La bella storia
di un non-complice
Momenti
decisivi della vita di Giuseppe Gozzini, primo obiettore di
coscienza cattolico, sono racchiusi nei suoi scritti autobiografici
scelti anche grazie alle ricerche della figlia Letizia. L'amico
Piero Scaramucci, curatore della raccolta, ricorda il primo
incontro con Beppe alle lezioni di russo al Circolo Filologico
di Milano, immersi in nottate tra discussioni di politica, etica,
futuro, amicizia, sfruttamento, ribellione, e pessima grappa
(Giuseppe Gozzini, a cura di Piero Scaramucci e Letizia Gozzini,
Non complice. Storia di un obiettore, Edizioni dell'Asino,
Bologna, 2014, pp. 252, € 15,00).
Figlio di un operaio saldatore della Breda e poi calzolaio,
nasce nel 1936 a Cinisello Balsamo. Nell'hinterland milanese
al tempo molto proletario, il bravo scolaretto Giuseppe viene
mandato a studiare prima in un collegio e poi dai Salesiani
per diventare prete. Ma presto passerà al liceo “Parini”
di Milano, poi conseguirà una laurea in giurisprudenza.
Risale agli anni universitari il suo cammino di formazione.
La conoscenza dei “preti bastonati”, letture, conferenze
e incontri soprattutto con due testimoni e maestri di pace,
don Primo Mazzolari e il suo libro Tu non uccidere (1955),
e Jean Goss, operaio cattolico dall'irruenza profetica capace
di scuotere le coscienze dei padri conciliari in Vaticano come
della gente ammassata sulla Piazza Rossa.
Nella seconda metà degli anni Cinquanta è già
orientato verso la disobbedienza civile come forma di lotta
nonviolenta vicino ai gruppi pacifisti formati da protestanti,
quaccheri, tolstojani, anarchici. Ma di cattolici, nemmeno l'ombra.
Fondamentali i contatti con cicli annuali di conferenze organizzati
dalla “Corsia dei servi” per quello sguardo critico
sempre aperto sul mondo. Figure che avevano anticipato, promosso
e praticato da tempo le tematiche sollevate dal Concilio. Don
Milani, i “preti operai”, Primo Mazzolari che si
firmava senza il don, l'“attore” Turoldo che -sempre
secondo Gozzini- non può essere compreso senza il suo
suggeritore padre Camillo De Piaz, il prete partigiano, dall'”originalità
laica” e lo stile di vita sempre alla ricerca di un equilibrio
tra Chiesa e mondo, tra fede e politica in un rapporto di reciproca
fecondità.
Chiamato alle armi nel novembre del '62, al Car di Pistoia rifiuterà
di indossare la divisa e scatterà la condanna in base
all' art. 137 del Codice penale militare: sei mesi senza condizionale
per disobbedienza grave. Sarà internato nel carcere militare
giudiziario di Fortezza da Basso di Firenze, dove in passato
erano stati rinchiusi anche Cafiero e altri anarchici. Tra i
presenti alle udienze, in qualità di testimoni, Aldo
Capitini, precursore della nonviolenza in Italia, e il sacerdote
salesiano Germano Proverbio, con il quale Beppe aveva dato vita
a un gruppo di studio e di preghiera anticipando le “comunità
di base”. Aule affollate di amici e simpatizzanti, come
non era mai successo.
Il caso del primo obiettore di coscienza cattolico avrà
una forte risonanza. Dibattiti, manifestazioni, veglie e digiuni
in tutta Italia. Per le strade, in piazza e nei bar di Firenze
decisivo l'intervento di padre Ernesto Balducci e don Lorenzo
Milani che presero pubblica posizione per il riconoscimento
giuridico dell'obiezione di coscienza. Il prete di Barbiana,
partendo dal “caso Gozzini”, oserà sollecitare
la coscienza dei cappellani militari, la loro funzione e il
loro ruolo.
Intanto, per motivi religiosi, morali o politico-filosofici,
cattolici e anarchici finivano in carcere. E anche dopo il '72,
anno in cui l'obiezione di coscienza viene istituzionalizzata,
due “non sottomessi” anarchici di Milano, Dario
Sabbadini e Dino Taddei, obiettori di coscienza totali, rifiuteranno
anche il servizio civile ritenendolo una scelta di comodo, nell'
imbarazzo dei giudici che non sapevano in base a quale articolo
condannarli.
Dopo il carcere, nel '69 Gozzini accetterà di collaborare
all'Alfa come pubblicista. Una scelta molto dibattuta, sofferta,
insieme casuale e necessaria, quella del marchettaro -come egli
stesso la definisce- . Tuttavia per lui non sarà una
professione, ma un tirare avanti la carretta per sbarcare il
lunario: “La mia vita era altrove, fuori dal palazzo e
dai compromessi con il potere”.
