rivista anarchica
anno 44 n. 394
dicembre 2014 - gennaio 2015


calcio e nazismo

La svastica allo stadio

di Giovanni A. Cerutti


Con questo titolo è appena uscito un nostro nuovo dossier, curato da Giovanni A. Cerutti. Raccoglie i suoi quattro articoli apparsi nei numeri 374/377 di “A”. Per il dossier Cerutti ha scritto un'introduzione (“La fragilità dei campioni”) che bene inquadra l'incrocio tra lo sport più popolare d'Europa e la dittatura nazista (e il fascismo, suo alleato).
La riproduciamo qui.


Le storie qui presentate sono state raccolte tra le molte che hanno attraversato il mondo dello sport in generale, e del calcio in particolare, nell'Europa della fine degli anni trenta e della seconda guerra mondiale. Sono state scelte tra le altre, perché i loro protagonisti sono uomini che hanno contribuito a scrivere la storia del calcio, che all'apice della carriera e della fama sono stati travolti dal corso della storia europea, ritrovandosi a condividere il medesimo destino di milioni di altri uomini.

Matthias Sindelar
(Kozlov, 10 febbraio 1903 - Vienna, 23 gennaio 1939)

Matthias Sindelar stava per guidare la nazionale austriaca - il Wunderteam che aveva dominato il calcio europeo negli anni trenta - ai campionati del mondo di Parigi, all'inseguimento di un più che probabile titolo che avrebbe posto un prestigioso sigillo a una delle più straordinarie carriere della storia del calcio mondiale, quando l'annessione dell'Austria alla Germania di Hitler, con lo conseguente scioglimento della nazionale di calcio austriaca, lo mise nelle condizioni di dover vestire la maglia della nazionale tedesca. Il rifiuto che senza esitazioni oppose alla convocazione del commissario tecnico Herberger cambierà non solo il corso della sua carriera, ma anche della sua vita. Árpád Weisz ed Ernest Erbstein, alla guida rispettivamente del Bologna e del Torino, si stavano contendendo il campionato italiano, quando la promulgazione delle leggi razziali li costrinse a lasciare l'Italia e a vagare per l'Europa occupata. Due allenatori che hanno segnato l'evoluzione tecnica e tattica del gioco del calcio, introducendo innovazioni che ancora oggi ne costituiscono la base, terminarono le loro peregrinazioni uno ad Auschwitz, dove venne sterminato con tutta la famiglia, e l'altro a Budapest, dove riuscì a sfuggire alla feroce caccia all'uomo condotta dalle Croci frecciate di Szálasi, fanaticamente antisemite. Giocatori e dirigenti della squadra di Amsterdam si ritrovarono dopo l'occupazione dell'Olanda, prima a cercare di mettere in salvo i propri soci ebrei e poi a organizzare i primi nuclei della Resistenza olandese. Negli anni sessanta, un piccolo gruppo di quei sopravvissuti costruì l'Ajax che, guidato da Johan Cruijff, lascerà un segno indelebile nella storia del calcio. Dieci anni dopo, l'imprevedibile corso della storia intreccerà quella vicenda con quella dei generali argentini nella Buenos Aires dei desaparecidos.
In quel frangente storico, a cavallo delle due guerre mondiali, si stavano affermando i processi che disegnarono i tratti principali che caratterizzano il calcio contemporaneo. Quasi tutte le federazioni nazionali riconobbero ufficialmente il professionismo, che in modo embrionale era già stato ammesso dalla federazione inglese nel 1885, mentre lo sviluppo tecnico-tattico del gioco determinò la crescente centralità della funzione dell'allenatore, tanto più rilevante, quanto più si consolidava la dimensione collettiva del gioco di squadra inaugurata dal passing game delle squadre scozzesi, che aveva soppiantato il dribbling game delle origini, la cui essenza era una somma di tentativi individuali di andare in rete. Parallelamente si svilupparono i contatti internazionali, con l'organizzazione dei primi tornei tra squadre di club e l'intensificarsi delle partite tra le rappresentative nazionali, fino all'organizzazione nel 1930 del primo campionato mondiale in Uruguay. Ma le tensioni nazionaliste che percorrevano l'Europa mutarono il significato di questa evoluzione, determinando una stretta interconnessione tra eventi sportivi e relazioni internazionali, trasformando gli incontri di calcio in veicoli di azioni diplomatiche.

