rivista anarchica
anno 44 n. 393
novembre 2014





Spagna 1936-1964/Gli anarchici dimenticati (non solo dai comunisti)

Cari compagni,
ho apprezzato la ricognizione di Massimo Ortalli intorno alla bibliografia sugli anarchici italiani pubblicata in “A” 391.
Stimolato e incuriosito dalla nota in merito al misconoscimento del ruolo degli anarchici negli avvenimenti del Novecento ho voluto riprendere in mano proprio la monografia “Spagna quando?” de “Il Ponte” comparsa nel Dicembre 1964 e presumibilmente presentata nel Marzo successivo a Roma nell'omonima citata iniziativa pubblica.
Nel volume, edizione italiana del testo “España hoy” prodotto dal gruppo di “Ruedo iberico”, compaiono anche diversi contributi portati a commento e complemento dell'originale spagnolo da alcuni intellettuali italiani tra i quali Aldo Garosci, già miliziano giellista nella Colonna italiana sul fronte aragonese. Gli anarchici, scorrendo le pagine, compaiono poco e, direi, male. Forza di massa organizzata preponderante e determinante nella guerra civile tra il 1936 e il '39, sembrano qui quasi sparire, ostracizzati dalle componenti democratiche come una ormai trascurabile deriva settaria ostinata nella sua volontà rivoluzionaria, isolati nel loro tentativo di azione insurrezionale.
È Maria Adele Teodori, giornalista radicale allora fresca autrice di “Spagna in ginocchio” per le Edizioni di Comunità, nel trattare de “L'opposizione”, articolo in cui si occupa ampiamente dei movimenti cattolici democratici spagnoli, che più sembra accorgersi dell'esistenza degli antiautoritari sul fronte antifranchista, ma pure a maggiormente calcare la mano: “Gli anarchici, i libertari, cresciuti alla scuola della violenza, camminano per loro conto, sono quasi tutti fuorusciti e i nuclei non hanno la consistenza di trenta anni fa”. La ritroveremo tuttavia nei primi anni Settanta tra i firmatari della nota “Lettera aperta a L'Espresso sul caso Pinelli”.
È del resto lo stesso Garosci, cui pure nella conferenza romana Rossi riconosce il parziale merito di avere almeno accennato agli anarchici, a citarli nel suo apporto “Spagna, libertà, rivoluzione” una sola volta, en passant, accidentalmente, a proposito della borghesia che ”a Barcellona iscrivendosi in massa al Psuc e all'Ugt fece scacco alla poderosa maggioranza libertaria operaia della Cnt”. Tutto qui, e solo a proposito dunque del glorioso periodo della guerra civile.
Ma è vero che di lì a poco, nel 1969, Garosci dovrà intervenire nuovamente e diffusamente con la sua relazione sui “Problemi dell'anarchismo spagnolo” al Convegno internazionale di studi “Anarchici e anarchia nel mondo contemporaneo” promosso dalla Fondazione Luigi Einaudi. Ancora una volta, come nel già citato caso della Teodori, saranno allora la contestazione studentesca, il conflitto operaio e poi le bombe della strage di Stato a svegliare le coscienze e l'interesse degli intellettuali liberali e progressisti.
Questi dunque i minimi presupposti scritti del confronto alla Casa della cultura di Roma di tanti anni fa in cui dovette essere presentato quel numero speciale della rivista fondata da Piero Calamandrei. Bene fecero allora Aldo Rossi, redattore di “Umanità Nova”, e gli altri compagni della Federazione anarchica laziale a lamentare anche in quell'occasione la “strana dimenticanza dei relatori del contributo dato dagli anarchici” nella opposizione antifranchista attiva in Spagna dal secondo dopoguerra. “Veniva messo in rilievo il contributo dei comunisti, socialisti, repubblicani ed anche della tardiva -ma valida, secondo gli oratori- partecipazione delle forze cattoliche, mentre l'anarchismo sembrava non avere alcuna importanza circa la realtà spagnola”, protestava Rossi. Ma è indubbio che alla metà degli anni Sessanta il progressismo riformista de “Il Ponte” fosse sensibile e attento agli esperimenti di Governo del Centrosinistra imperniato proprio sulla nuova alleanza tra cattolici e socialisti, modello al quale in Spagna al tempo le forze democratiche, comunisti compresi, guardavano per il dopo Franco che sentivano ormai prossimo.
Non ha torto dunque Ortalli quando afferma che la riduzione e rimozione del ruolo degli anarchici nelle vicende novecentesche fu opera non solo dei marxisti e della loro scuola storiografica, allora e per lungo tempo egemone, ma pure agita e comunque consentita da parte democratica e liberale, almeno fino alla strage di Piazza Fontana.
Tornando alla conferenza romana del '65 sarebbe però per noi prezioso riflettere soprattutto sulla presenza critica che quei compagni di allora, esigua minoranza, in una fase non certo alta del loro movimento, seppero esprimere. Essi si presero il diritto di esserci andando ad ascoltare e legittimandosi a portare in prima persona il proprio pensiero e la propria parola, esercitando il contraddittorio e dialogando alla pari pure in un consesso alto della cultura del tempo. Facendosi dunque puntuale e adeguato presidio libertario nella società.

