rivista anarchica
anno 45 n. 395
febbraio 2015


dibattito

Il suicidio del capitalismo?

di Enrico Maltini
con uno scritto di David Graeber


Con il suo libro Il capitale nel XXI secolo, l'economista francese Thomas Piketty ha messo in crisi gli adepti dell'attuale struttura capitalistica.
Questo sistema sarebbe irrimediabilmente minato dall'aumento insostenibile delle diseguaglianze. Per questo la questione della distribuzione della ricchezza andrebbe oggi posta al centro.

la libertà politica senza eguaglianza economica è un inganno, una frode, una bugia”
Michail Bakunin

“Credo nel capitalismo, nei mercati aperti e nella proprietà privata...” sono parole di Thomas Piketty che si possono leggere nell'inserto culturale del Corriere della Sera del 9 ottobre scorso. E proprio questo è il bello: perché uno che nel capitalismo ci crede, sta provocando da qualche tempo una crisi di sconforto negli adepti dell'attuale struttura del capitale, dei mercati aperti e della proprietà privata. Contraddizioni in seno al capitalismo? Vediamo.
Il capitale nel XXI secolo. Con questo titolo temerario, l'economista francese Thomas Piketty ha pubblicato nel 2013 un volume di oltre 900 pagine (nella traduzione italiana di Bompiani, 2014, 22 euro), che chi scrive non esita a definire sorprendente. Sorprendente in primo luogo perché comprensibile ai non addetti e di facile e perfino piacevole lettura, cosa di per sé straordinaria per un testo di economia, poi perché già nella premessa espone i risultati più significativi, così che chi vuole si accontenta e chi non si accontenta può approfondire i diversi aspetti leggendo i capitoli relativi, ciascuno dei quali ha un senso compiuto. Sorprendente infine perché ha suscitato dibattiti accesi tra gli economisti, gettando nella costernazione gli adepti dell'accademia, egemonizzata dal pensiero neoliberale. Il dramma di quest'ultima è che il soggetto non può essere tacciato di essere marxista né anarchico né comunque un rivoluzionario antisistema.
E perché lo sconforto? È che costui ha dimostrato con una serie di numeri, dati e diagrammi di “precisione atroce e  difficilmente confutabile”, che in un regime capitalista, se non intervengono fattori esterni di disturbo, i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, ma alla fine inevitabilmente tutto il sistema va a rotoli.

