés della rivoluzione francese, che molti considerano prodromi dell'anarchia ma in effetti un romanzo non è un libro di storia. Durante la Rivoluzione francese, il girondino Brissot definiva “anarchico” il movimento degli Enragés, e nel 1793 dava questa definizione dell'“anarchia”: “Leggi non tradotte in effetto, autorità prive di forza e disprezzate, il delitto impunito, la proprietà minacciata, la sicurezza dell'individuo violata, la moralità del popolo corrotta, nessuna costituzione, nessun governo, nessuna giustizia: queste  le caratteristiche dell'anarchia.” Definizione quindi del tutto negativa, rafforzata in seguito dal Direttorio, che sarebbe sceso addirittura alle ingiurie: “Per «anarchici» il Direttorio intende quegli uomini carichi di delitti, macchiati di sangue, impinguati dalle ruberie, nemici di tutte le leggi che non sono state fatte da loro, di tutti i governi in cui loro non governano...”.  L'esempio forse più clamoroso ed estremo delle tesi sostenute dalla corrente degli “arrabbiati” o, come furono definiti dal girondino Brissot, degli “anarchici” all'interno della rivoluzione francese.
Contrario alla dittatura e al “terrore”, Varlet viene più volte imprigionato per bloccarlo nella sua attività sovversiva, perché, contrariamente a quanto si crede, il primo scopo dei rivoluzionari, con in testa il “virtuoso” per eccellenza, Robespierre, non era tanto quello di abbattere il vecchio regime, mandare via la monarchia, uccidere il re, sconfiggere gli eserciti nemici, quanto quello di instaurare un nuovo regime, la dittatura della borghesia in grado di assicurare una prosperità bottegaia e produttiva alla Francia – e poi all'Europa – sulla pelle dei nullatenenti, dei miserabili che dovevano solo servire da massa di manovra. Varlet, Jacques Roux, autore del “Manifesto degli Enragés”, Théophile Leclerc, e altri anticipano le tesi che si concretizzeranno nella “congiura degli eguali” di Babeuf, Buonarroti, Darthé e altri. In altri termini, nessun potere sul popolo, ma tutte le decisioni dovevano essere prese dal popolo in assemblee permanenti.
L'explosion è un breve testo in grado, comunque, di farci vedere questo progetto come qualcosa in corso di realizzazione, che il potere in carica, controllato dai giacobini, ostacolava in tutti i modi, come peraltro è sempre accaduto. (da J. Varlet, L'esplosione e altri scritti, Edizioni Anarchismo, 2013, pp. 56).

