rivista anarchica
anno 44 n. 393
novembre 2014


racconto

La guerra e la palla ovale

di Giuseppe Ciarallo


Dedicato ai giocatori della nazionale italiana di rugby, i quali alla fine del primo incontro del torneo Sei Nazioni 2003, vinto contro il Galles per 30 a 22, hanno fatto un giro di campo sventolando la bandiera della pace.

Caro papà,
ti scrivo in un torrido pomeriggio, reso ancor più rovente da una febbre che mi brucia dentro.
La guerra è finita, ci dicono, vi dicono, ma nulla è più lontano da una pace ritrovata di questa assurda situazione di limbo, di questo disordine strisciante dal quale sento che non potranno derivare che tragici avvenimenti. La guerra è finita, dunque. Ennesima bugia raccontata a copertura di un conflitto nato all'insegna di una menzogna ancor più grande: il dono della democrazia a un popolo oppresso.
Ma non è solo di questo che volevo parlarti, anche se nel corso della lettera non potrò non tornare sull'argomento. Che strano, papà, questa guerra che mi ha fatto diventare adulto all'improvviso (credevo di esserlo diventato, adulto, già da tempo ma evidentemente non era così), è come se avesse annullato di botto tutto il mio passato. Ieri mi sono tornate in mente immagini che vedevo lontanissime. Tu, più giovane di una quindicina d'anni, uno sconfinato prato verde, Anthony e io a macinare metri e metri passandoci, canonicamente all'indietro, una palla ovale. I primi rudimenti di un gioco che tu definivi “uno sport bestiale praticato da gentiluomini”. Anthony ha poi smesso; all'improvviso si è accorto che in ogni partita rischiava di rompersi qualche dito o osso della mano, cosa che gli avrebbe impedito di coltivare l'altra sua grande passione: la musica. Tra il rugby e il saxofono ha scelto quest'ultimo. Scelta rispettabile, la sua. Io no, invece. Con tua grande soddisfazione ho continuato a calpestare i campi verdi, a sudare dietro un pallone che non ne voleva sapere di farsi agguantare, a calciare tra i pali, a provare drop su drop, a faticare per il semplice gusto di farlo, a imparare sulla mia pelle la bellissima filosofia di questo sport edificante.
Ogni partita è una battaglia, la squadra avversaria è il nemico al quale, eri quasi ossessivo nel ricordarmelo, non devi mai dimenticare di portare tutto il tuo rispetto, la tua squadra è la tua famiglia. Tu e ogni altro tuo compagno, per quanto bravi possiate essere, non siete nulla uno senza gli altri. E poi lavorare, lavorare, lavorare, e ancora placcare, placcare, placcare, aiutare sempre i compagni, rispettare sempre gli avversari e correre, correre, correre verso la linea oltre la quale c'è la vittoria. In ogni caso, lealtà sempre e comunque. Perché, come non smettevi mai di ripetermi, è mille volte meglio perdere sapendo di aver dato fondo a ogni tua energia, di aver lottato con totale impegno e onestà, piuttosto che ottenere una vittoria frutto di comportamenti poco limpidi, in modo subdolo.
E tu credi che una disciplina del genere si possa tenere solo in campo, dimenticandola poi appena fuori dagli spartani spogliatoi dei campetti di periferia? No papà, come ben sai non è possibile, me lo hai insegnato tu questo, e di ciò ti sarò grato in eterno. Nella vita di ogni giorno ho imparato ad applicare le stesse regole. Impegno e dedizione assoluta in ogni cosa che faccio, disponibilità incondizionata nei confronti dei miei compagni e considerazione e stima anche per gli avversari.
C'è una cosa che ci ripetiamo prima di ogni partita: di fronte ci saranno quindici uomini contro quindici uomini, anche se a scontrarsi sarà una squadretta di infimo ordine e i mitici All Blacks; perché l'importante non è mai l'esito della gara, magari scontata ancor prima del fischio iniziale dell'arbitro, quanto l'impegno che ognuno dei trenta giocatori metterà in campo, onorando così i propri colori, gli avversari, il pubblico e il rugby in generale.
Ma qui, papà, non siamo quindici contro quindici. Qui sono solo. Solo sul mio aereo e sotto di me città così piccole da sembrare pannelli di circuiti elettronici smontati da vecchi computer rotti.
Donne e uomini, vecchi e bambini non se ne vedono. L'esplosione, le fiamme e il fungo di fumo che vedo sempre sotto di me indicano che l'obiettivo è stato centrato, proprio come in un videogioco, e che posso tornare, soddisfatto, alla base.
Ma non funziona così, sai? L'ho imparato a mie spese. Le case sono proprio case, fatte di mattoni, e del sangue e sudore di chi le ha costruite dal niente; spesso sono tutto quello che un uomo possiede, sono scuole, ospedali, teatri, biblioteche. E la fiammata e la colonna di fumo conseguente celano e contengono in sé, ben nascosti alla vista, braccia, gambe, occhi, brandelli di carne che in un solo istante, in uno schiocco di dita non sono più un corpo, non sono più vita, non sono più un essere umano con un nome, un cognome, una data di nascita, non sono più niente, nemmeno una croce o quello che sono soliti metterci loro, su un fazzoletto di terra.