Un trattato su uguaglianza e disuguaglianza

Il libro tratta del “Capitale” considerandone l'aspetto più essenziale e meno dibattuto: la sua distribuzione tra gli abitanti in tempi e luoghi diversi ed è di fatto un grande trattato sull'uguaglianza e la disuguaglianza. L'autore parte da una constatazione semplice ma fondamentale, quasi tautologica: in ogni dato momento il mondo, o una parte di esso, ha una ricchezza data, nè più nè meno, dunque la questione fondamentale dell'economia, la sola che davvero conta, è come quella ricchezza si distribuisce fra gli abitanti. Un argomento che gli economisti hanno sempre trattato poco, lasciandolo semmai ai politici e ai sociologi. Ma politici e sociologi non hanno il rigore del ricercatore e hanno in compenso una ideologia di riferimento che falsa inevitabilmente l'analisi. Inoltre l'autore del libro non ha alcuna pretesa di costituire una teoria economica, ma solo di osservare l'andamento delle disuguaglianze nell'ambito del sistema reale e individuarne, più che le ragioni primarie, che sono materia di più alta speculazione socio-politica e filosofica, le cause contingenti e le loro correlazioni. L'interesse e l'urgenza, dell'argomento viene rimarcata da Piketty perché a suo giudizio tali disuguaglianze possono diventare, e stanno diventando, insostenibili tanto da pregiudicare lo stesso sistema capitalistico. “L'economia deve rimettere la questione della distribuzione del reddito al centro dell'analisi economica” scrive, e per far questo la questione deve essere considerata, nella misura del possibile - l'economia non è una scienza esatta - con un approccio scientifico, politicamente laico, e fondato su numeri, fatti e dati.
Come in ogni lavoro di ricerca che si rispetti, la “parte sperimentale” è preceduta da una trattazione - quella che nelle pubblicazioni scientifiche prende il nome di “materiali e metodi” - ove l'autore descrive le fonti dei dati e la metodologia di elaborazione. Seguono l'analisi critica dei dati raccolti, la discussione dei risultati e le conclusioni. In verità, in questo caso proprio la ricerca e la raccolta dei dati, attinti da fonti storiche largamente inesplorate e su lunghi periodi di tempo è forse la parte più sostanziosa del lavoro, tanto che la loro sempilce esposizione è di per sè estremamente eloquente. In nome della trasparenza, e a suo dire per favorire critiche e contributi, l'autore ha messo tutti i dati originali e i dettagli delle metodologie di elaborazione in un sito internet consultabile1.
Rispetto al quadro storico e geografico, la trattazione parte dai pochi dati disponibili sulla situazione nel XVIII secolo, fino ai dati e alle statistiche sempre più attendibili dei tempi nostri (al 2010-2012 per l'esattezza), con un riferimento in particolare a Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia e Regno Unito, ma che si estende ad altre parti del mondo. Una mole di dati davvero impressionante, che giustifica l'entità, anche ponderale del volume.
Piketty richiama brevemente le classiche teorie economiche: da Robert Malthus (Saggio sul principio di popolazione, 1798) per il quale l'aumento vertiginoso della popolazione dei contadini poveri a cavallo del 19° secolo si prospettava come il vero problema che terrorizzava la ricca nobiltà, a David Ricardo (Principi dell'economia politica e dell'imposta, 1817) per il quale la crescita continua della popolazione, a fronte di una quantità finita di terre coltivabili, avrebbe alla lunga creato pochi ricchissimi proprietari e uno stuolo di contadini miserabili, con inevitabili rivolte e sconquassi sociali. Per inciso Ricardo (già allora più avanti di Matteo Renzi?), proponeva come efficace rimedio una forte imposta fondiaria: l'aborrita patrimoniale, come diremmo oggi.
Cinquant'anni dopo Karl Marx pubblicava il primo libro del Capitale, ove non più di una società agricola si trattava, ma di una dinamica industriale in pieno sviluppo e in mano a pochi non più latifondisti, ma veri “capitalisti”, cui faceva fronte lo sfruttamento di schiere non più di contadini ma di un proletariato industriale, altrettanto miserabile. Con la crescita della popolazione, l'esodo dalle campagne e il capitale industriale che - a differenza di quello fondiario - non è limitato e consente un'accumulazione infinita, arriverà quello “spettro che si aggira per l'Europa, lo spettro del comunismo”, che condurrà all'inevitabile vittoria finale del proletariato. Non è andata esattamente così... ma quella è un'altra storia.
Meriti e demeriti di quelle e di altre teorie meno note vengono discussi e una prima osservazione che ne deriva è che in economia ogni determinismo, anche relativo alle origini delle disuguaglianze, è fallace: non esistono meccanismi puramente economici perché sempre i cambiamenti politici e sociali, l'incidenza di guerre e rivoluzioni, tanto sociali che tecnologiche, e/o di altri eventi straordinari, catastrofici nel senso proprio di “capovolgimenti”, ne modificano l'evoluzione.
Una seconda “lezione”, che è tra i nodi centrali del libro, è che “la dinamica della distribuzione delle ricchezze si muove su fenomeni di grande portata” e non esiste alcun naturale meccanismo intrinseco che determina nel tempo una riduzione delle differenze (come è invece tesi di tutte le ideologie liberali, a partire dalla mitica mano invisibile del mercato, di Adam Smith2). Di fronte alla serie storica dei livelli di uguaglianza-disuguagliaza nei diversi paesi l'assioma liberista secondo cui il “libero mercato” senza vincoli e regole e fondato sul solo meccanismo domanda-offerta, determinerebbe il migliore dei mondi possibili3 e il più democratico, frana fragorosamente. Non a caso uno dei (pochi) tentativi nostrani di confutare le teorie di Piketty è firmato da Oscar Gianninio, in un blog che ha come motto “Perchè il mercato ha ragione anche quando ha torto”. Tutto dire, quanto a fanatismo ideologico! Viceversa, il libro è stato giudicato fondamentale da ben altri economisti “eretici” quali il premio Nobel Peter Krugmann e Joseph Stigliz.

Quanto sono grandi le disuguaglianze?

