rivista anarchica
anno 44 n. 393
novembre 2014





Aveva censito 1.600 varietà di carciofi

di Gianni Mura

Un suo “discepolo abbastanza fedele” (così si definisce) mette in luce tanti episodi e aspetti (noti e meno noti) di Sua Nasità. Tra cui il vero e proprio amore per le (bio)diversità. E chiude citando quella targa di marmo carrarino...

Una delle cose riuscite a Gino: farsi ricordare, e anche rimpiangere. Come testimoniano le pagine che “A”gli dedica, e più ancora il contenuto di queste pagine. Da discepolo abbastanza fedele, fedelissimo rispetto ad altri, considero la qualità più importante della quantità. Vale per le bottiglie di vino e per le pagine dei giornali.
Alcune delle cose che Gino non ha potuto fare: morire a 103 anni come le sua amica contessa Giuseppina Perusini Antonini. E avere il tempo di bere, nel 2029, l'ultima bottiglia, già designata: un Porto 1926 di Quinta do Resurressi (“bel nome dannunziano”, diceva) fatto da una contadina anarchica. Essere sepolto nel cimitero di Pradumbli, in Carnia, terra di anarchici. Non lo sapevo e mi rifugiai in un anagramma. Normale, Gino: anarchia ha Carnia. In valle qualcuno ricordava ancora il funerale del falegname Casali, “iscritto al partito anarchico” nelle segnalazioni della polizia. Un mare di gente, negli anni '30. Poi, Gino non ha fatto in tempo a tradurre le poesie di Apollinaire. E, infine, non ha vissuto il triplete dell'Inter, di cui era perdutamente tifoso. E, nemmeno, per fortuna sua, ha visto programmi televisivi come Masterchef, che tutto fanno tranne che promuovere una cultura del cibo. Decretano la superiorità di un cuoco, ma in genere trattasi di cuochi fatui. Sono programmi basati sull'esclusione, passando per l'umiliazione. Tutto il contrario di quel che faceva Veronelli. La conoscenza, prima di tutto. E il rispetto. La storia, le radici di un vino, di un piatto, di una famiglia. Questo era per lui “camminare la terra”. Mettere in comune le esperienze. Condividere.

Un lungo ostracismo

Penso fosse anarchico a modo suo, forse lo sono anch'io a modo mio e comunque non sono in grado di rilasciare patenti. Il giorno del funerale di Gino, a Bergamo e non a Pradumbli, si potevano misurare le vicinanze più che le distanze. Molte bandiere anarchiche, dall'Emilia in particolare, e molte suore. Ma come, non era ateo? Sì, ma i tre conventi di Bergamo Alta, vicino a casa sua, li riforniva di vino. C'erano cuochi da tre stelle e osti senza stelle. C'erano megaproduttori di vino, centinaia di ettari, e microproduttori, un paio d'ettari. Ma per lui erano tutti vignaioli: conti, marchesi, duchi e contadini. Gente che viveva in un castello e gente costretta ad accendere un mutuo per comprare un trattore nuovo. Gente famosa a New York e a Tokyo e gente poco nota anche nella sua provincia. Pure, ogni differenza per lui s'annullava di fronte alla vigna, “il canto della terra verso il cielo”. Un cielo senza un dio, beninteso, ma in grado di dare paradiso e inferno, sole e vento, pioggia e grandine, umidità e arsura. Benessere e miseria.
Scrittore, giornalista, esteta, polemista, bon vivant, filosofo, quante cose è stato. Operatore culturale rende di più l'idea, ma è alquanto burocratico. Anarchenologo gli piaceva, derivazione probabile da archenologo (il suo libro sui vini italiani, del '61, è pur frutto di un lungo lavoro di scavo). Anarchenologo teneva l'idea in capa, la dichiarazione. Di sfuggita, vorrei ricordare che dirsi anarchico in tv, ai tempi della trasmissione con Ave Ninchi, gli costò un lungo ostracismo. E che nel dopoguerra un intellettuale poteva scegliere di aggregarsi a molti carri, ricavandone vantaggi, e che quello dell'anarchia non era certamente il più affollato. Discorso che vale anche per gli ultimi anni di vita di Veronelli. Quel suo accostarsi volentieri ai gruppi anarchici (ancora da inventare il termine insurrezionalisti) e ai cani sciolti dei centri sociali. Si sarà bevuto il cervello, dicevano scuotendo la testa i critici togati e anche qualcuno più vicino a lui, se va a predicare in mezzo agli sbandati, agli estremisti. Che Gino non definiva estremisti ma ragazzi estremi. Aveva non so quanti vocabolari in casa, a volte perdeva ore per trovare un aggettivo con le sfumature giuste, anche quando gli occhi non leggevano più neanche le facce. Ci andava volentieri, e senza mai chiedere gettoni di presenza (usanza assai diffusa nel settore) perché sapeva che avrebbe trovato una buona terra. Ribellarsi a leggi inique è giusto, diceva. Non era il primo e non sarà l'ultimo, ma è stato uno dei primi a intuire il legame tra terra e Terra, a denunciare, nel suo vasto campo, gli abusi delle multinazionali del cibo, a intuire che i conflitti del futuro non saranno legati al petrolio e al gas, ma all'acqua e al grano.
La lettera aperta ai giovani estremi, che trovate poco più indietro, è del febbraio 1999. Ne stralcio solo poche righe: “Ogni scoperta e ogni invenzione- nate tutte (oso credere) dal proposito di essere vantaggiose all'uomo- sono state deviate ed utilizzate contro l'uomo. Basta guardarsi attorno, con un minimo di senso critico, e ci si accorge che tutto, ma proprio tutto, viene attuato per renderci servi (...) Chiaro ed orrifico il fine: non più individui, non più cittadini, non più un popolo, ma milioni di uomini e donne, senza volto né storia, servi”.
Frasi che potevano essere pubblicate nel 1899. Ma sta nel secolo intercorso la loro drammatica attualità, ancor più misurabile, qui e ora, a quindici anni di distanza. La politica, che in teoria sarebbe una cosa seria, spesso scaduta a farsa e asservita agli interessi della finanza. Le guerre, con un aumento dei fondamentalismi religiosi, combattute sulla pelle dei civili. Un capitalismo non più illuminato ma voracemente spietato, sempre alla ricerca di zone più povere in cui delocalizzare il lavoro. Una tecnologia che tanti benedicono ma ancor più maledicono, perché toglie posti di lavoro e moltiplica le solitudini. Una terra, che dovrebbe essere di tutti, in mano a pochi. Una globalizzazione che non rispetta le differenze ma tende ad annullarle.