Nelle pagine iniziali, Goffredo Fofi parla dell'amico Beppe
come di un “militante di base”, un “persuaso”
che ha cercato di stare nella Storia rifiutando la morale del
più forte, cosciente che una rivoluzione sociale implica
anche una rivoluzione personale”. Un'amicizia che risale
al periodo dei “Quaderni rossi” di Raniero Panzieri
e dei “Quaderni Piacentini”, al legame con Giorgio
Bellocchio e Grazia Cherchi.
Obiettore e contestatore, militante, pacifista, cristiano, cattolico,
comunista. Sempre contrario a farsi intrappolare in un'etichetta,
con un gruppo di studenti darà vita alla rivista “Collegamenti”,
a partire dalla fabbrica, per contatti con Milano, l'Italia,
il mondo. Si esporrà personalmente respingendo per primo,
con una lettera che fece scalpore, la falsa versione del suicidio
dell'anarchico Giuseppe Pinelli.
Nel testo inedito dei suoi appunti per il Corso di formazione
dei primi volontari in Servizio civile internazionale, 11-12-13
ottobre 2004, mette in guardia dal rischio possibile, in
seguito all'abolizione del sevizio militare obbligatorio e l'istituzione
del servizio civile su base volontaria, che quest'ultimo finisca
per svolgere una funzione suppletiva dell'assistenza pubblica
conquistata “come diritto” in oltre un secolo di
lotte. Invita ad assumere posizioni chiare, per scegliere da
che parte stare: fare la ciliegina umanitaria, elargire tocchi
di bontà, rappresentare un'appendice altruistica lasciando
che prenda piede la militarizzazione, oppure aprire gli occhi
per vedere che viviamo in un Paese militarmente occupato.
Gozzini parla direttamente ai giovani -e sarebbe bene in qualche
modo continuasse parlare loro- con passione, entusiasmo e convinzione
profonda: “Bisogna riprendere in mano il vocabolario”.
Fare i conti con il linguaggio, ri-scoprire il significato,
il peso nascosto, il potere delle parole di svelare o mascherare
la realtà. Quale insidia è nascosta negli “eserciti
di pace”? E il “disastro umanitario” è
una “catastrofe filantropica”? Una “crisi
benefattrice”? Una “epidemia caritatevole”?
Ossimori e assurdità!
È il primo obiettore che parla agli ultimi obiettori.
Fino alla fine -nel 2010 solo la malattia riuscirà a
stroncarlo- il suo è un invito a rinnovare rendendola
ancora attuale l'obiezione di coscienza: guardarsi intorno,
informarsi e capire quando il “rumore di fondo”
ottunde la realtà dell'associazionismo pacifista, per
appiattirla, vanificarla dirottando l'attenzione su distrattori
omologanti. Opporsi, rifiutare di essere complici di una situazione
ingiusta è già rivoluzione, principio di un futuro
diverso e possibile.
Accogliere il messaggio di Giuseppe Gozzini significa trasferire
il testimone. Il progetto di un pacifismo radicale di respiro
internazionale per una società nuova passa ai giovani,
semi preziosi della rivoluzione delle coscienze, contagio fecondo
indispensabile per uno spirito critico capace di continuare
a vedere l'utopia.
Claudia Piccinelli
Un cambiamento
diverso
È
del novembre 2013 l'uscita di Monasteri del terzo millennio
(Lindau, Torino, 2013, pp.112, € 13,00), piccolo libro
in quattro capitoli di Maurizio Pallante, autore assai conosciuto
in quanto fondatore del Movimento per la decrescita felice.
Mi attraeva del titolo la connessione tra passato e futuro,
attraverso l'attualizzazione del concetto di monastero che,
da luogo religioso per antonomasia, diviene spazio per la ricerca,
la costruzione di proposte pratiche di buona vita e l'insegnamento.
Dalle informazioni che avevo riguardo la nozione di decrescita,
mi aspettavo un testo interessante ma pragmatico, invece il
pragmatismo, se così si vuol dire, riguarda soprattutto
l'ultimo capitolo - dove viene anche illustrata un'esperienza
in atto e in via di sviluppo - mentre il resto del libro è
molto più ricco e ci parla, in maniera chiara e profonda,
della necessità impellente di un cambiamento grande,
dove la parte operativa (riduzione dei consumi, autoproduzione,
risparmio energetico...) è solo la logica conseguenza
di un ribaltamento radicale del nostro modo di pensare e immaginare
il mondo, la sua pratica necessità.
“Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per
tagliare legna, dividere i compiti e impartire gli ordini, ma
insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito”
(Antoine de Saint-Exupery).