Un buon indicatore del livello di disuguaglianza in un paese è la quota di reddito che il 10% (il decile) più ricco della popolazione ha in rapporto al reddito globale4. Tale quota risulta, ad esempio negli Stati Uniti tra il 1910 e il 1920 del 40% circa (ossia il 10% più ricco si spartiva il 40% del reddito globale, lasciando il restante 60% per il 90% della popolazione), la quota cresceva fino ad oltre il 45% nel 1940, scendeva improvvisamente al 35% tra il 1940 e il 1980, per poi risalire costantemente, raggiungendo il 50% circa nel dato del 2010. Un andamento ad U che si ripete nei paesi occidentali, con ordini di grandezza simili.
Ma dobbiamo anche sapere che dentro quel 50-60% del reddito che va al 90% dei meno ricchi, si nasconde un'altra enorme sperequazione: al 50% dei più poveri, ovvero il 30% della popolazione, tocca una quota che va dal 2 al 5% del totale (il 4% in Francia, il 2% negli USA).
Dati analoghi sono spesso riportati dai media, con una qualche indignazione per la palese ingiustizia che descrivono, ma con molto meno impegno nell'indagare sulla loro origine e ancor meno sui possibili rimedi. Tanto ci pensa, come sappiamo, la mano invisibile...
II dati sopra riportati sono un esempio ma nel libro che, ripetiamo, è tutto impostato sulla misura delle disuguaglianze, troviamo un'infinità di altri dati, rapporti e correlazioni sulle divergenze di reddito e di capitale nei diversi paesi, dagli Stati Uniti alla Scandinavia, dal Giappone all'Africa sub-sahariana e nelle diverse epoche. Una mole di dati troppo difficile da sintetizzare.
Diciamo solo che il reddito medio nei paesi ricchi è oggi di 2500-3000 euro mensili, nei più poveri di 150-200 euro mensili e la media mondiale di 600-800 euro mensili, è su questi valori medi che si innestano mostruose disuguaglianze.

Qual è il primo motore delle divergenze?

Il tema dell'origine e dell'evoluzione delle differenze è il nucleo centrale del libro: secondo l'autore in un regime capitalistico puro, in assenza di turbamenti extra-ordinari, il fattore principale da cui derivano uguaglianza e disuguaglianza è il rapporto tra reddito del capitale e reddito del lavoro. Questa la spiegazione:
in un dato tempo e in un dato luogo, in un piccolo villaggio come nel mondo intero, l'economia risponde ad una equazione semplice:
la ricchezza R, intesa come reddito nazionale globale, è data dalla somma dei redditi da capitale r e dei redditi da lavoro g.