Paolo Papini
Roma



Dibattito nazionalismi/L'eterna seduzione della parola

Al di là delle diverse interpretazioni e considerazioni, una cosa è certa: il fatto che ci ritroviamo nuovamente qui sulle pagine di “A” per continuare un dibattito avviato da Steven Forti (Catalogna/L'eterno fascino del nazionalismo, in “A” 385, dicembre 2013/gennaio 2014, quindi il nostro intervento Nazionalismi/Nazioni senza stato in “A” 390, giugno 2014, poi sullo scorso numero la replica di Steven Forti e l'intervento di Leo Melziade) che speriamo possa essere arricchito anche dalle riflessioni e dagli spunti di altri lettori e collaboratori, è già una cosa per noi preziosa.
Ma, veniamo al dunque: seguendo la modalità del nostro compagno catalano, riprendiamo alcune delle sue risposte e riflessioni scritte in risposta al nostro articolo, per chiarire meglio e ampliare quanto avevamo accennato nella nostra precedente riflessione.
1. È certo che le parole assumono sfumature e significati nel tempo e che il loro contenuto sia intrinsecamente legato alle esperienze storiche; eppure, il nostro tentativo di cercare insieme un significato risponde a qualcosa di ben più semplice della la ricerca della “chimera dell'origine”, che è capirsi sul senso che diamo alle parole affinché il nostro dialogo possa partire da un lessico quanto più possibile chiaro e condiviso. A ciò si aggiunge la necessità, da parte nostra, di ridare a certe parole un loro significato “originario”, perché spesso ideologie e propaganda ne hanno stravolto completamente il senso fino ad attribuirgliene uno totalmente differente quando non opposto. Per non andare troppo lontano, pensiamo alla parola “anarchia”: chiedete oggi ai ragazzi nelle scuole, a qualche cittadino medio o al vostro vicino di casa cosa significa anarchia. Ci saranno tante risposte ma molte purtroppo accomunate dal fatto che questa parola è stata completamente svuotata del suo significato reale e riempita di contenuti che niente hanno a che vedere con essa. Che facciamo, non cerchiamo di riappropriarci di ciò che è il senso delle parole, ancorché queste assumano sfumature diverse nel tempo? No, nessuna chimera, solo necessità di tornare all'essenza delle cose.
2. La necessità di capirsi sui termini usati è evidente nella domanda che Forti fa: “perché difendere la propria terra deve portare alla lotta per la creazione di un nuovo stato?” nel nostro intervento non compare alcun riferimento alla creazione di nuovi stati, anzi la nostra è una posizione che va proprio in direzione contraria. non pensiamo che la parola “indipendentismo” significhi automaticamente creazione di un nuovo stato (essa si riferisce piuttosto alla creazione della possibilità per un popolo di autodeterminarsi). Il fatto che questo termine, per varie ragioni storico-politiche, sia stato fatto coincidere con la nascita di uno stato rientra nella problematica di cui al punto precedente.
3. “Perché dovremmo declinare la lotta contro l'omologazione culturale e per la difesa e la riappropriazione della terra in un modo nazionalista e/o indipendentista? esistono molte esperienze di lotta di questo tipo che non abbracciano nessun tipo di lotta di liberazione nazionale anche in territori che vengono considerati nazioni senza stato”: punto strettamente collegato a quello precedente, anche in questo caso ci pare ci sia un fraintendimento di fondo. Per noi i processi di autodeterminazione ed emancipazione sociale non possono che essere strettamente correlati senza che questo significhi dare vita ad istituzioni gerarchiche. Quando utilizziamo la formula “nazioni senza stato” non intendiamo dire che vi sono nazioni (ovvero popoli che vivono in un territorio, hanno cultura, lingua, tradizioni ed sistemi economici propri) che devono dare vita ad un proprio stato ma esattamente il contrario. L'affermazione delle specificità dei popoli contribuirebbe a mostrare l'artificiosità dell'istituzione statale e dei sui confini.
Ciò che ci domandiamo è perché spesso, anche tra i nostri compagni e le nostre compagne, si storce il naso di fronte a questi temi invece di discutere su come innestarvi la necessaria carica antiautoritaria.
4. “[...] è sempre più urgente recuperare di questi tempi l'idea e la pratica internazionalista”: assolutamente concordi; il motto “agisci localmente, pensa globalmente”, forse più in voga in altri tempi, risponde per noi proprio a questa necessità. Non abbiamo mai negato l'importanza della solidarietà internazionale, anzi pensiamo che essa sia fondamentale ma ciò che ribadiamo è la necessità di non fare l'errore contrario, ossia di non pensare che chi lotta per la liberazione della propria terra non possa farlo in nome di una liberazione comune a tutti i popoli. La parola stessa che lo evoca: “inter-nazionale” cioè “tra-nazioni”, tra popoli che lottano insieme.
5. “Che si fa? si appoggia la propria borghesia nazionale o no?”: su questo pensiamo di essere stati chiari: no, la lotta di un popolo è per noi lotta popolare, proletaria e antistatalista. Nel passaggio dedicato al concetto di lotta di liberazione nazionale abbiamo posto l'accento sul fatto che questa possa manifestare due aspetti che dobbiamo ben tener presenti: uno è incarnato dalle rivendicazioni delle comunità contro lo Stato, l'altro dalle istanze della borghesia compradora che mira solo a un passaggio di consegna del potere. Nel primo caso è lotta degli sfruttati, ossia lotta nella quale per noi è importante provare a dare il nostro contributo di proposte libertarie; la seconda è parte di un processo reazionario che è necessario combattere. Ma se staremo sempre fuori da queste lotte, finché non daremo il nostro apporto a questi dibattiti, come possiamo pretendere che la borghesia o le forze reazionarie non se ne impossessino? È proprio questo il punto: non esiste un prontuario su come si sviluppano le lotte di liberazione; ognuna delle lotte in atto ha le sue connotazioni. Dobbiamo solo capire in quali contesti poter agire e quali prospettive vi siano per portare il nostro contributo. Dobbiamo guardare alle lotte di liberazione non come un unicum caratterizzato dalle istanze stataliste e borghesi, perché ciò ci porterà a rimanerne sempre al margine senza capire che è invece necessario saper leggere ed interpretare le varie sfaccettature di ogni lotta in corso.
p.s. sull'ultimo accenno di Forti agli “anarchici che abbracciarono l'interventismo durante la grande guerra” per poi finire tra le fila dei fascisti pensiamo non sia questo il piano della discussione, ma solo una deviazione dal reale senso del nostro dibattito.