Partendo da questa bella metafora nel testo si sviluppa un ampio
discorso sul cambiamento dove la colonizzazione del nostro immaginario
da parte dell'ideale-denaro - proposto sotto varie forma da
almeno mezzo secolo - è vista come ciò che ha
permesso che si arrivasse al punto in cui siamo.
Questa narrazione del mondo – identificazione del ben-essere
col tanto-avere, della qualità con la quantità,
della ricchezza col denaro, del lavoro con l'occupazione –
è stata così totalizzante che chi non si è
uniformato ai valori che promuoveva è stato considerato
un disadattato, destinato a rimanere ai margini della storia.
L'autore sostiene che tutta una società (intellettuali,
artisti e Chiesa inclusi) dal secondo dopoguerra in avanti remò
in questa univoca direzione (boom economico degli anni '60);
per portare il paese fuori da un passato di miseria, si diceva
allora.
“Se nell'immaginario collettivo – sottolinea Pallante
– non si fosse incistata l'idea che il lavoro consista
prevalentemente in attività urbane, nell'edilizia, nelle
fabbriche, negli uffici e nei servizi, in cambio di un reddito
monetario che consente di acquistare nei negozi tutto il necessario
per vivere. Se non si fosse generalizzata la convinzione che
le città costituiscano le punte più avanzate della
modernità e del progresso [...] il miracolo economico
si sarebbe potuto realizzare se non fosse aumentato il numero
dei produttori e consumatori di merci? Sarebbe stato considerato
un miglioramento della qualità della vita il trasferimento
in una informe e deforme periferia urbana se non si fosse persa
la capacità di distinguere il bello dal brutto? [...]
Si sarebbe considerato un progresso [...] la cannibalizzazione
dell'organico da parte dell'inorganico?”
Ma, ci suggerisce ancora l'autore, la consapevolezza dei limiti
delle società pre-industriali non comporta l'accettazione
acritica del modello economico e produttivo che le ha soppiantate.
Né la critica dei disastri ambientali e umani causati
dallo sviluppo industriale comporta un rimpianto acritico delle
precedenti società contadine.
Non c'è solo o uno o l'altro, esisteva ed esiste anche
una terza possibilità, un cambiamento diverso da quello
che c'è stato. Una persona come me, nata a metà
degli anni '50 a Milano, ha visto bene questa trasformazione
dell'immaginario collettivo; basta ricordare come si è
evoluta l'immagine televisiva, dalle réclame dei
primi anni '60 alla pubblicità dei nostri giorni; ci
sono tutti i passaggi, tutte le evoluzioni del desiderio, le
aspirazioni sociali e i modi d'essere che, volenti o nolenti,
sono entrati a far parte della costituzione di molti tra noi.
Vero. Ma non siamo solo quello. Ognuno di noi è un insieme
molto complesso, costituito da molteplici piani che si intersecano
in maniera unitaria e, per soddisfare la complessità
che siamo, abbiamo bisogno di una molteplicità di cose:
la “ricchezza” non può essere ridotta al
piatto concetto di denaro, unica risposta attuale all'umano
bisogno di senso e felicità.
L'alternativa allora viene fatta emergere dalle mura dei monasteri
del primo e del secondo millennio come luoghi che offrono utili
indicazioni di vita comunitaria che possono essere reinterpretate
e adeguate alle attuali esigenze per costruire nicchie di autonomia.
Nel testo si propone la riflessione su tre punti: il rapporto
dei monaci col lavoro e col territorio; il rapporto con gli
altri e quindi l'economia e la socialità; il rapporto
con se stessi e il senso della vita. Da questa osservazione
si ricavano concetti quali quello di autosufficienza (anche
parziale), di scambio, di investimento culturale, di creazione
artistica, di dono, preservazione e trasmissione di cultura.
Concetti che elaborati in maniera attuale vanno a formare l'idea
di monastero come luogo di disobbedienza civile del terzo millennio.
Luogo di libertà dalla servitù del denaro, di
recupero della dimensione spirituale, di relazioni umane fondate
su collaborazione ed empatia. Luogo che racconti che un altro
modo di rapportarsi con se stessi, con gli altri e con il posto
in cui si vive non solo è possibile ma è vantaggioso
e desiderabile.
A monte di ciò “\ condizione sine qua non
”\ dar vita ad una narrazione che restituisca il giusto
valore alle cose, che non permetta più di sacrificare
la bellezza al profitto e invece sia in grado di suscitare in
noi quella nostalgia per il mare vasto e infinito che
ci spinga a cercare insieme i modi per costruire le barche con
cui attraversarlo.
Quindi l'azione necessaria è duplice: culturale e materiale,
spirituale e pratica. È azione sia individuale che collettiva.