R = r + g

Piketty individua un fattore fondamentale di divergenza quando r > g, ovvero quando, per un periodo relativamente lungo, i redditi da capitale sono maggiori dei redditi da lavoro.
Il rapporto fra i due si può valutare in modo conveniente esprimendo il valore complessivo dei patrimoni privati (immobiliari, finanziari e di investimento, al netto dei debiti) in annualità del reddito nazionale (cioè del reddito, la ricchezza, prodotta in un anno nel paese5). Ad esempio in Francia risulta che il rapporto capitale/reddito nazionale equivale per tutto il XVIII e XIX secolo, fino al 1914, a circa sei-sette annualità di reddito (cioè i patrimoni dei soggetti privati avevano un valore complessivo sei-sette volte superiore al reddito nazionale annuale). Il rapporto crolla bruscamente in conseguenza della prima guerra mondiale, delle crisi tra le due guerre e della seconda guerra mondiale, arrivando negli anni tra il '20 e il '50 del secolo scorso a due-tre annnualità. Dopodichè il rapporto riprende a salire e da allora ad oggi non ha più smesso di crescere. Un andamento del tutto simile si osserva nel Regno Unito. Scopriamo così che siamo oggi tornati ad un rapporto patrimonio/reddito della nazione, simile a quello della “Belle Epoque”, alla vigilia della grande guerra!
Oggi, in Europa e Stati Uniti, il reddito nazionale pro capite è stimato intorno a 30.000-35.000 euro, mentre il capitale privato si aggira intorno ai 150-200.000 euro pro capite (dunque un rapporto tra 5 e 6). Pro capite significa che sarebbero questi i numeri per ciascuno di noi, se non ci fossero le micidiali disuguaglianze di cui sopra.
Per chi - come chi scrive - non mastica più che tanto di economia, è bene ricordare che il reddito è un flusso di ricchezza, che ogni anno si produce in un paese, mentre il capitale è uno stock, un serbatoio delle ricchezze accumulate nel tempo dagli abitanti. Di fatto, il reddito nazionale è molto vicino al fatidico pil (prodotto interno lordo), quello che ogni sera ci assilla nei telegiornali.
Ma quale è la causa prevalente di un andamento economico in cui il reddito da capitale rimane a lungo maggiore del reddito da lavoro? La risposta appare fin banale: è un regime di crescita relativamente lenta, o addirittura nulla ed è esattamente la condizione in cui si trova l'Europa oggi, con un Italia che più che crescere lentamente, non cresce affatto.
Il meccanismo che correla una crescita debole a un incremento della disuguaglianza viene così spiegato da Piketty:
“Avviene che nelle società a crescita debole i patrimoni ereditati dal passato assumono naturalmente un rilievo sproporzionato rispetto al debole flusso del tasso di crescita. In queste condizioni il rendimento del capitale investito (in azioni, obligazioni, terreni, immobili o altro) supera il reddito del prodotto che si ricava dal lavoro (il cosiddetto tasso di crescita del paese). Persistendo negli anni questa situazione, avremo una divergenza crescente tra chi vive della rendita dei capitali e chi vive con i redditi da lavoro: un'esaltazione continua della disuguaglianza. Diversamente accadrebbe se un tasso di crescita elevato e un conseguente alto reddito del lavoro, rendesse più conveniente per il possessore di capitali l'investimento produttivo anziché la rendita”.
La condizione in cui il tasso di rendimento del capitale supera in misura significativa il tasso di crescita è stata la più “frequente nel corso della storia, quantomeno fino al XIX secolo ed è destinata con ogni probabilità ad essere la norma nel XXI. In questa condizione per chi eredita patrimoni dal passato basta risparmiare una quota anche limitata di reddito del proprio capitale perché quest'ultimo si accresca più in fretta rispetto alla crescita economica nel suo complesso. In tali condizioni, è pressoché inevitabile che i patrimoni ricevuti in eredità prevalgano largamente sui patrimoni accumulati nel corso di una vita di lavoro, e che la concentrazione del capitale raggiunga livelli assai elevati, potenzialmente incompatibili con i valori meritocratici e i principi di giustizia sociale che costituiscono il fondamento delle nostre moderne società democratiche”.
Nelle ultime due righe si avverte un forte sapore di eufemismo, per non dire “incontrollabili rivolte sociali”.
Come sappiamo e come ci viene ogni giorno ripetuto, l'Europa non cresce o cresce poco, dunque la prospettiva è che chi dispone di capitali diventerà sempre più ricco a spese di chi vive solo di lavoro, destinato a restare sempre più povero. E così potrebbe essere ancora per anni, mettendo a rischio “l'essenza stessa della democrazia” dice ancora Piketty. Tutto questo senza tenere conto della disoccupazione, solo pochi anni fa ben lontana dai livelli attuali.

Il grafico mostra il valore del capitale privato in %
del reddito nazionale tra il 1870 e il 2010