Laura Gargiulo e Igor Ninu
Sardigna



Sulla naturalità dei conflitti

Sono sicura di non sbagliare nel pensare che a libertari e anarchici sia capitato, almeno una volta, di essere tacciati di sprovvedutezza o ingenuità durante una discussione o uno scambio di opinioni. “Siete degli idealisti e vivete su un altro pianeta”, “non siete abbastanza pragmatici per occuparvi di politica”. Per quanto mi riguarda sono in molti, all'interno della mia cerchia di conoscenze, a non avere, purtroppo o per fortuna, la mia visione del mondo. Dico per fortuna perché lo scambio di opinioni con chi ha un'idea radicalmente diversa dalla propria è arricchente, permette di fare esercizio di pensiero e dialettica, di cercare nuove soluzioni a problemi che magari non ci si era posti prima; dico anche purtroppo perché a volte è estenuante, soprattutto se capita di essere soli in un gruppo di persone poco propense ad ascoltare. In alcuni casi è anche un poco deludente: “come possono dei giovani della mia età pensare queste cose?”, mi chiedo.
Qualche giorno fa mi sono imbattuta in una discussione nata da una frase di Samuel P. Huntington sulla storia delle relazioni tra le grandi potenze del mondo, che si trova, secondo il politologo, ad essere caratterizzata da un incessante conflitto, alcune volte caldo, quando combattuto apertamente, altre volte freddo. Ripeto la frase nella mia testa e penso che alla fine è un verosimile riassunto delle dinamiche del mondo moderno, in cui gli stati nazionali giocano un ruolo da protagonisti, intriso di patriottismo, nazionalismo e prevaricazione del forte sul debole. Si tratta davvero di un susseguirsi di dinamiche di guerra, combattuta o minacciata. Per le risorse, per il potere.
È la natura dell'uomo, dicono i miei interlocutori. È la natura del mondo. Le relazioni tra gli stati esemplificano, in larga scala, le relazioni tra i singoli uomini e all'interno delle comunità. La storia dell'uomo si riassume nel conflitto; non esiste, né è mai esistito, un istante di tregua reale o di cooperazione, un momento in cui le comunità e gli individui si siano trovati a collaborare senza il secondo fine del controllo o della prevaricazione.
Mi fermo a pensare qualche secondo, la loro affermazione mi spaventa; la descrizione delle dinamiche delle grandi potenze, sempre in guerra fra loro, è calzante. Ma non può essere la natura degli uomini la causa di tutto. Ci penso ancora qualche istante, poi mi dico: se è vero che questo è ciò che accade ed è accaduto nella storia fino ad ora, non significa assolutamente che non esista un altro modo di intrattenere relazioni. Un modo che non implichi il conflitto e la prevaricazione. “Non esiste un'altra via. E se lo pensi sei, nel migliore delle ipotesi, un'utopista. Altrimenti una sprovveduta”. Questa è la risposta che presto ottengo.
Sono in molti ad essere convinti che i conflitti tra gli esseri umani si possano risolvere solo con la prevaricazione da parte del più forte, il quale si comporta seguendo una condotta che ritiene giusta perché giustificata dalla propria posizione di potenza. Che la forza sia data dalla sua appartenenza ad una maggioranza, dalla sua influenza economica o da un vantaggio acquisito, poco importa. Il più forte sarebbe stupido a non utilizzare la sua posizione favorevole, chiunque al suo posto lo farebbe. Perché mediare? Perché dialogare? È così che va il mondo, lo si può leggere già tra le pagine scritte da Tucidide più di 2400 anni fa.
Il forte si impone e il debole perisce, fino a quando quest'ultimo non riuscirà a collezionare abbastanza potere da riuscire a restituire il torto. “Dipende tutto dalla natura degli uomini, dalla loro caratteristica violenta, che li porta a non poter fare a meno di competere e ad imporsi. Non puoi negare che essa esista”. È proprio in questo modo, attraverso la credenza di una presunta naturalità dei comportamenti bellicosi e utilitaristici, che si giustificano le guerre, che ci si limita a parteggiare sempre per l'una o per l'altra fazione coinvolta in uno scontro e mai a condannare il modus operandi scelto, basato sulla violenza applicata o minacciata. È così che si giustifica la presenza degli stati, degli amministratori, dei funzionari, dei giudici. Per tutelarci, nella triste convinzione che il più forte tenterà in tutti i modi di assoggettarci, imporsi e opprimerci; perché gli esseri umani concorrono tra loro, ognuno con il fine di ottenere il massimo per sé, senza curarsi troppo del prossimo. “È così” mi dicono “che va il mondo.”
Non si può negare che la violenza sia tra le pulsioni umane, ma utilizzare questa caratteristica per giustificare le storture del mondo significa asserire che la violenza sia una “irresistibile forza” dalla quale l'uomo non ha modo di sottrarsi; eppure gli umani sono “esseri ragionevoli” e proprio per questo motivo è presente in loro la facoltà di decidere in che modo affrontare gli eventi, in quale maniera reagire alle situazioni. Pensare questo non significa essere buonisti, è biologia.
Mi soffermo sull'idea che sia l'educazione la causa di tutto, della credenza che non esista rimedio ai mali del mondo; siamo educati fin da bambini alla competizione e al conflitto. Abbiamo interiorizzato queste modalità di comportamento, le idee sono penetrate in noi talmente a fondo che la cooperazione, il dialogo e la solidarietà tra gli esseri umani non sono nemmeno più contemplati tra le modalità di risoluzione delle problematiche. Ma non solo, vengono anche accusate di non essere applicabili perché contrarie alla natura umana. Crediamo così di aver bisogno di qualcuno che amministri i nostri affari, che interceda per noi, che risolva le nostre questioni e che faccia fronte ai nostri bisogni.
Cerco di spiegare che, a mio avviso, questo tipo di idea sull'ineluttabilità dei conflitti sia stata creata da chiunque fosse interessato ad impadronirsi del potere, assoggettando il resto della collettività. Solo creando una società formata da individui incapaci di accordarsi e di dialogare è possibile proporsi come intermediari, e chiedere la delega di qualunque potere e libertà in cambio di protezione. “Da soli non troverete mai un accordo, né riuscirete ad organizzarvi”, ci dicono.
Penso ai miei interlocutori, tutti dei giovani intorno ai venticinque anni; loro non sono certo tra coloro che hanno deliberatamente tessuto questo piano con il filo della paura, della prevaricazione, dell'odio, al fine di rendere utopica l'idea di una possibile convivenza pacifica, basata su relazioni in cui nessuno vince o si impone, ma sulla condivisione. I ragazzi con cui sto dialogando non hanno direttamente a che fare con questo piano; loro sono davvero convinti che non esista un altro modo. “E poi l'illusa sarei io”, ribatto.
Mi sforzo allora di spiegare che il loro pensiero di stampo utilitaristico e conflittuale, che credono di adoperare come semplice conseguenza della natura delle cose, degli uomini e del mondo, è di fatto la causa prima di tutte le storture, degli abusi e delle prevaricazioni a cui assistiamo. Il mondo funziona in molti casi seguendo le logiche di dominio da loro descritte, ma ciò di cui non sembrano rendersi conto è che loro stessi ne sono gli artefici. Coinvolti in una perpetrazione dell'esistente che pensano essere naturale. “Il vostro atteggiamento non è la conseguenza, la risposta alle circostanze immutabili, ma la causa stessa di tutto. Pensate di difendervi dalle brutture del mondo, ma non vi rendete conto di crearle voi stessi. Forse se riusciste a liberarvi della convinzione di una presunta naturalità dell'ordine delle cose, allora potremmo finalmente arrivare ad intravedere dei cambiamenti”.
I miei interlocutori non sono convinti di quel che sto dicendo. Sostenere che una soluzione ai complicati mali del mondo possa cominciare con un cambiamento del pensiero sull'ordine delle cose non ha nessun senso. “Le tue idee sono buone”, “sono belle ed apprezzabili, ma inconcludenti e astratte. Magari fosse tutto così semplice! Magari si potesse cambiare il mondo partendo dal pensiero!”. Immersi come siamo in una società iper-complessa e complicata, ci riesce assai difficile immaginare che le soluzioni, talvolta, possano rivelarsi meno ardue del previsto e che non debbano per forza comprendere macchinosi giochi geopolitici, segretissime manovre tra i 'grandi' della Terra o avvenire tramite un obbligo imposto dai vertici della società.

Carlotta Pedrazzini
Gambolò (Pv)



Un popolo, una lotta

Il 26 settembre, nell'aula bunker del carcere delle Vallette di Torino, uno degli imputati nel “processone” per i fatti in Val Susa del 27 giugno e del 3 luglio 2011, ha letto questa sua dichiarazione spontanea. Per ulteriori informazioni ed aggiornamenti sul processo, www.tgmaddalena.it e www.tgvallesusa.it