È un lavoro di presa di consapevolezza dell'urgenza a
cui i tempi ci chiamano e del bisogno di andare oltre gli ideologismi,
di osservare storicamente i fatti che ci hanno condotto –
nel bene e nel male – alla situazione attuale e scegliere
di mettersi in gioco per essere propositivi, ognuno al livello
e con i mezzi che gli sono possibili.
Pregio ultimo, e non da poco dati i tempi, la visione né
pessimista né ottimista che Pallante ci propone, piuttosto
uno sguardo disincantato che sollecita un cambiamento radicale,
ricco di fiducia nelle alternative possibili per remare controcorrente.
Silvia Papi
Le prigioni?
Aboliamole!
“Di
certo non esiste nessun'altra istituzione, tra tutte le 'conquiste'
della società moderna, che, sebbene investita di una
funzione tanto importante ai fini del destino del genere umano,
si sia dimostrata più colpevolmente rovinosa nel raggiungimento
dei propri scopi dell'istituzione penitenziaria”.
Ortica Editrice ha recentemente pubblicato una raccolta di tre
saggi, rispettivamente di Pëtr Kropotkin, Emma Goldman
e Alexander Berkman, dal titolo Anarchia e prigioni. Scritti
sull'abolizione del carcere (Aprilia, 2014, pp. 77, €
10,00) con un'introduzione di Romolo Giovanni Capuano.
All'interno dei tre pamphlet, scritti a denuncia delle
prigioni e in favore della loro abolizione, c'è traccia
delle loro personali esperienze. Tanto Kropotkin, quanto Goldman
e Berkman ebbero infatti conoscenza diretta della detenzione.
Le vicende penitenziarie che i tre anarchici esperirono furono
significative oltre che numerose; proprio in seguito a tali
accadimenti, proposero una lucida analisi, fondata non solo
sull'ideale e sulla teoria, dell'assoluto fallimento del sistema
penitenziario.
I tre saggi si basano sulla descrizione delle pessime condizioni
psico-fisiche dei detenuti, sulle conseguenze disumanizzanti
della prigionia, ma soprattutto sulla confutazione della credenza
nelle facoltà rieducative e di deterrenza delle carceri.
L'indagine circa le cause del crimine è denominatore
comune dei tre scritti; gli autori si interrogano sulle motivazioni
che possono spingere un individuo a commettere un reato, di
qualunque natura. L'analisi viene ricondotta ad una serie di
cause esterne di carattere culturale, psicologico e, soprattutto,
socio-economico. “Nessuna pena, per quanto severa, potrà
risolvere il problema del crimine finché le attuali condizioni,
dentro e fuori il carcere, continueranno a trascinare gli uomini
verso il delitto”.
È proprio la presenza di motivazioni esterne all'individuo
a far affermare ai tre autori che il sistema penitenziario sia
basato su presupposti completamente sbagliati: quanto senso
può avere il tentativo di risolvere un problema attenuando
i sintomi senza mai fronteggiare e mettere fine alle cause?
Per quale motivo ostinarsi ad ignorare le situazioni socio-economiche,
le difficoltà e la marginalizzazione che conseguono,
facendo leva solamente su un sistema meramente punitivo? “Considerato,
dunque, che i fattori economici, politici, morali e fisici sono
i germi del crimine, come fa fronte la società a questa
situazione? I metodi di contrasto al crimine hanno conosciuto,
indubbiamente, diversi cambiamenti, ma più che altro
di tipo teorico. Nella pratica, la società continua ad
avere nei confronti del criminale il vecchio atteggiamento di
un tempo: quello della vendetta”.
L'incidenza costante, e in alcuni casi in aumento, di crimini
all'interno della società dovrebbe indurci a ragionare
sul fallimento della caratteristica deterrente della prigionia
(e allargando la visuale, dovrebbe farci dubitare anche della
legittimità della presenza di leggi, regole e regolamenti
ordinatori); il fenomeno della recidività, inoltre, dovrebbe
indurci a confutare la tesi di una possibile funzione rieducativa
della detenzione, in realtà inesistente.
All'epoca della stesura dei tre saggi, tra la fine dell'Ottocento
e i primi anni del Novecento, i dati dimostravano (e dimostrano
tuttora) che l'abbattimento della criminalità non era
obiettivo conseguibile tramite la punizione o la sua minaccia.
Unicamente attraverso l'eliminazione delle motivazioni che spingono
un individuo verso la delinquenza è infatti possibile
pensare di risolvere il problema della criminalità. “Solo
la riorganizzazione totale della società libererà
gli uomini dal cancro del crimine”.
È sorprendente notare l'assoluta attualità del
tema e delle argomentazioni trattate all'interno dei tre saggi,
nonostante più di un secolo sia ormai trascorso dalla
prima pubblicazione dei testi contenuti in questo piccolo volume.