Barbara Collevecchio



I limiti
dello sviluppo sostenibile

Nonostante il termine abbia una lunga e molto articolata storia, possiamo considerare gli anni Settanta come la culla di molte delle idee riguardanti la sostenibilità. Lo stesso concetto di sviluppo sostenibile, che ora troviamo declinato in ogni discorso pronunciato da politici, amministratori, economisti, è stato concepito proprio in quel decennio.
Correva l'anno 1973 e la prima crisi petrolifera pose il mondo di fronte al problema della resilienza in caso di mancanza o riduzione dei combustibili fossili, motore immobile e condicio sine qua non di ogni cosa del mondo moderno. Alla luce di quegli accadimenti e a fronte di una possibile carenza di risorse non rinnovabili, una domanda sorse spontanea: che fare?
Quel periodo non vide solo la nascita della preoccupazione per il possibile esaurimento della linfa del sistema economico mondiale, ma anche l'aumento graduale della sensibilità riguardo a temi quali la salvaguardia dell'ambiente. Complici diversi incidenti, come le vicende della petroliera Torrey Canyon (1967), la nube di diossina a Seveso (1976), il disastro nucleare di Chernobyl (1986), cominciò a crescere l'interesse, anche giuridico, nei confronti di tematiche inerenti ad ambiente, ecosistema e risorse.
Nel 1972 fu redatto, da parte del System Dynamics Group del Massachusetts Institute of Technology (MIT), un rapporto (I limiti dello sviluppo) circa le conseguenze che una continua crescita dei tassi di produzione, depauperamento delle risorse, inquinamento e crescita della popolazione avrebbe causato al pianeta. Il verdetto risultò molto chiaro: allo stato attuale dello sfruttamento delle risorse naturali, della produzione di inquinamento, dell'aumento demografico le ripercussioni, continuando assiduamente su quella strada, sarebbero state apocalittiche. A soluzione del problema, i redattori del rapporto invocarono una prospettiva di crescita nulla, conseguibile attraverso il mantenimento stazionario delle variabili prese in esame; produzione, consumo e densità della popolazione sarebbero dovute rimanere pressoché invariate.
Considerate le affermazioni fatte dagli studiosi del MIT, si cominciò così a pensare a come agire sul sistema economico e sul modello di produzione, riconosciuti come principali colpevoli del deterioramento delle risorse disponibili, in modo da trovare una soluzione a quella che non si voleva né poteva considerare una sentenza definitiva. Per i più era impensabile considerare l'idea della creazione di un nuovo modello; meglio cercare di correggere per quanto possibile quello esistente, accettandolo con tutti i suoi difetti. Forse, pensarono, aggiustando di qualche grado la rotta si sarebbe raggiunto il giusto compromesso: mantenere il tasso di crescita economica, aumentare consumi e produzione, riuscendo a non compromettere le generazioni future.

La bioeconomia, fuori dal coro
Il Rapporto Brundtland, redatto nel 1987 dalla Commissione mondiale sull'ambiente e lo sviluppo, andava proprio in quella direzione ed esprimeva il significato di quello che venne definito da quel momento in avanti sviluppo sostenibile. A seguito della presa di coscienza dell'esistenza di un problema ingente, l'obiettivo del mantenimento delle risorse senza uscire dal modello economico sviluppista divenne idea ufficializzata e largamente condivisa, soprattutto dagli amministratori che decisero di adottare il rapporto Brundtland come cartina tornasole per ogni azione futura. Il compromesso e la ricerca di un equilibrio tra crescita e risorse naturali sarebbe stata la strada da percorrere, nella speranza che il futuro socio-economico del mondo potesse rivelarsi un gioco a somma zero: nessuno, né la crescita né l'ambiente, ci avrebbe rimesso.
In questo insieme di voci unisone, quella di Nicholas Georgescu-Roegen, teorico della bioeconomia, risultò indubbiamente fuori dal coro. L'economista rumeno, nato a Costanza nel 1906, lavorò con il fine di incorporare le leggi della fisica e della biologia all'interno dell'economia, in particolare l'inserimento delle leggi della termodinamica nelle considerazioni economiche. Alla scuola neoclassica criticava la riduzione dell'economia ad un incessante movimento circolare tra produzione e consumo destinato a ripetersi e perpetuarsi all'infinito; all'interno di quel modello meccanico, sosteneva l'economista, la natura non trovava alcuno spazio.
Per Georgescu-Roegen, quello delle risorse naturali non era argomento di poco conto e, a seguito delle scoperte in campo termodinamico, era per lui doveroso rivedere il modo in cui la produzione e lo sfruttamento delle risorse venivano percepiti. Tenere conto dei principi della termodinamica sarebbe dovuto essere l'obiettivo di ogni enunciazione economica.
Grazie ai contributi di Nicolas Sadi Carnot (1824), considerato il padre degli studi sui processi di trasformazione di massa ed energia, sappiamo che un sistema chiuso quale il pianeta Terra non può sfuggire all'ineluttabilità della degradazione. Tralasciando i tecnicismi, possiamo affermare che il primo principio della termodinamica enuncia che niente può essere prodotto o distrutto, ma sempre e solo trasformato. La legge dell'entropia ci spiega però che energia e materia sono soggette, durante i processi di trasformazione, a degradazione. Se così non fosse, tutto sulla terra sarebbe imperituro, inesauribile ed eterno. ''Le risorse naturali – ribadisce più volte Georgescu-Roegen – costituiscono un problema perché il loro stock è non solo finito, cioè limitato, ma anche irrevocabilmente esauribile. Pur con un ammontare finito di risorse accessibili non vi sarebbe scarsità in senso proprio se non fosse che, per l'operare della legge dell'entropia, energia e materia si degradano da uno stato in cui sono utilizzabili a uno in cui risultano inutilizzabili''.1
E proprio quest'idea della degradazione ineluttabile viene presa raramente in considerazione quando si affronta il tema della ricerca della sostenibilità. Eppure l'effettività della legge entropica non pare essere argomento opinabile poiché reale principio regolatore del mondo entro il quale viviamo, siano gli esseri umani d'accordo o meno.
Alla luce dell'analisi dei processi economici attraverso i principi della termodinamica, l'idea che sia possibile trovare un compromesso tra crescita continua di produzione e consumi e mantenimento dello stock di risorse sembra di impossibile attuazione. Le risorse infatti si degradano secondo un processo che Georgescu-Roegen considera impossibile da arrestare.