Siamo giunti alla fine di questo dibattimento. A voi non resta che giudicarci secondo le norme del codice penale.
Nonostante abbiano un soggetto, il legislatore, tanto impersonale quanto irraggiungibile – quasi un dio infallibile dispensatore di giustizia –, in realtà i codici non sono altro che una banale creazione umana. Non solo la loro compilazione, ma anche la loro interpretazione e applicazione non sono altro che semplici azioni umane.
La giustizia, quella vera, si sottrae alla norma e non potrà mai essere codificata. Appartiene alla sfera dei valori e solo il giudizio storico – una volta che le passioni del presente saranno sopite – decreterà, attraverso il comune senso civile, se la vostra sentenza sarà stata o meno giusta.
In quest'aula sono state delineate due visioni diametralmente opposte dei medesimi eventi.
Una – quella della procura – che vede centinaia di agenti violentemente aggrediti e feriti nell'adempimento del proprio dovere. L'altra – quella che noi e le nostre difese abbiamo esposto – racconta di un movimento popolare pacifico aggredito brutalmente senza che avesse messo in atto nemmeno il semplice reato di disobbedienza civile. Sì, perché noi siamo stati violentemente attaccati mentre eravamo pacificamente attestati in un luogo in cui non solo avevamo il diritto di rimanere ma di cui avevamo persino pagato il suolo pubblico. Un'area che era al di fuori – e lo rimane tuttora nonostante le recinzioni illegittime che ne inibiscono l'accesso – dall'area destinata al cantiere.
Non solo quindi il 27 giugno alla Maddalena le forze dell'ordine effettuarono un'azione illegale, da tutti noi percepita come tale, ma la fecero con altissimo disprezzo per la salute di chi si trovava di fronte.
Io non temo di essere retorico affermando che quel giorno lo Stato italiano intraprese una vera e propria guerra chimica ad alta intensità contro i propri cittadini.
In questi ultimi anni si è parlato molto di CS, il gas espulso dai lacrimogeni di cui è vietato l'uso bellico dalle convenzioni internazionali. Proibito nella guerra fra stati ma ammesso nella guerra interna contro i propri cittadini che dissentono. In Italia il primo uso massiccio di questo gas si ebbe nel 2001 a Genova contro i manifestanti che contestavano il G8. E tutti sanno della riprovazione a livello internazionale di cui fu oggetto la polizia italiana per come fu gestito in quei giorni l'ordine pubblico. Numerose testimonianze già allora descrissero quanto questo gas fosse micidiale, causando svenimenti nausea vomito problemi respiratori infiammazioni oculari irritazioni cutanee. Gli studi medici ci dicono che una forte e prolungata esposizione potrebbe creare danni permanenti a occhi polmoni stomaco fegato cuore reni e persino provocare aborti. E non si conoscono ancora le conseguenze nel lungo periodo, conseguenze cui patiranno non solo coloro che ne sono stati colpiti ma anche agli agenti che ne hanno fatto largo uso. Non a noi, quindi, dovrebbero rivolgersi i loro sindacati. Come ha insegnato la vicenda delle bombe all'uranio impoverito, gli apparati statali si disinteressano non solo della salute dei propri cittadini ma persino di quella dei loro servi.
Ebbene, io ho partecipato alle giornate genovesi e vi posso dire in tutta tranquillità che – sotto questo profilo, confrontate alle giornate della Maddalena – furono meno traumatiche. In Val Susa – nelle giornate del 27 giugno e del 3 luglio 2011 – la quantità e la concentrazione di CS fu enormemente più alta. Fu decisamente la più massiccia da quando questo gas è in dotazione alle forze di polizia in Italia.
Chi diede l'ordine di accerchiare la libera repubblica della Maddalena e, come in una tonnara, gasare tutti i presenti, precludendo ogni via di fuga e gasandoli anche tra i boschi dove avevano cercato scampo e riparo? I dirigenti sul posto, dai nomi secretati in questo processo? Il questore? Il prefetto? Il ministro degli interni? Il presidente del consiglio?