Inoltre, la modernità della tesi sostenuta da Kropotkin,
Goldman e Berkman sta nella proposta di abolizione dell'intero
sistema penitenziario, avanzata in un periodo storico antecedente
ogni istanza riformista del sistema carcerario. Molto interessante
si rivela la scoperta, tra le pagine di questa breve raccolta,
di come la qualità delle risposte convenzionali al problema
della criminalità, della detenzione e della punizione
sia tristemente resistita al passare del tempo.
Carlotta Pedrazzini
La stele di Axum
e l'imperialismo italiano
Il libro di Massimiliano Santi La stele di Axum da bottino
di guerra a patrimonio dell'umanità. Una storia italiana,
edito da Mimesis, è un'opera ampia e dettagliata riguardante
la vicenda della famosa stele di Axum. Una significativa introduzione
del celebre storico Angelo Del Boca sintetizza in modalità
molto chiara ed eloquente il susseguirsi delle vicende della
famosa stele, dal suo trasporto a Roma nel 1937, fino alla restituzione
avvenuta nel 2005. Importante è la nota d'autore di Oscar
Luigi Scalfaro, dove vengono ringraziati gli storici, le istituzioni,
gli archivi, le biblioteche, gli istituti storici della Resistenza
e i nostri partigiani per aver garantito a chi scrive il diritto
di poterlo fare in una repubblica democratica e antifascista.
Nel prologo vengono descritti gli orrori che gli italiani hanno
commesso in Etiopia. L'eccidio di Debrà Libanòs
costituisce una delle pagine più oscure della storia
coloniale italiana, con un numero di vittime che si aggira oltre
le migliaia (tra le 1.423 e le 2.033 vittime, secondo le fonti
storiche). Angelo Del Boca, in una lezione magistrale inviata
il 31 ottobre 2002 a una manifestazione di cittadini italiani
e etiopi, per il sessantacinquesimo anniversario della posa
della stele, tratta del “mito del buon italiano”.
Del Boca descrive i metodi cruenti e criminali, tra cui l'impiego
di armi chimiche, i campi di sterminio, le stragi, le leggi
razziali, l'urbanistica da apartheid, utilizzati dal regime
fascista per conservare e garantire un impero agli italiani.
Molto precisa e dettagliata è la sezione da Axum a Roma,
dove viene descritto, dalle origini, la storia del regno di
Axum. Il dono di Alessandro Lessona, ministro delle colonie,
per garantirsi le simpatie di Benito Mussolini, fu quello di
inviare a Roma una grande stele a ricordo della vittoria eritrea
e per esaltare l'opera fascista di conquista coloniale. Il 31
ottobre 1937 viene inaugurato l'obelisco a porta Capena, da
cui derivò l'idea di realizzare una nuova sede per il
Ministero dell'Africa italiana, in un luogo adiacente la stele
di Axum. Con il trattato di pace del 10 febbraio 1947, si stabilì
che l'Italia doveva restituire tutti quei beni culturali e artistici
sottratti all'Eritrea come “bottino di guerra” e
riconoscere un risarcimento economico. Tra questi beni figuravano
oggetti appartenenti alla famiglia reale, il Leone di Giuda,
la biblioteca di sua maestà imperiale Haile Selassie
e, appunto, il famoso obelisco di Axum. Lunghissima fu la trattativa.
I molti governi italiani che si susseguirono negli anni compirono
passi avanti alternati a brusche frenate, in un'alternanza di
tentativi finalizzati a mantenere a Roma la stele di Axum. Il
28 maggio 2002, quando oramai fu stabilita la restituzione dell'obelisco,
un fulmine colpì il monumento di Porta Capena. Nel marzo
del 2003, terminano i lavori di restauro e ricomincia la procedura
di riconsegna della stele. La partenza del primo frammento,
il 18 aprile del 2005, e il completamento nei giorni successivi.
L'interessamento dell'Unesco nella supervisione del territorio
e l'erezione della stele nell'antico sito di Axum, costituiscono
eventi molto importanti. Il 5 settembre del 2008, è la
volta dell'inaugurazione dell'obelisco e della restituzione
all'intera umanità di un patrimonio inestimabile, ricollocato
nel suo sito originario. A tal proposito, Angelo Del Boca ha
promosso un appello per l'istituzione di una Giornata della
Memoria per i 500.000 africani che l'Italia crispiana, giolittiana
e fascista ha massacrato nel corso delle sciagurate campagne
di conquista.