Per contro, continuando il ragionamento su chi determina cosa, ci si deve chiedere quando e perché una crescita anziché lenta può essere rapida e quali altre situazioni sono favorevoli ad una riduzione della disuguaglianza. Le dinamiche di sviluppo degli ultimi tre secoli indicano che tassi di crescita elevati, associati a minori differenze, si verificano solo in conseguenza di eventi eccezionali e non come norma: nel lasso di tempo considerato i più importanti di tali eventi, nel mondo occidentale, sono stati: la rivoluzione francese nel 1789, la rivoluzione tecnologica a cavallo del '900, la prima e la seconda guerra mondiale e, nei paesi emergenti, il forte sviluppo da condizioni di sottosviluppo.
La storia dimostra anche che a favore della convergenza, ossia di una riduzione delle differenze, vi sono essenzialmente i processi di diffusione della conoscenza e le politiche di investimento in materia di formazione ed educazione, processi che consentono al tempo stesso la crescita generale della produttività e la riduzione delle disuguaglianze, sia a livello di ciascun paese, sia a livello mondiale. In effetti un incremento dei livelli generali di conoscenza si accompagna sempre ai periodi di forte sviluppo produttivo e il recente sviluppo delle economie emergenti ne è una dimostrazione palese.
Anche se può sembrare ridicolo parlare di riduzione delle disuguaglianze, ad esempio nella Cina di oggi, si deve tener conto degli abissali livelli di povertà preesistenti. Piketty non vi insiste troppo, forse per non essere liquidato come comunista, ma è evidente che tra le cause di turbamento, con effetto determinante di riduzione delle disuguaglianze, si collocano le lotte operaie e i conflitti sociali, anche questi tipici dei momenti di forte sviluppo. Per le ragioni che vedremo, gioca a favore anche l'incremento demografico, minimo da noi ma ancora elevato in paesi in via di sviluppo, oltre al ruolo evidente delle politiche fiscali.
Un effetto contrario ha invece il debito pubblico, questione oggi scottante, che ha l'effetto di far pagare a tutti gli interessi versati ai prestatori di denaro allo stato.
Dunque non vi sono mani invisibili, ma solo meccanismi a favore o contro l'uguaglianza e questo stride in maniera evidente con le teorie liberiste secondo le quali in un mercato “perfetto” il meccanismo domanda-offerta assicura di per sé la promozione di crescita e benessere. Anzi, è esattamente il contrario: è proprio in un mercato perfetto, non turbato da eventi eccezionali, che le dinamiche di incremento delle disuguaglianze si instaurano e si auto-alimentano.
Ben vengano allora i turbamenti (lo abbiamo sempre detto, no?) ed in effetti hanno avuto un effetto positivo, su scala mondiale, le lotte per l'indipendenza, la decolonizzazione, la caduta del muro di Berlino, ecc. Certamente una crescita rapida dei redditi da lavoro ha seguito sempre la fine di una guerra e la fase di ricostruzione, ma non è proprio un dato confortante.
Per un'idea dei numeri in gioco: una crescita del pil dell'1% sul lungo periodo è considerata buona, mentre un tasso del 3-5% annuo si verifica solo in condizioni eccezionali e non di lungo periodo. Al contrario, un tasso dell'0,1 o 0,2% annuo è appena sufficiente a mantenere lo statu quo. Sembrano numeri piccoli, ma il loro effetto cumulato negli anni è molto maggiore di quel che si immagina.

C'è rimedio?

Nelle centinaia di pagine del Capitale nel XXI secolo trovano posto moltissime altre osservazioni, dati e correlazioni tra i fattori che influiscono su uguaglianza e disuguaglianza. Vengono trattate a fondo la questione del debito, dell'accesso alla conoscenza, i livelli salariali, le sperequazioni retributive e l'“estremismo meritocratico”, le politiche fiscali, i problemi in materia di successione ereditaria, il ruolo dell'Unione Europea e molto altro. È negli ultimi capitoli che viene affrontata nei dettagli la questione dei possibili rimedi.
Anche per l'altra faccia della medaglia, quella dei rimedi, il discorso è lungo, complesso e articolato ma alla fine rimane un nucleo centrale che anche qui sfiora la banalità: occorre un'imposta progressiva sul capitale6, altrimenti non se ne esce. Piketty evita astutamente il termite patrimoniale, ma il senso è quello.
Facile a dirsi ma meno a farsi, dal momento che richiederebbe una vera trasparenza sulla reale sostanza dei capitali e soprattutto dovrebbe essere mondiale - o almeno europea per cominciare - e non compromessa dai paradisi fiscali che lo stesso capitale si è costruito. Oltre al fatto, possiamo esserne certi, che questa soluzione non è gradita a coloro che vi dovrebbero provvedere. Va detto che queste difficoltà sono chiaramente esposte e che la proposta è analizzata nei particolari, pro e contro. A parte l'effettiva realizzabilità, un particolare illuminante si ricava dai dati: di quale entità dovrebbe essere il prelievo?
Gli ordini di grandezza calcolati sarebbero questi: un tasso di imposta dello 0% sui capitali (beni immobili compresa l'abitazione, investimenti finanziari ecc.) fino a 1 milione di euro; un'imposta dell'1% sui capitali da 1 a 5 milioni di euro e del 2% oltre i due milioni. Oppure una maggiore progressività tipo il 5-10% oltre 1 miliardo di euro, o anche, al contrario, lo 0,1 sotto i 200.000 euro e lo 0,5 fino a 1 milione di euro.
Abbiamo sempre saputo che “se tutti pagassero le tasse, eccetera”, ma personalmente non avrei mai immaginato che prelievi praticamente inavvertibili per un contribuente sano di mente, come quelli calcolati da Piketty, fossero sufficienti per rendere se non altro meno indecente la distribuzione della ricchezza. In realtà l'efficacia di prelievi tanto modesti deriva dall'effetto di accumulazione nel tempo, analogamente a quanto prima ricordato a proposito del saggi di crescita.
La feroce opposizione liberista a prelievi di simile entità - difficile anche definirli una patrimoniale - è palesemente pura ideologia, o forse pura stupidità. Il fatto che anche prelievi di quest'ordine di grandezza siano considerati utopici, perché scatenerebbero protezionismi e trucchi fiscali tra le nazioni, ci insegna quali livelli di egoismi estremi siano ai vertici di quella che pudicamente chiamiamo “convivenza”.