Il vecchio stemma Ajax
Frammenti di memoria

Ma, soprattutto, negli anni tra le due guerre il calcio divenne in gran parte dell'Europa una delle espressioni più significative della nascente società di massa. Fin dagli esordi nell'Inghilterra della metà dell'ottocento, quando i regolamenti avevano ancora tratti indefiniti, le partite di calcio avevano attirato numerosi spettatori e fin da subito si era sviluppata la pratica di recintare i campi da gioco per chiedere il pagamento di un biglietto di ingresso per assistervi; ora, però, la crescente disponibilità di tempo libero, conseguenza dei cambiamenti della scansione dei tempi di vita imposti dai processi di industrializzazione e urbanizzazione, permetteva a un sempre maggior numero di appassionati di andare a vedere le partite. Ben presto attorno a ogni squadra si crearono gruppi di sostenitori, che presero a seguire anche le partite disputate nelle altre città, organizzando le trasferte. Non solo, ma il parallelo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa permise a un pubblico sempre più vasto di seguire le imprese delle squadre. Vennero fondati i primi periodici specializzati, ma furono soprattutto le trasmissioni alla radio delle cronache delle partite ad ampliare ulteriormente la platea di spettatori che seguiva il calcio, tanto che la popolarità dei suoi campioni si affermò al di fuori dell'ambiente dei tifosi - termine che entra nei dizionari italiani nel 1935 – facendoli approdare alle cronache mondane. Così, non solo le principali industrie cominciarono ad acquistare gli spazi intorno al terreno di gioco per posizionare i cartelloni pubblicitari negli stadi, ma cominciarono anche a mettere sotto contratto i calciatori più famosi per le loro campagne pubblicitarie. Perché poi tra tutti i modi possibili di impiegare il nascente tempo libero sia stata proprio la passione per il calcio a occupare un posto così rilevante è un'altra questione, sulla quale ci sono infinite teorie. Forse perché combina in modo del tutto imprevedibile l'organizzazione e l'applicazione scientifica richieste dallo sport con l'imponderabile proprio del gioco, e in fondo della vita, tanto da aver fatto dire ad Albert Camus di dovere al calcio tutto ciò che aveva imparato sulla moralità e gli obblighi degli uomini.
Prima di essere riportate alla luce, queste storie hanno lasciato frammenti di memoria, incrociando in modo significativo la vita e la carriera di figure di rilievo assoluto, che hanno continuato a ricoprire ruoli di spicco anche nel calcio del dopoguerra. Weisz ha scoperto Giuseppe Meazza, facendolo debuttare in prima squadra a 16 anni. Anche Fulvio Bernardini, allenatore del Bologna che vinse lo scudetto nel 1964, con alla presidenza lo stesso Dall'Ara degli scudetti degli anni trenta, da calciatore era stato una delle stelle dell'Inter di Weisz. E a Trieste Jenö Konrad, anch'egli allontanato in forza delle leggi razziali, aveva allenato Ferruccio Valcareggi, Nereo Rocco e Gino Colaussi. Sepp Herberger, che tentò di convincere Sindelar ad accettare di giocare i mondiali di Parigi per la Germania, ha allenato la nazionale tedesca fino al 1964. Ma mai quei frammenti hanno trovato la strada per trasformarsi in ricordo, aprendo una via per conoscere vicende così significative.