Fabrizio Cracolici e Laura Tussi
Lavoro e non-lavoro
nell'Italia di oggi
“[...]
se tutto ciò è possibile, se anche solo ha un'ombra
di possibilità, allora bisogna pure che qualcosa si faccia
nel mondo”. La citazione di Rainer Maria Rilke con cui
gli autori del libro Dove sono i nostri. Lavoro, classe e
movimenti nell'Italia della crisi (Clash City Workers, Edizioni
La Casa Usher, € 10,00, per ordini: http://clashcityworkers.org)
scelgono di aprire il proprio scritto è la sintesi migliore
per capire la finalità di questo interessante testo:
cambiare radicalmente la realtà. Per farlo, gli autori
realizzano un'accurata e approfondita analisi del contesto socio-economico
dell'Italia di oggi, perché “se avete in mano questo
libro, è perché [...] non volete conoscere questa
situazione tanto per curiosità: volete conoscerla per
cambiarla”. Un intento che accomuna i movimenti e gli
individui che, in forma organizzata o meno, si oppongono alla
realtà che ci circonda, un intento che tuttavia spesso
lascia poco spazio alla riflessione e all'analisi. Ed è
questa consapevolezza che rende il libro uno strumento utile
a tutti, al di là delle identità e delle appartenenze
politiche e che consigliamo ai nostri lettori di prendere tra
le mani e leggere con attenzione.
Dove sono i nostri?
Lavoratori dipendenti, parasubordinati, disoccupati, neet e
altro. Chi sono i nostri interlocutori di oggi? E come possiamo
intrecciare con loro percorsi di lotta? Domande di sempre a
cui però è necessario dare nuove risposte sulla
base della nuova ricomposizione di classe. Nonostante ci sia
una classe che, pur frammentata, senza rappresentanza o con
una rappresentanza venduta, cerca di resistere agli attacchi
del capitale, non si è ancora riusciti a unificarla e
organizzarla, perché, riflettono gli autori, “al
di là delle buone intenzioni [...] i nostri tentativi
sono stati spesso molto ideologici, incostanti”.
Per comprendere chi oggi produce e chi rimane impigliato nelle
maglie fitte dello sfruttamento, gli autori hanno raccolto un'immensa
mole di dati e studi realizzati dalle principali istituzioni
del capitale, “per cambiarne la destinazione d'uso: non
più leve per mantenere l'oppressione ma strumenti per
scardinarla”. I dati divengono la base su cui compiere
un'analisi e interpretazione che si struttura in cinque capitoli:
si parte dall'analisi della struttura produttiva italiana e
l'impatto della la crisi mondiale; dopo aver compreso come si
produce la ricchezza, si indaga su chi la produca, esaminando
la popolazione italiana nel suo complesso; viene analizzato
prima il lavoro dipendente, per cercare di comprendere com'è
fatto ogni settore lavorativo, quali contraddizioni incontra
e come è possibile organizzarlo; si passa poi all'analisi
del lavoro indipendente dove troviamo una quota consistente
di proletari nascosti dietro rapporti parasubordinati e “finte”
partite Iva; a completamento di quest'analisi di classe, segue
un capitolo dedicato alla disoccupazione e ai cosiddetti neet,
ossia quegli individui che non frequentano alcun percorso di
formazione, che non hanno un impiego né sono impegnati
in attività assimilabili.
Ne esce un quadro complesso, nel quale una serie di falsi miti
sostenuti dall'ideologia dominante vengono smontati, tra cui
quello della “deindustrializzazione”: è questo
un passaggio importante perché, a partire da uno studio
di Intesa Sanpaolo, si evidenzia come negli ultimi anni ciò
che è passato come processo di ridimensionamento dell'industria,
in realtà sia stato solo una modificazione del rapporto
fra industria e servizi; in poche parole, si sono usate sempre
più attività classificate come servizi, ma intimamente
connesse nel processo produttivo dell'industria. Il terziario
che è cresciuto, dunque, non è tanto quello del
turismo, della distribuzione o del commercio, ma il terziario
legato all'industria. Dietro il mito, dunque, si nasconde un
più reale processo di terziarizzazione del settore manifatturiero.
Sempre dati alla mano, segue l'analisi dei diversi settori lavorativi,
con un'attenzione particolare alla questione femminile, degli
immigrati e a quella meridionale, dove si concentrano le maggiori
forme di sfruttamento.
L'obiettivo, sintetizzato nel capitolo finale, dedicato ad alcune
conclusioni politiche, è quello di “pescare”
in ogni settore “i nostri referenti di classe e comprendere
intorno a quale proposta o pratica sia possibile organizzarla”,
a partire dalla necessità di ricomporre quella coscienza
di sé che il capitale ha frammentato, di internazionalizzarci,
ossia creare connessioni politiche tra i lavoratori già
connessi dagli interessi del capitale, e di combattere il neocorporativismo
tra associazioni padronali e rappresentanze dei lavoratori.
In una parola “tentare di organizzare i nostri”.
Buona lettura.