Quali critiche, da destra e da sinistra?

Diciamo subito che le critiche da destra, essenzialmente derivate da un articolo di Chris Giles, caporedattore economico del Financial Times, basate su alcuni errori rilevati nei dati, sono state giudicate assai deboli. Tutti gli osservatori convengono che in una simile massa di dati qualche errore è inevitabile, e la loro correzione non inficia peraltro i risultati. Di “stroncatura fallita” da parte di “negazionisti della disuguaglianza” ha scritto perfino Il Sole 24 ore (6 giugno 2014) a firma di Paul Krugman. Tra l'altro, ci vien da suggerire che quella de Il capitale nel XXI secolo, è una critica al sistema capitalistico che non nasce da considerazioni etiche, o politiche o da opposte teorie economiche, ma che individua un meccanismo interno di autodistruzione del sistema e ne propone un rimedio. Dunque, alla faccia del Financial Times, possiamo dire che lo scopo ultimo di Piketty è la salvezza del capitalismo... ma di che si lamenta allora la destra?
Più sottili le critiche, non molte in verità, da sinistra, ma anche più ideologiche: ad es. il Manifesto definisce il libro “una inconfutabile fotografia del capitalismo contemporaneo” e ne conferma l'importanza, ma critica essenzialmente il fatto che nella teoria esposta non viene spiegata la natura primaria, costitutiva dell'accumulazione capitalista originaria e l'origine della proprietà privata. In un articolo tratto da Le Monde Diplomatique Piketty viene criticato in quanto riformista, a differenza di Marx che del capitalismo propone l'abbattimento (ma l'Economist lo definisce “il Karl Marx del XXI secolo”). Altre critiche lamentano la mancanza di parole quali “merce lavoro”, “sfruttamento”, “lotta di classe”.
Sono tutte osservazioni lecite, ma a mio parere fuori luogo: l'autore è un riformista e lo dice chiaramente, riferisce esplicitamente le sue tesi a periodi non turbati da avvenimenti particolari, riferisce le sue previsioni a questo sistema politico-economico in questo periodo e solo nel caso che nessun evento eccezionale ne modifichi la dinamica interna. Anche i rimedi che propone, per quanto ritenuti abbastanza utopici, sono quelli virtualmente possibili all'interno di questo sistema e di questo andamento economico. Peraltro, proprio l'aver circoscritto a condizioni definite le sue osservazioni, fa del lavoro di Piketty un classico lavoro di ricerca, i cui risultati ognuno può discutere, e non una speculazione teorica cui contrapporre altre speculazioni. Teorie e speculazioni sono confutabili, i dati non lo sono.
In definitiva un testo che non propone la rivoluzione ma dà delle informazioni utili sul funzionamento del sistema in cui viviamo, con una concretezza che ha messo in crisi d'identità l'accademia ufficiale, quella iperliberista per la quale gli unici rimedi ammessi sono austerità, rinuncia, scrificio, tagli, risparmio, sobrietà, moderazione, parsimonia e chi più ne ha più ne metta, purchè sempre ed invariabilmente degli altri.
Infine, perchè tanta attenzione per le tesi di Piketty? Sarà forse perché le dinamiche economiche perverse da lui descritte sono esattamente quelle che stiamo oggi vivendo?
Sarà forse perchè qualcuno comincia a preoccuparsi? “Perseverare diabolicum...” titola un sito recensendo il libro.