I miei contadini

Le differenze, forse non ancora dette biodiversità, stavano molto a cuore a Veronelli. In Italia aveva censito 1.600 varietà di carciofi, dalla carcioffola di Capua che sta nel pugno di un bambino al gigante di Albenga, grosso come un piatto. “Ma tanto al mercato ti chiedono solo: con le spine o senza?”.Diceva che si stavano ancora pagando le conseguenze del piano Marshall, di un americano che studiò l'Italia come fosse il Texas e stabilì dove coltivare il grano e dove le patate. “La monocoltura può essere nefasta”, diceva. E ancora non si parlava di landgrabbing, della Cina che affitta mezza Africa perché produca soia.
E diceva: “Pensa se ai miei contadini fosse corrisposto il giusto”. Quell'aggettivo, per come lo intedeva e lo pronunciava, non indicava possesso, ma schieramento sentimentale. E parlava dell'olio d'oliva extravergine fraudolento, o meglio legalizzato da legislatori iniqui, del poco o nulla che spettava ai coltivatori di pomodori, o ai pastori per il latte. Parlava, sempre più accalorato, di una Ue che va contro i piccoli e tutela i grandi, che fa produrre la mozzarella in Baviera ma vara norme impossibili da rispettare per un casaro della val Brembana. La tutela delle tipicità per lui passava attraverso le De.Co, dettaglio che infastidì qualche anarchico perché la certificazione passava dalle mani del sindaco. Ma sono dettagli. A sua volta, Veronelli non capiva perché gli anarchici (non tutti) rifiutassero il voto come strumento di cambiamento. Ma se ripenso all'espressione allegra che aveva quando partiva per un centro sociale, fosse Milano, Verona o Brescia, credo che ci sia stata più sintonia che distonia. Così mi piace ricordare il “tu” paritario che Veronelli usava sia parlando con un giovane vignaiolo sia con il ministro dell'agricoltura. Quasi sempre litigandoci (col ministro). E con ragione, devo dire: avessimo avuto validi ministri dell'agricoltura (e perché no del turismo?) pensate a come si starebbe meglio, in Italia. A quanti giovani avrebbero potuto unirsi in cooperativa e produrre cibo sano, nel rispetto dell'ambiente. A quanti turisti in più arriverebbero, attratti non solo dal cibo e dal vino ma dai musei, dai monumenti, dalla storia, dalla bellezza, della cultura.
Era logico che Veronelli andasse a dire le sue verità ai giovani. A chi, sennò? A quelli stanchi, rassegnati, omologati, intortati? Si presume, Sua Nasità lo presumeva, che un giovane sia più sensibile alle ingiustizie, alle arroganze, e che abbia più voglia di una realtà migliore, e forse la forza, che non è solo utopia, per arrivare a costruirla, a vederla, a viverla. E siccome tutti i discorsi, ancor più quelli commemorativi, vanno chiusi senza ricorrere troppo ai ricordi personali, per Veronelli credo che la sintesi più breve e felice sia su una targa di marmo carrarino murata su una casa di Massenzatico. La libertà del piacere e il piacere della libertà.

Gianni Mura

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