Árpád Weisz (Solt, 16 aprile 1896 -
Auschwitz, 31 gennaio 1944)

Per larga parte questa circostanza trova la sua spiegazione nel clima generale che segnò i primi anni del dopoguerra. Da una parte, la voglia di lasciarsi alle spalle gli orrori e le distruzioni del conflitto bellico aveva creato uno stato d'animo poco favorevole ad accogliere il ricordo della persecuzione e dello sterminio, così ben restituito da Eduardo De Filippo in Napoli milionaria!, in cui il reduce Gennaro Jovine non riesce a portare a termine il racconto della sua deportazione, interrotto dalle esortazioni di parenti e amici a dimenticare e a pensare al futuro. Sguardo al futuro che, su un altro piano, condizionava anche il discorso pubblico, dominato da ideologie convinte di poter edificare società in grado di rispondere ai bisogni umani rimuovendo per sempre le cause di conflitto che avevano portato alle distruzioni della guerra.
Resta paradigmatica la decisione di Natalia Ginzburg di rifiutare il manoscritto di Se questo è un uomo, che uscirà per i tipi di Einaudi soltanto nel 1958. In un mondo teso verso la costruzione di un progresso inarrestabile, non c'era posto per storie consegnate a un passato definitivamente superato. Soltanto quando è venuta meno questa fiducia incrollabile nel futuro, quando la storia è tornata a essere percepita per quello che è, una commistione inestricabile di rischi e opportunità, si è cominciato a volgersi verso quel passato. Anzi, nello smarrimento del non sapere più esattamente cosa vogliamo essere e nell'incapacità di individuare progetti adeguati ai nuovi scenari, volgersi verso quelle storie diventa sempre più indispensabile per cercare di capire almeno cosa non vogliamo essere. E andrebbe forse notato che un segno non secondario di questo mutamento di prospettiva può essere rintracciato osservando che l'edizione italiana del Diario di Anna Frank, il libro che più di ogni altro segna questa inversione di tendenza, venne pubblicata con una dolente e partecipe introduzione proprio di Natalia Ginzburg.
Ma all'interno di questo scenario generale hanno agito meccanismi di rimozione che possono essere ricondotti al modo in cui il mondo dello sport, del calcio soprattutto, pensa se stesso, come completamente avulso dalle vicende della storia e della politica. Con il paradosso di espungere anche dalla storia strettamente calcistica figure di valore assoluto, senza le quali è persino difficile comprendere l'evoluzione della disciplina.
Eppure, intrecciando i fili di queste storie legando tra di loro persone, luoghi e circostanze, verrebbe alla luce una trama che ci permetterebbe di guardare un periodo storico così ben studiato da un angolo visuale del tutto inedito. Sia Weisz, nel campionato 1931-32, che Erbstein, nei campionati 1928-29 e 1932-33, hanno allenato il Bari. Nel campionato di serie B 1934-35 si erano affrontati alla guida uno del Novara, l'altro della Lucchese, sfiorando entrambi la promozione. Che arrivò per le due squadre nel campionato successivo, anche se Weisz era ormai approdato al Bologna. Ma tempo tre anni, le loro strade si intersecarono ancora. Il 9 ottobre del 1938 il Torino di Erbstein andò a vincere a Bologna per 3-0, segnando la definitiva affermazione di quello che fino ad allora era uno dei più promettenti tra i giovani allenatori. Infatti, anche se tra i due c'erano solo due anni di differenza - Weisz era nato nel 1896, Erbstein nel 1898 – Weisz era un maestro riconosciuto, avendo già vinto tre scudetti e il Torneo dell'Esposizione, mentre Erbstein era al suo primo campionato alla guida di una squadra di punta. Cacciati dall'Italia in forza delle leggi razziali, entrambi scelsero di rifugiarsi in Olanda, anche se Erbstein non riuscì mai ad arrivarci. Weisz incrociò per tre volte anche la strada di Sindelar nella Mitropa Cup, uscendone sempre sconfitto, nel 1933 in finale con l'Inter e nel 1936 e nel 1937, dopo una clamorosa sconfitta in casa per 5-1, negli ottavi con il Bologna. E sia il padre di Sindelar, sia Weisz, sudditi dell'Impero austro-ungarico, si erano trovati a combattere contro l'esercito italiano durante la prima guerra mondiale.
Un complesso di relazioni, dunque, niente affatto marginali, ma organicamente inserite all'interno di uno dei luoghi centrali della nascente società di massa.