Enrico Maltini

post scriptum
A proposito di “contraddizioni in seno al capitale”: a Londra, l'11 novembre 2014, il “Financial Times Mc Kinsey Book of the Year Award” è stato assegnato a Il capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty. Ma siamo matti?

Note

  1. http://piketty.pse.ens.fr/capital/21c
  2. Lo scozzese Adam Smith, 1723-1796, viene considerato il primo degli economisti classici. Il suo La ricchezza delle nazioni nel 1776 diventa il testo di riferimento per tutti gli economisti del XVIII e XIX secolo. La metafora della mano invisibile, che regolerebbe automaticamente gli equilibri in un libero mercato, è tuttora il cardine delle dottrine liberali della deregulation e del laissez-faire.
  3. Più precisamente, il sistema creerebbe per tutti sempre maggiore ricchezza e benessere, e un possibile incremento delle disuguaglianze sarebbe un positivo stimolo alla crescita.
  4. È lo stesso concetto alla base del movimento “Occupy Wall Street”, che definisce se stesso “il 99%” e prende di mira l'1% (il centile) più ricco.
  5. Il reddito nazionale è la somma dei redditi da capitale e dei redditi da lavoro, in un anno.
  6. Attualmente è soggetto ad imposte - più o meno alte nei diversi paesi - il reddito del capitale, non il capitale stesso.



Il capitalismo selvaggio è tornato
(e non si addomesticherà da solo)

di David Graeber

I capitalisti diffondono la ricchezza solo quando minacciati da rivalità globali,
movimenti radicali e dal rischio di sollevazioni nei loro paesi.


Negli anni '90, ero solito discutere con amici russi sul capitalismo. Era un periodo in cui molti giovani intellettuali dell'Est Europa stavano accogliendo con fervore tutto ciò che era associato a quel particolare sistema economico, anche se le masse proletarie dei loro paesi rimanevano profondamente sospettose. Ogni volta che facevo notare qualche nuovo abuso criminale da parte dei nuovi oligarchi e dei politici corrotti, che stavano privatizzando i loro paesi riempiendo le loro tasche, alzavano le spalle. “Se osservi l'America, era pieno di imbrogli come questo nel 19° secolo, con le ferrovie e tutto il resto” ricordo che mi spiegò un gioioso e occhialuto giovane russo. “Siamo ancora nello stato selvaggio. Ci vuole sempre una generazione o due prima che il capitalismo civilizzi se stesso”.
“E pensi davvero che il capitalismo farà tutto da solo?”
“Guarda la storia! In America ci sono stati i baroni-rapinatori, poi, cinquant'anni dopo, il New Deal. In Europa c'è stato lo stato sociale...”
“Ma Serghei” protestai (ho dimenticato il suo vero nome) “non è successo perché i capitalisti hanno deciso di essere buoni. È successo perché avevano paura di voi''.
Sembrò commosso dalla mia ingenuità.
In quel periodo c'erano una serie di postulati che chiunque doveva accettare se voleva che gli venisse permesso anche solo di prendere parte a seri dibattiti pubblici. Erano presentati come una serie di equazioni auto-evidenti. “Il mercato” era equivalente al capitalismo. Capitalismo significava esorbitante ricchezza per i vertici, ma anche rapido progresso tecnologico e crescita economica. Crescita significava aumento della prosperità e ascesa di una classe media. A sua volta l'ascesa di un'agiata classe media stava sempre a significare governance democratica e stabile.
Una generazione più tardi abbiamo imparato che nessuno di questi presupposti può essere più assunto come corretto.
La vera rilevanza del volume di successo di Thomas Piketty “Il capitale nel XXI secolo” è dovuta al fatto che esso dimostra, in modo meticolosamente dettagliato, che nel caso di almeno una delle equazioni essenziali, i numeri semplicemente non quadrano. Il capitalismo non ha al suo interno una innata tendenza a civilizzare se stesso. Lasciato ai suoi dispositivi, ci si può di norma attendere che crei tassi di rendimento sugli investimenti molto più alti del tasso complessivo di crescita economica, cosicché l'unico possibile risultato sarà di concentrare sempre più ricchezza nelle mani di élite ereditarie di investitori.
In altre parole, quello che è successo nell'Europa Occidentale e nel Nord America approssimativamente tra il 1917 e il 1975, quando in effetti il capitalismo creò crescita elevata e minore ineguaglianza, fu un'anomalia storica. C'è una crescente presa di coscienza tra gli storici dell'economia sul fatto che le cose andarono così. Ci sono molte teorie sul perché. Adair Turner suggerisce che fu la particolare natura della tecnologia industriale della metà del secolo scorso a consentire alti tassi di crescita e un movimento sindacale di massa. Lo stesso Piketty sottolinea la distruzione di capitale durante le guerre mondiali e le alte tasse e regolamentazioni che furono permesse dalle mobilitazioni di guerra. Altri danno differenti spiegazioni.