La nostra lotta è un dato di fatto
Contro di noi, in questo procedimento, si sono costituiti come parti civili reclamando il risarcimento dei danni subiti, ben tre ministeri. Ebbene, io dichiaro apertamente che non sono loro le parti lese, anzi dovrebbero rispondere alla comunità per il grave attentato commesso alla salute di tutti i cittadini presenti a Chiomonte in quelle due giornate, per averli proditoriamente sottoposti per ore all'esposizione di gas venefici. Ora, pare che la legislazione italiana consideri il CS arma non-letale con effetti reversibili e ne consenta l'uso da parte della forza pubblica. Ma l'uso di uno strumento di dissuasione coercitivo dovrebbe essere sempre effettuato con moderazione e con dei limiti ben precisi. Come una mano può non essere letale in un semplice schiaffo, la stessa mano può diventare letale se strozza alla gola. E' della cronaca di questo periodo come a Ferrara l'uso spropositato di uno strumento ordinario in dotazione agli agenti di pubblica sicurezza, il manganello, abbia condotto a morte il giovane Federico Aldovrandi o come un altro strumento frequentemente usato nelle strutture psichiatriche, il letto di contenzione, abbia barbaramente assassinato il maestro salernitano Francesco Mastrogiovanni.
Questo uso incontrollato esagerato e spropositato di CS è all'origine della nostra reazione. Era quello che serviva per trasformare con un colpo di bacchetta magica un movimento popolare pacifico ventennale in un'accolita di violenti.
Perché, solo dopo il 27 giugno e il 3 luglio 2011 – improvvisamente – il movimento NO TAV diventa un problema di ordine pubblico, tanto da originare summit governativi, relazioni di servizi segreti e dichiarazioni deliranti di ministri e uomini politici? Solo per giustificare il conseguente accanimento giudiziario? Per arrivare ad accuse di terrorismo per il lancio di petardi o a condanne di anni di reclusione per la sola detenzione e trasporto di artifici pirotecnici?
Chi ha decretato questo inasprimento di livello dello scontro? Il movimento NO TAV o lo Stato italiano?
La risposta è di una banalità sconcertante. Non potendo controbattere pubblicamente con valide argomentazioni le ragioni del movimento, lo si è volutamente criminalizzato. Non potendo convincere si è scelto di agire con la forza, per schiacciare il dissenso manu militari. Questa è la moderna democrazia che ci governa, una vera e propria democrazia totalitaria.
Noi in quelle due giornate fummo presi alla gola, aggrediti in maniera letale e ci siamo difesi.
Non lo neghiamo e non abbiamo paura di rivendicarlo. Persino il codice riconosce la legittima difesa. Non credo abbia importanza – almeno sul principio – se chi offende veste una divisa e chi si difende no. Perché quel giorno, è evidente, la legalità non stava dalla parte di chi la difendeva.
E in cosa è consistita praticamente la nostra difesa di fronte ad un'aggressione chimica di tale portata? Nel gesto più semplice e naturale, quello di tirare dei sassi.
Quando andavo alle elementari ricordo che nel libro di testo vi era l'illustrazione di un ragazzino che scagliava un sasso contro dei soldati austriaci. E la didascalia ne parlava come di un eroe, autore di un gesto coraggioso che aveva innescato la sollevazione di tutta la città di Genova contro l'invasore. Era il Balilla. Solo più avanti scoprii che la sua figura era stata successivamente strumentalizzata in senso nazionalista dal fascismo. E ancora più avanti scoprii che molti altri sassi erano stati lanciati dalle folle in tumulto, come fece il popolo di Milano per chiedere il pane nel 1898, richiesta cui lo Stato sabaudo rispose con il cannone. Nella storia moderna i movimenti popolari hanno sempre usato questa forma di difesa, semplice spontanea diretta ed elementare.
Io sono fermamente convinto che siano stati proprio quei sassi – impugnati, in svariate lotte, dalle generazioni ribelli che ci hanno preceduto – a permettere alla società civile di progredire, a permettere l'affermazione e il riconoscimento di tutti quei diritti sociali e quelle libertà civili che ormai sono patrimonio comune acquisito. Diritti per la cui difesa e ampliamento dovranno essere gettati ancora tantissimi sassi.
Detto questo, mi auguro che ora la procura torinese non sequestri, per istigazione alla violenza, tutti i libri in cui compare l'immagine del ragazzino genovese. Secondo il governo e le sue fonti informative di sicurezza il nostro movimento sarebbe ormai ostaggio di frange violente e la Val Susa sarebbe diventata una palestra per i violenti di tutta Europa. Come a dire che coloro che hanno tirato dei sassi, tagliato delle reti o gettato dei petardi nel cantiere sono altra cosa rispetto a coloro che per anni hanno animato il movimento NO TAV. E oltre a essere diversi, la maggior parte non sarebbe nemmeno composta da valsusini.