Erno “Ernest” Erbstein (Nagyvárad,13
maggio 1898 – Superga, 4 maggio 1949)
Una storia anche italiana

Due di queste storie, come abbiamo accennato, e tratti significativi di quella di Sindelar, passano dall'Italia. Ma da noi, nonostante articoli, libri e ricerche che le hanno ricostruite nei tratti principali, stentano a entrare stabilmente nel canone che ruota intorno alla storia del calcio italiano. Alla tenacissima convinzione di essere un mondo a parte - salvo, magari, poi sostenere che le curve sono quello che sono, perché la società è quella che è - si somma la difficoltà con cui tuttora la società italiana nel suo complesso fa i conti con il suo passato fascista. Si tratta di una miscela micidiale.
Ricostruire queste storie, infatti, significa ricostruire quanto il calcio italiano sia stato plasmato dal regime, quanto fin dalla sua origine sia stato inestricabilmente avviluppato alle dinamiche politiche della costruzione del consenso. Quanto due delle stelle di cui si fregia la nazionale italiana siano servite a veicolare l'immagine della giovane potenza in procinto di schiantare le reni alle decadenti democrazie europee, così come, in modo ancora più puntuale, la vittoria del Bologna di Weisz contro il Chelsea a Parigi nel 1937. Bologna ancora oggi ricordato senza alcun imbarazzo come lo squadrone “che tremare il mondo fa”, rimuovendo con grande disinvoltura il contenuto di violenza e paura così intimamente connaturato all'estetica fascista che tale espressione rivela. E quanto nella vittoria in casa del 1934 le pressioni politiche abbiano interferito pesantemente con la regolarità del torneo. Ma soprattutto quanto le leggi antiebraiche abbiano inciso nel tessuto della società italiana, più di quanto generalmente si voglia ammettere, anche quando ce se ne assume responsabilmente il peso dell'eredità.
I Provvedimenti per la difesa della razza italiana vennero adottati il 17 novembre 1938 e convertiti in legge con l'approvazione della Camera dei deputati il 14 dicembre, all'unanimità, e del Senato del Regno, dove per antica usanza vigeva il voto segreto, il 20 dicembre, con solo dieci voti contrari. Vennero anticipati da un decreto emanato il 7 settembre, poi integralmente recepito nella legge, che imponeva ai cittadini ebrei di nazionalità straniera di lasciare l'Italia entro sei mesi.
Il provvedimento ebbe ripercussioni profonde sullo svolgimento del campionato italiano di serie A 1938-39, in quel momento il più prestigioso tra i campionati europei, a parte quello dei maestri inglesi. L'Italia si era, infatti, appena riconfermata campione del mondo, vincendo proprio nella Parigi degli odiati diritti dell'uomo e del cittadino, dove aveva trovato rifugio la maggior parte dell'emigrazione antifascista. Nel giro di due mesi tre allenatori, tutti e tre ebrei di nazionalità ungherese, furono costretti a lasciare l'Italia. Insieme a Weisz, allontanato dopo la quinta giornata di campionato, e a Erbstein, allontanato dopo la sedicesima giornata, infatti, anche Jenö Konrad, allenatore della Triestina, era stato costretto a lasciare la guida della sua squadra dopo l'ottava giornata. Konrad era arrivato in Italia dopo che una violenta campagna di stampa antisemita, seguita alla sconfitta che aveva subito alla guida del gran favorito Norimberga contro il Bayern di Monaco, l'aveva costretto a lasciare la Germania nel 1932. Konrad, che nel campionato 1935-36 aveva allenato l'Austria Vienna di Sindelar, troverà un ingaggio in Francia, nel Lille, e nella stagione successiva in Portogallo, nello Sporting Lisbona. Emigrerà, quindi, negli Stati Uniti, dove morirà nel 1978.
Tre allenatori costretti a lasciare il campionato da un odioso provvedimento legislativo sono davvero tanti. Quel campionato è stato, dunque, manomesso fino a togliergli qualsiasi significato nei suoi contenuti umani, civili ed etici. E falsato anche dal punto di vista strettamente sportivo, visto che Erbstein e Weisz stavano guidando le due squadre che si contenderanno il titolo sino alla fine. Come sia stato possibile che ad oggi a nessuno sia venuto in mente di annullarlo, rendendo il titolo vacante, o, quantomeno, di segnalare con un atto ufficiale della Federazione che la catastrofe della storia si è abbattuta sul suo regolare svolgimento dice molto di quanto il nostro paese abbia cura del suo passato. E di quanta strada resta da percorrere per venire a capo del groviglio di contraddizioni che condizionano ancora oggi la nostra vita associata.