Dicevo che qui non ci sono due squadre che si fronteggiano. Qui c'è un'unica squadra, padrona incontrastata della partita. La scorsa notte ho sognato di essere su un campo di rugby bellissimo (come vedi pure i miei sogni hanno forma ovale), verde come non ne avevo mai visti prima. Nella mia bianca uniforme, pallone ben stretto sotto il braccio, guardavo i miei avversari fissarmi con odio nelle loro divise sporche e lacere, schierati in due file perpendicolari alla linea di metà campo, come se invece di opporsi al mio attacco mi invitassero a passare tra loro come accolto tra due ali di folla. I loro non erano volti fieri e combattivi, ma quelli di persone vinte, umiliate e passando accanto a loro potevo vedere la ragione di quello scoramento: le caviglie di ognuno erano incatenate al terreno di gioco. Nessuno di loro, anche volendo, avrebbe potuto muovere un dito per impedirmi di andare a segnare la mia meta. Nonostante questo, avanzando fresco come una rosa nel bel mezzo di quelle forche caudine al contrario, senza versare una sola goccia di sudore né minimamente sporcare la mia candida divisa andavo a schiacciare il pallone proprio in mezzo ai pali. Dopodiché mi chinavo a raccattare la palla, la ponevo con cura sul terreno, strappavo un ciuffo d'erba lasciandolo poi cadere al suolo nell'atto di misurare la forza del vento, infine sparavo un calcione centrando perfettamente i pali. Dunque, senza nemmeno guadare in faccia gli avversari, trotterellavo verso gli spogliatoi per l'inutile e immeritata doccia.
Bene, papà. È proprio quello che stiamo facendo noi, qui, ora. Stiamo giocando senza avversari. I pochi missili che avevano, glieli abbiamo fatti smantellare con la minaccia di un intervento armato che in seguito c'è comunque stato. Mai nessun fine stratega militare del passato si era spinto così in là, giungendo a conclusioni, è proprio il caso di dirlo, così disarmanti: togliere all'avversario qualsiasi possibilità di difesa prima di colpirlo duramente. Chapeau!
Tu sai, caro papà, con quanto entusiasmo e convinzione ho aderito inizialmente a questa guerra. Credevo veramente che l'ennesimo, feroce tiranno di questa terra incantevole e spietata fosse una minaccia per tutti noi, desideravo con tutto me stesso che i bambini di questo paese ricominciassero a vivere la normale esistenza a cui ogni essere umano ha diritto, ero sicuro che il pazzo sanguinario nascondesse armi chimiche, ma evidentemente sono stato imbrogliato, insieme a tutti voi, dalla propaganda martellante dei nostri potenti governanti. Sì perché figuriamoci se, perso per perso, il tetro macellaio che qui ha il supremo potere di vita e di morte, avrebbe esitato a utilizzare le sue tanto sbandierate armi di distruzione di massa. Non le ha usate semplicemente perché non le aveva.
E anche se un giorno ci verranno a raccontare che in un hangar sperduto in una sperduta località segreta è stato trovato materiale chimico e bla bla bla, noi non crediamoci, perché chi ha mentito una volta è capace di mentire dieci, cento, mille altre volte. Di armi di distruzione di massa qui ce ne sono a bizzeffe, ma le abbiamo noi e abbiamo dimostrato di saperle usare senza scrupolo alcuno.
Il nemico, dicevo. Il nemico visto come qualcuno da rispettare. E questo reciprocamente. Ma quale rispetto posso suscitare io, che vigliaccamente, senza nulla rischiare sgancio bombe a grappolo, vietate da ogni convenzione internazionale, su mercati, scuole, ospedali perpetuando la spirale di morte e odio sulla quale pochi personaggi senza scrupoli, millantando una pulizia morale che davvero non appartiene loro, hanno deciso di fondare la vita dell'intero pianeta da qui alla fine dei nostri giorni?
Io me li ricordo i nemici di cui avere paura, e ne provo una nostalgia senza fine. Nei due anni in cui ho avuto la fortuna e l'onore di indossare la maglia della nazionale del mio Paese, prima dell'infortunio al ginocchio, io, appena diciannovenne, ne ho visti di sguardi fieri, di occhi brillanti d'orgoglio, di petti che si gonfiavano già alle note degl'inni. Puoi star certo, papà, che trovarsi di fronte quindici colossi completamente di nero vestiti, che si muovono compatti nella loro danza di guerra, che urlano col dichiarato proposito di intimorire l'avversario, e ti posso assicurare che raggiungono sempre il loro scopo, be', quello fa veramente paura! Sapere che dopo qualche minuto la tua forza, il tuo carattere, la tua determinazione andrà a scontrarsi con centoventi chili di muscoli e risolutezza, questo sì che può mettere agitazione, sicuramente più che salire su un aereo, volare indisturbati per una mezz'oretta, liberarsi di un fastidioso carico di morte e più leggeri tornare placidamente alla base.