L'illusione tecnologica
Moltissimi tra economisti, scienziati e ricercatori di diversa estrazione hanno cercato di controbattere quest'asserzione proponendo l'argomento delle nuove tecnologie; per molti, saranno queste ultime a salvarci dall'empasse, permettendoci di superare il problema posto dalla naturale scarsità ed esauribilità delle risorse. L'autore di ''Energia e miti economici'' si esprime anche su questo punto, affermando che ''la tesi preferita tanto dagli economisti tradizionali quanto dai marxisti è, comunque, che le possibilità della tecnologia non conoscono limiti. Riusciremo sempre non solo a trovare un sostituto per una risorsa che sia diventata scarsa, ma anche ad aumentare la produttività di qualsiasi tipo di energia e di materia prima; se qualche risorsa ci verrà a mancare, riusciremo a escogitare un rimedio come abbiamo fatto fin dai tempi di Pericle; niente quindi potrà mai frapporsi a un'esistenza sempre più felice per la specie umana. Sarebbe difficile trovare una forma più ottusa di pensiero lineare2''.
Grazie ai contributi offerti da Georgescu-Roegen all'economia moderna, si potrebbe dunque ritenere l'idea di sviluppo sostenibile (o durevole) come priva di fondamento e, soprattutto, non realizzabile. A causa della legge entropica e dell'ineluttabilità della degradazione, era per lui errata la convinzione della possibilità di salvaguardare lo stock di risorse continuando sulla strada della crescita economica, del maggior consumo e della maggior produzione. Il sistema produttivo, quindi, non doveva considerarsi in alcun modo un gioco a somma zero: all'aumento della produzione e dei consumi sarebbe seguita un'accelerazione dell'esaurimento di risorse senza che nessuna tecnologia, anche la più efficiente, potesse fermare il processo. Contrariamente a quanto sostenuto dai redattori del rapporto sui limiti dello sviluppo, si spinse ad affermare la fallacia di un progetto di crescita zero: anche mantenendo costanti produzione, consumi, inquinamento e crescita demografica, l'umanità non sarebbe sfuggita in alcun modo all'inevitabile esaurimento delle risorse naturali.
Se è quindi impossibile sottrarsi alla degradazione, allora come agire? Considerare l'ineluttabile esistenza dei limiti materiali del nostro pianeta, ripensando l'intero sistema produttivo, cercando così di far riconciliare l'economia con l'ecologia.

Carlotta Pedrazzini

1 Stefano Zamagni, Introduzione a N. Georgescu-Roegen Energia e miti economici, 1982, Editore Boringhieri, Torino, p. 18.
2 N. Georgescu-Roegen Energia e miti economici, 1982, Editore Boringhieri, Torino, p. 44.