Nulla di più palesemente falso, perché in questa lotta tutti contribuiscono con le proprie capacità e possibilità. Non tutte le persone possono avere la prestanza fisica per arrampicarsi su per i sentieri, ma anche a chi resta indietro il cuore non cessa mai di battere all'unisono con tutti quelli che stanno tagliando le reti e sabotando i lavori. E che il movimento abbia raccolto con simpatia la solidarietà di numerose persone che, anche con sacrificio personale, sono accorse in Val Susa a sostenere la nostra lotta è un dato di fatto. Se il 27 luglio – a difendere la Maddalena – eravamo per lo più piemontesi, il 3 luglio sono giunti da tutta la penisola per protestare contro l'aggressione subita, che da tutti era considerata un atto di forza ingiustificato e violento da parte dello Stato italiano. Se non vi fosse stato questo alto grado di coscienza collettiva non si sarebbe certo radunata tanta gente. La parola d'ordine “Assediamo il cantiere” e l'obiettivo di quel giorno, l'abbattimento delle recinzioni, erano stati ampiamente pubblicizzati e condivisi da tutti. Per questo le reti furono attaccate in punti diversi, non solo dalla strada ma anche dai boschi, per questo finita la manifestazione, la gente non se ne era andata ma era rimasta sul posto a incitare coloro che le buttavano giù.
E le forze dell'ordine ancora una volta sono ricorse alla guerra chimica, sparando migliaia di candelotti lacrimogeni, non solo su chi danneggiava le reti ma anche, proditoriamente, sugli inermi. E ancora una volta ci siamo difesi.
Fra noi non ci sono differenze. Noi siamo un'unica comunità resistente. Si può resistere lanciando un sasso, sabotando le recinzioni e le attrezzature del cantiere, occupando un terreno, effettuando un blocco stradale, costruendo un presidio, intraprendendo un'azione legale, organizzando un dibattito o un volantinaggio e persino creando un gruppo di preghiera. E poi marciando tutti insieme.
Il nostro è un movimento che, per condivisione di idee e unità di popolo, è stato giustamente paragonato – anche se in altro contesto storico e con altri mezzi – a quello della resistenza al nazifascismo. Sì, perché in Val Susa lo Stato italiano sta pesantemente militarizzando il territorio, continuando a inviare truppe che sono percepite dalla popolazione alla stregua di un esercito invasore.
Più saremo attaccati, più ci mostreremo uniti. Un popolo, una lotta.
Per portare un esempio personale, io sono stato obiettore di coscienza e resto tuttora convinto antimilitarista. Mai avrei immaginato nella mia esistenza di marciare in corteo assieme agli alpini NO TAV e di ritrovarmi dopo a bere e a scherzare con loro. Questa è la magia del nostro movimento. Un movimento di popolo che supera ogni divergenza, rispetta ogni differenza, e si stringe come un pugno solidale abbracciando tutti quelli vi si ritrovano. Questo è il motivo per cui nessuno riesce a dividerci.
In questo processo si è parlato soprattutto di scontri, di agenti feriti, di manifestanti assetati di sangue. Chiunque abbia ascoltato le testimonianze degli agenti che hanno deposto si è reso conto di come molti di loro si siano accidentati da soli, per imperizia della montagna, distorcendosi cadendo o addirittura respirando il loro stesso gas, che i sassi dei manifestanti ben poco potevano contro caschi scudi e le robuste protezioni delle divise, che la maggior parte ha continuato il servizio fino alla fine per poi marcare visita e accorgersi delle “ferite” solo in serata. Quasi tutti i referti medici riportano prognosi brevi poi gonfiate a posteriori con presunte complicazioni. Lo stesso carabiniere, l'unico che il 3 luglio ebbe un contatto diretto con i manifestanti, che ha dichiarato in quest'aula di essere stato massacrato di botte, ne è uscito con una prognosi esigua di 10 giorni, segno evidente che le percosse ricevute erano di lieve entità. Non così è accaduto a Fabiano Di Bernardino, NO TAV arrestato nella stessa giornata e poi pestato brutalmente all'interno del cantiere, riportando ulna radio e naso fratturati. Due pesi e due misure della stessa procura torinese, noi sul banco degli imputati, archiviazione per i massacratori in divisa.
Noi non siamo fautori dello scontro a tutti i costi. Lo abbiamo accettato per legittima difesa ma non lo cerchiamo. Quello che ci interessa, ci anima e ci appassiona sono i momenti costruttivi di crescita collettiva della nostra lotta. Quei momenti in cui la storia si interrompe – anche se per un tempo brevissimo – e si può pensare e viversi in un mondo diverso, in cui condividere valori e speranze. E uno di questi momenti è stato la libera repubblica della Maddalena, che è stata una vera palestra, non di violenza ma di democrazia. Non della democrazia rappresentativa in cui si delega il potere ad altri che poi ne abuseranno a piacimento, ma della democrazia reale, quella in cui tutto un popolo si confronta, discute, decide e agisce in prima persona.