Manifesto di arruolamento dei giocatori
di rugby britannici. “L'unione dei
giocatori di rugby fa il suo dovere
con oltre il 90% di arruolamenti.
Atleti britannici, seguirete questo
glorioso esempio?”

Tutto stabilito, tutto perfettamente e tecnologicamente studiato, senza la benché minima possibilità di errore. Non è questo che mi aspettavo. Non è questo che volevo io, che ho deliberatamente preferito al rotolare tondo e preciso di un pallone da calcio, il rimbalzo sghembo e imprevedibile della palla ovale. Nell'esistenza di un uomo nulla è lineare, i problemi così come le gioie arrivano sempre all'improvviso, quando meno te li aspetti, e la vita assomiglia spesso a una palla che ti rimbalza storta tra le mani e rischia di schizzarti via come una saponetta. È per questo che amo il rugby, per il magico miscuglio di abilità e fortuna necessari per cercare di addomesticare il rimbalzo strambo di un pallone che sembra animato di vita propria quando, insolente e beffardo ti fa tuffare a destra, per agguantarlo, mentre in cuor suo ha deciso già da prima di rotolare dalla parte opposta.
Ma quello che più mi manca, papà, è quella leggerezza che stempera le più coriacee regole scritte e non scritte del rugby, che anzi le fortifica confermando l'umanità di uno sport che solo sport non può essere senza trasformarsi in qualcosa di più importante: un vero e proprio stile di vita. Mi riferisco a quello che tra di noi chiamiamo il terzo tempo. Il dopo partita, la serata nei pub passata a far scorrere fiumi di birra, bionda, rossa, scura, come biondi, rossi, scuri e senza distinzione di lingua e nazionalità sono i giocatori, amici anche se avversari fino a qualche ora prima. E non è raro che il marcantonio col quale hai fatto a cazzotti in campo sia poi quello con cui più fraternamente conversi in birreria, raccontando e ascoltando di punti di sutura, ecchimosi, fratture da mostrare come medaglie al valore esibite da soldati alticci. Il tutto però ridendo a crepapelle, senza essere obbligati a prendersi troppo sul serio.
Qui un terzo tempo non è possibile, papà. Non posso andare a bere un bicchiere in allegria con quelli ai quali ho distrutto la casa, ho ucciso un figlio o un padre. Non siamo liberatori, noi, siamo portatori di disgrazie, né più né meno di quanto ha fatto fino a oggi il despota al potere col suo popolo martoriato. La democrazia non si può imporre, è un lampante ossimoro, questo. La libertà non si può sganciare dall'alto, da un aereo da caccia. La libertà la si conquista con l'impegno personale, con il sangue, il sudore e le lacrime, con il vigore delle proprie idee, con l'orgoglio delle proprie convinzioni, con la lealtà anche e, qualora necessario, con un bel placcaggio deciso.
Ricordi cosa diceva Oscar Wilde parlando del rugby? Che è un'ottima occasione per tenere lontani trenta energumeni dal centro della città! Quante risate per questa buffa definizione. Bene, cosa bisogna inventarsi, oggi, per tenere lontane le innumerevoli belve assetate di sangue fresco dalle nostre città, dalle città di tutta la Terra?
Non so se riuscirò a trovare di nuovo il coraggio di scendere in campo, e incrociare con fierezza lo sguardo di un giocatore avversario; io che leale non sono stato, colpevole anche se non del tutto conscio, pur sempre complice di un modo di intendere il mondo diametralmente opposto a quello che credevo essere il mio modello.
Non so se saprò ancora calciare la mia palla tra le altissime torri gemelle dei due pali, giusto in mezzo, senza nemmeno sfiorarle e crear danni. Tutto questo mi ha tolto la guerra, papà, e come ben sai non è poco.
Nelle orecchie ho sempre le parole della haka neozelandese che oramai ho mandato a memoria (ka mate, ka mate, ka ora, ka ora, tenei ta tangata, ruhuru huru. Nga na i tiri mai, whaka whiti te ra. A haupani, a haupani, a haupani, kaupani whiti te ra... È la vita, è la vita, è la morte, è la morte. Risaliremo di nuovo la scala della vita), negli occhi ho ancora i gesti terribili dei guerrieri maori vestiti di nero perché, così si dice, portano il lutto per i nemici che sconfiggeranno.
È strano, papà, nel rugby avevo nemici che amavo, in questa sporca guerra ho scoperto di avere solo “amici” che odio.
A presto

Edward