Laura Gargiulo
Un emigrante rivoluzionario italiano
nell'Argentina anni '70
Un libro importante che purtroppo non avrà troppa visibilità:
Francesco Carlucci, Vita da cani. Storia di un emigrante
rivoluzionario (BePress, Lecce, 2013, pp. 497, € 22,00).
Eppure un libro fondamentale per chi ha a cuore la storia degli
anni Settanta in Argentina, lo sviluppo della contestazione
e la resistenza alla dittatura, la violenza di stato, la guerriglia
e i crimini compiuti da Videla e soci, a partire dalle carcerazioni
illegittime. Tutto questo raccontato in un'autobiografia narrativa
da Francesco Carlucci, italiano emigrato da piccolo, negli anni
Cinquanta, in Argentina, con una penna fluida che alterna due
vicende, due pezzi della propria esistenza:
- la detenzione nei carceri argentini come militante di un gruppo
guerrigliero, il PRT (vicino al guevarista ERP): per sua fortuna,
Carlucci non fu detenuto in un mattatoio clandestino, tuttavia
l'esperienza è stata decisamente dura;
- il romanzo working class di formazione di giovane tano
emigrato a Buenos Aires fino ai primi passi nel PRT, attraverso
il lavoro minorile nelle botteghe e nelle officine metallurgiche
che gli italiani costruivano un po' ovunque nella Gran Buenos
Aires. Botteghe in cui si lavorava e si dormiva: dai conventillos,
i rifugi degli immigrati, dove si viveva come in un formicaio,
fino alle case grandi dove tutta la famiglia lavorava in officina,
anche i bambini di 13 anni, che mica potevano andare a scuola,
al massimo si facevano la serale se potevano pagarsela col sudore.
Storie di emigrazione italiana dell'ultimo corso pre-boom, quella
degli anni Cinquanta, storie che vanno ostinatamente riscattate
dall'oblio, perché dobbiamo renderci conto che “i
cinesi” eravamo noi e che quella è “la storia
della nostra gente”: officina e casa, tutto assieme, i
turni per dormire e la donna a cucinare per gli uomini al tornio.
Un grande quadro familiare, impreziosito da due meravigliose
figure genitoriali: il padre lucano, violento, spesso maschilista,
eppure generoso e commovente, testardo e duro da piegare come
un tondino d'acciaio, peronista cocciuto eppure dalla parte
del figlio non appena finisce in galera; poi la madre, che invece
di rimanere nelle quattro mura domestiche scopre lei stessa
la militanza e diventa una meravigliosa madre ribelle, una di
quelle che col fazzoletto in testa hanno sconfitto la dittatura.
E sullo sfondo la figura del Tosco, il sindacalista gringo,
il tupamaro Andrés Cultelli e il viceconsole Enrico Calamai,
quest'ultimo uno dei pochi ad aiutare i desaparecidos
nelle istituzioni italiane.
Una biografia romanzata che procede a montaggio alternato, tra
una sessione di tortura e un amore adolescenziale, tra la scoperta
dei libri e il mate fatto di nascosto in una cella, con il vento
degli anni Sessanta che spinge i nuovi emigrati alla militanza
politica e alle botte in galera.
Un grande affresco di storia dell'emigrazione italiana e degli
anni Sessanta e Settanta in Argentina, da non perdere se siete
interessati a queste tematiche. Un libro che se avesse avuto
un editore ben distribuito, con un poco di editing alle spalle,
avrebbe meritato di far parlare di sé con ben altra rilevanza.
Perché è la storia che passa da queste pagine,
dopo essere entrata nella carne di chi le ha scritte.
Alberto Prunetti
Lombroso e i meridionali/
Lamarckismo, razzismo e il cranio del povero Villella
Il
piccolo pamphlet Lombroso e il brigante. Storia di
un cranio conteso di Maria Teresa Milicia (Salerno editrice,
Roma, 2014, pp.168, € 12,00) è un libro uscito per
contrastare i movimenti No-Lombroso e neoborbonici che si oppongono
al Museo Lombroso di Torino. Milicia fa diventare Lombroso un
lamarckiano, un amico della Calabria e attribuisce la responsabilità
dell'antimeridionalismo presente nell'antropologia criminale
italiana, soprattutto ad Alfredo Niceforo.
Lombroso, fin dalla prima edizione dell'Uomo delinquente
(1876), definì tuttavia i meridionali “una razza
di malfattori associati”, così come gli “zingari”,
i “beduini”, i “negri” d'America, gli
“albanesi” e i “greci”. Niceforo, suo
allievo, descrisse esplicitamente due Italie, quella buona del
nord, i cui abitanti erano ordinati, laboriosi e “gregari”;
quella cattiva del sud: fatta da individualisti, emotivi ed
autonomi.