Un nuovo modello di democrazia
Noi siamo un movimento che si oppone alla costruzione di una linea ferroviaria ad alta velocità che consideriamo inutile costosa e nociva. Nociva per l'ambiente, che verrà devastato in maniera irreversibile, e per la salute degli abitanti della Val Susa e di Torino, che saranno esposti per anni alla contaminazione di polveri d'amianto e persino radioattive. Inutile perché tutte le più elementari previsioni di traffico lo prospettano ampiamente. Costosa perché così vuole il sistema clientelare dei partiti che è alla base ogni grande opera nel nostro paese. Opere progettate per impinguare le casse di vari gruppi finanziari, di potenti lobbies di costruttori, di partiti politici e associazioni mafiose. La corruzione eletta a sistema. Costoro non hanno alcuna remora, per i propri miserabili tornaconti di bottega, a sottrarre sempre più risorse alla scuola, alla sanità, alla cultura, alle pensioni, alla salvaguardia del territorio e ai servizi per i cittadini.
Di tutto questo – cioè delle ragioni e delle motivazioni degli imputati – in questo processo non se ne è voluto parlare. Come se le nostre ragioni – che dei tecnici competenti avrebbero ampiamente illustrato – non fossero attinenti al processo. E nemmeno di 'ndrangheta si è voluto parlare. Nonostante i giornali riferissero dei rapporti tra questa organizzazione mafiosa e le ditte appaltatrici del cantiere TAV di Chiomonte, proprio di quell'Italcoge che ha la faccia tosta di costituirsi parte civile contro di noi.
Mentre noi venivamo denunciati, arrestati, vessati da misure cautelari sproporzionate, la mafia – dietro i reticolati – sotto la protezione delle forze dell'ordine e dell'esercito italiano, in tutta tranquillità faceva i suoi affari asfaltando le strade all'interno del cantiere.
Gli svariati tentativi dei nostri difensori di introdurre questi elementi all'interno del processo sono sempre stati rigettati dal tribunale come non pertinenti. Si è deciso di fare in fretta e di chiudere gli occhi.
Solo dibattendo su queste problematiche il tribunale avrebbe potuto avere un quadro esaustivo della posta in gioco, per entrambe le parti. Invece abbiamo assistito a un processo contro più di 50 oppositori del TAV in cui non si è discusso né del TAV né delle infiltrazioni mafiose che lo accompagnano. Qui si è preferito dibattere solo sulle distorsioni e sui lividi riportati dagli agenti per poi presentare il conto in pene detentive e pecuniarie.
Io credo che sia impossibile giudicare qualsiasi fatto se lo si estrapola dal contesto in cui è maturato. La stessa azione che in una data circostanza può essere considerata riprovevole, all'inverso, può presentarsi virtuosa in altro contesto. Comunque le nostre ragioni – anche se non in quest'aula – sono ormai all'attenzione di tutto il paese. Una sempre più ampia fascia di persone sta cominciando a comprendere i meccanismi della truffa ad alta velocità della linea ferroviaria Torino-Lione. L'opposizione sta lentamente montando in tutta la penisola, e anche in Francia.
Per noi lottare contro questa devastazione che lo Stato vuole imporre alla Val Susa è anche una questione morale.
Noi abbiamo non solo il diritto ma anche il dovere di opporci.
Non riconosciamo la regola che ogni decisione presa dalla maggioranza degli eletti sia indiscutibile e irrevocabile. Pensiamo che i cittadini debbano intervenire direttamente su ogni problema che li riguarda.
Abbiamo indicato un nuovo modello di democrazia, in cui le minoranze hanno pari dignità delle maggioranze e non accettiamo diktat da parte dello Stato. E non ci fermeremo, nonostante la procura torinese continui a depositare decine di denunce nei nostri confronti, ipotizzando reati spropositati persino per episodi penalmente irrilevanti. Giustizia a tempo pieno e ad alta velocità solo contro il movimento NO TAV, che nelle aule di tribunale – a dispetto dei tempi lunghi – gode di una specifica corsia preferenziale.
Non abbiamo paura.
Noi, a differenza dei sostenitori del TAV, non abbiamo interessi particolari da difendere, non siamo qui seduti sul banco degli accusati per esserci illecitamente appropriati di qualcosa per mero tornaconto personale. Quello che ci muove è solo un'idea di giustizia. Noi siamo animati da alti valori etici e sociali. Coloro che in una determinata epoca storica sono ritenuti pericolosi delinquenti e come tali sono incriminati e sanzionati dalla legge possono diventare gli eroi di domani. Molti sovversivi che vennero condannati e patirono lunghe pene detentive durante gli anni bui del fascismo poi furono considerati i padri della repubblica, tanto che uno di loro ne è diventato persino il presidente. Lo stesso è accaduto a Nelson Mandela.
Il movimento NO TAV – sia nel caso di vittoria, sia di sconfitta – sarà comunque riconosciuto dalle generazioni future come un modello eroico di resistenza.
Per quanto ci riguarda, attendiamo il vostro verdetto senza timore, come sempre, con serenità e determinazione, con la coscienza e l'orgoglio di essere nel giusto. Perché le ragioni sono tutte dalla nostra parte.
Il movimento NO TAV sta scrivendo la storia di questo paese. E la storia vi giudicherà.