Giovanni A. Cerutti

Per saperne di più

Simon Martin, Football and Fascism. The National Game under Mussolini, Bloomsbury Academic, London 2004
Stefano Pivato, Calcio, in Dizionario del fascismo, a cura di V. De Grazia e S. Luzzatto, Einaudi, Torino 2002
Gianni Brera, Il più bel gioco del mondo, in Id., Il mestiere del calciatore, Mondadori, Milano 1972, ora in Id., Il più bel gioco del mondo, a cura di M. Raffaelli, Rizzoli, Milano 2007, pp. 405-419
Albert Camus, Ce que je dois au football, in ˝France-Football˝, 17 décembre 1957
Pierre Lanfranchi, Bologna: “The Team that Shook the World”, in “The International Journal of the History of Sport”, 8 (1991), 3, pp. 336-346
Fabio Marri, Metodo, sistema e derivati nel linguaggio calcistico, in “Lingua nostra”, XLIV (1983), pp. 70-83
Jenö Konrad, in Le sport européen à l'épreuve du nazisme, mostra a cura del Mémorial de la Shoah de Paris
Alberto Cavaglion, 1938-1988: qualche considerazione in ordine sparso, in Dalle leggi razziali alla deportazione. Ebrei tra antisemitismo e solidarietà, a cura di A. Lovatto, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Vercelli “Cino Moscatelli”, 1992, pp. 39-45
David Bidussa, Meno memoria, più storia, in “Lettera internazionale”, 115 (2013), pp. 15-18
Michele Sarfatti, Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani di oggi, Einaudi, Torino 2002
Alessandro Pizzorno, Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo della virtù, Laterza, Roma-Bari 1998
Patrick Modiano, Fleurs de ruine, Éditions du Seuil, Paris 1991.

 

Nazismo e calcio/
Un calcio al nazismo

“Storie di persecuzione e di resistenza nel mondo del calcio sotto il nazismo” è il sottotitolo del nostro nuovo dossier La svastica allo stadio. Ne è autore Giovanni A. Cerutti, direttore scientifico dell’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea nel Novarese e nel Verbano-Cusio-Ossola “Piero Fornara”.
Dopo l’introduzione (“La fragilità dei campioni”) riprodotta in queste pagine, i quattro capitoli sono dedicati alle vicende di Matthias Sindelar (“I piedi di Mozart”), Arpad Weisz (“Un maestro del calcio europeo inghiottito nel nulla”), Ernest Erbstein (“L’uomo che fece grande il Torino”) e della squadra dell’Ajax (“La squadra del ghetto”).
Originariamente i quattro scritti sono stati pubblicati nei numeri 374 / 377 di questa rivista, tra l’ottobre 2012 e il febbraio 2013.
Trentadue pagine, stampa in bicromia, il dossier costa 2,00 euro e può essere richiesto alla nostra redazione come tutti i nostri numerosi “prodotti collaterali”. Per richieste superiori alle 10 copie, il costo scende a euro 1,50. Tutte le informazioni sul nostro sito arivista.org.
Entro breve il dossier sarà leggibile e scaricabile gratis dal nostro sito.
Per organizzare iniziative pubbliche, conferenze, presentazioni nelle scuole, ecc., con la presenza dell’autore, contattate direttamente l’Istituto storico della Resistenza sopra citato:
telefono 0321 392743 / fax 0321 399021 / sito www.isrn.it / info didattica@isrn.it.