Alla ormai copiosa bibliografia lombrosiana si aggiunge, quindi,
questo volume scritto con l'intento di chiarire chi fosse il
“brigante” calabrese Villella nel cui cranio Lombroso
trovò una fossetta in sede occipitale. “La prova”
inequivocabile del criminale nato.
Lombroso creò il mito; poco prima di morire ancora narrava
che egli stesso aveva “anatomizzato” il malcapitato
e che l'analisi del suo cranio lo avrebbe illuminato (cfr. l'introduzione
di Lombroso a Criminal Man).
Rintracciando Villella nelle carte di archivio, “Lombroso
e il brigante” aggiunge un piccolo mattone alla letteratura
sul tema. Milicia dimostra che Villella probabilmente era un
semplice contadino con piccoli precedenti penali. Confrontando
i differenti racconti su Villella fatti da Lombroso, era comunque
intuibile che questi fosse solamente un “presunto”
brigante e la storia della illuminazione, un mito creato dallo
stesso Lombroso per legittimare le sue grandi scoperte.
Lombroso e i suoi allievi studiarono altri casi di Meridionali:
ad es., Misdea, Musolino e soprattutto il lucano Passannante.
In queste storie, la nascita meridionale era usata come conferma
della pericolosità sociale; nell'ingranaggio biopolitico
la famiglia di queste persone era diagnosticata come pericolosa
e degenerata, tanto da imporre ai familiari cure psichiatriche
e ricoveri (cfr. Giovanni Passannante, di Giuseppe Galzerano).
I meridionali semplicemente tornavano utili alla conferma della
teoria perché erano una categoria di persone –
una razza – in cui la presenza di caratteristiche evolutivamente
arretrate e degenerate si considerava un fatto.
L'ereditarismo di Lombroso prevedeva un sistema in cui le popolazioni,
le persone e i gruppi fossero “più” o “meno”
evoluti. Le donne meno degli uomini, i bambini degli adulti
e i meridionali dei settentrionali. L'ambiente poco poteva in
un sistema gerarchico in cui ognuno aveva un posto in basso
o in alto. I trasformisti lamarckiani, al contrario, pensavano
di poter modificare e migliorare le generazioni delle persone
in tempi brevi e con pratiche di emancipazione; erano spesso
politicamente ingaggiati nel movimento del libero pensiero,
nel partito radicalsocialista, nell'azionismo repubblicano,
nel movimento anarchico e socialista e nei movimenti per l'emancipazione
delle donne. Lombroso, per giunta, era un socialista all'acqua
di rose che coniò il termine misoneismo per giustificare
una “normale” tendenza delle masse alla conservazione.
Lombroso condivideva una visione paternalistica dell'azione
sociale come testimoniano proprio gli scritti sulla Calabria,
tanto apprezzati da Milicia; nei suoi studi i rivoluzionari
e i “settari” erano considerati degli anormali (cfr.
Gli Anarchici e I Tre tribuni). Lombroso non apriva
cioè a reali possibilità di trasformazione delle
generazioni di individui mediante pratiche politiche, educative
e terapeutiche di cui avrebbe beneficiato il patrimonio genetico
“della stirpe”, in una ottica strettamente lamarckiana.
Altri antropologi come Giuseppe Sergi, maestro della Montessori,
davano invece enorme importanza all'educazione come pratica
di emancipazione (cfr. Northerners versus Southerners
di G. Cimino e R. Foschi). Lombroso era, inoltre, inviso soprattutto
ai francesi, custodi e interpreti principali del trasformismo
lamarckiano.
Sulla base di molti contributi storiografici è chiaramente
lecito definire “razziste” una serie di pratiche
e di idee elaborate ben prima del Novecento. La storia del razzismo,
quindi, include i precursori. L'innatismo, l'essenzialismo biologico,
la tipizzazione e la pratica delle gerarchie - tutte presenti
nell'opera lombrosiana - sono state i detonatori del razzismo
di cui la filosofia, la storia e la psicologia si sono occupate
solo dopo la seconda guerra mondiale. I cultori della teoria
della degenerazione, a cui si ascrive l'opera di Lombroso, difesero
un orientamento eugenetico e di controllo delle popolazioni
e degli individui diagnosticati come “essenzialmente”
malati, tarati, viziati e arretrati che preparò sul piano
culturale ciò che poi abbiamo definito “pregiudizio”
e “razzismo”.
Per concludere, i Musei non vanno certamente chiusi ma non dovrebbero
celebrare i “grandi” uomini che hanno costruito
le proprie fortune sulle ossa di chi, come il contadino Villella,
avrebbe meritato di essere rimesso al centro della Storia, magari
iniziando dall'intitolazione del Museo al suo nome.
Renato Foschi
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