Tobia Imperato




Sardegna/Un consiglio di De André a Dio

Lodine è un piccolo paese della Barbagia, di 400 abitanti e immerso in un territorio ricco di siti archeologici pre-nuragici e nuragici, non lontano da Mamoiada, Orgosolo, Nuoro, Gavoi.
Mi ci hanno condotto alcune amiche e amici di Nuoro e dintorni.
È curioso come da qualche tempo, tutti gli abitanti di Lodine facciano disegnare sulle serrande metalliche dei propri garage, volti noti della musica, della politica, della vita civile.
Fa eccezione questa foto che allego dove Fabrizio De André e la sua celebre citazione sulla vita in Sardegna non stanno su una delle tante serrande, ma nel muro di un bar con sovrastante abitazione.
Le amiche e gli amici barbaricini, chiacchierando sulle curiosità della zona, mi hanno promesso che, essendo io un anarchico, un giorno mi avrebbero portato a Ovodda, il paese degli anarchici, talmente anarchici che il carnevale lo festeggiano il mercoledì delle ceneri.
Saludos.

Nicola Pisu
Serrenti (Vs)




I nostri fondi neri

Sottoscrizioni. Federico Andreini (Rimini) 10,00; Remo Ritucci (San Giovanni in Persiceto – Bo) 20,00; Nazario Pignotti (Grottammare – Ap) 10,00; Ettore Filippi (Empoli – Fi) 10,00; Gianandrea Ferrari (Reggio Emilia) 10,00; Arturo Schwarz (Milano) 100,00; un compagno (Reggio Emilia) 200,00; Ivana Antonica (Frasso Telesino – Bn) per versione PDF della rivista, 4,00; Cristiano Draghi (Firenze) ricordando suo padre Gianfranco, 100,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia Pastorello e Alfonso Failla, 500,00; Gianfilippo Gallo (Roma) 10,00; Ugo Fortini (Signa – Fi) ricordando Milena e Gasperina, 30,00; Riccardo D'Agostino (Torino) 10,00; Libreria San Benedetto (Genova) 14,20; Igor Cardella (Palermo) 20,00. Totale € 1.048,20.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di euro 100,00). Giuseppe Anello (Roma); Claudio Paderni (Bornato – Bs); Remy Perrot (Parigi - Francia). Totale 300,00.

Nell'elenco dei Fondi neri, pubblicato sullo scorso numero, abbiamo omesso di specificare che l'abbonamento sostenitore di Marco Galliari (Milano) era “dedicato” al ricordo di Franco Pasello. Ovviamo ora, unendoci a Marco nel ricordo di un caro amico e compagno, obiettore totale, antimilitarista, amico del popolo Rom, orgogliosamente panettiere, in assoluto il massimo diffusore (per oltre 30 anni) della nostra rivista nel corso della sua storia. Ciao Franco, ci manchi.