L'Età dell'oro del capitalismo

Senza dubbio furono coinvolti molti fattori, ma quasi tutti sembrano ignorare il più ovvio. Il periodo in cui il capitalismo sembrò in grado di procurare una ricchezza ampia e diffusa fu precisamente anche il periodo in cui i capitalisti sentirono di non essere gli unici sulla piazza: quando affrontarono un rivale globale in Unione Sovietica, movimenti anticapitalisti rivoluzionari dalla Cina al Mozambico e la possibilità di una sollevazione di lavoratori in casa propria. In altre parole, invece di alti tassi di crescita che diedero ai capitalisti maggior ricchezza da distribuire, il fatto che questi avvertirono il bisogno di corrompere almeno una qualche porzione di classe lavoratrice fece confluire più soldi nelle mani delle persone comuni, creando un aumento di domanda per i beni di consumo che fu largamente responsabile dei significativi tassi di crescita economica che caratterizzarono l'Età dell'oro del capitalismo. A partire dagli anni '70, quando ogni significativa minaccia politica iniziò a svanire, le cose sono tornate alla normalità, con un avaro 1% che presidia un ordine sociale caratterizzato da crescente stagnazione sociale, economica e addirittura tecnologica.
Per essere precisi, fu il fatto che le persone, come il mio amico russo, credevano che il capitalismo avrebbe inevitabilmente civilizzato se stesso a garantirgli di non doverlo più fare.
Al contrario, Piketty inizia il suo libro denunciando “la pigra retorica dell'anti-capitalismo”. Non ha niente contro il capitalismo in quanto tale – e nemmeno contro l'ineguaglianza. Desidera solo che venga controllata la tendenza del capitalismo a creare una inutile classe di parassiti che percepiscono rendite e interessi. Afferma di conseguenza che la sinistra dovrebbe focalizzare la propria attenzione su governi eletti, dedicati a dare vita a meccanismi internazionali che tassino e regolino le ricchezze polarizzate. Alcune delle sue proposte – una tassa sul reddito del 80%!? – possono sembrare radicali, ma abbiamo a che fare con un uomo che, avendo dimostrato che il capitalismo è un gigantesco aspirapolvere che risucchia la ricchezza e la porta nelle mani di una minuscola élite, insiste nel dire che non dobbiamo semplicemente staccare la spina alla macchina, ma provare a costruire un aspirapolvere leggermente più piccolo che risucchi nella direzione opposta. Per giunta non sembra capire che non importa quanti libri venda o a quanti summit, con luminari della finanza o membri delle élite politiche, partecipi – il mero fatto che nel 2014, un intellettuale francese di sinistra possa dichiarare, senza correre rischi, di non voler rovesciare il sistema capitalistico ma solo di volerlo salvare da se stesso, è il motivo per cui tali riforme non avverranno mai. L'1% non esproprierà se stesso, nemmeno se glielo si chiede gentilmente. E ha speso gli ultimi trent'anni a impedire l'accesso ai media e alla politica, per assicurarsi che nessuno provi a farlo utilizzando gli strumenti elettorali.
Dacché nessuno sano di mente si augurerebbe un ritorno di qualcosa di simile all'Unione Sovietica, non vedremo neanche niente che assomigli alla socialdemocrazia della metà del secolo scorso, che fu creata per contrastarlo. Se vogliamo un'alternativa alla stagnazione e all'impoverimento, dobbiamo solo trovare il modo di staccare la spina della macchina e ricominciare da capo.

David Graeber

traduzione di Carlotta Pedrazzini
originariamente apparso su
The Guardian il 30 maggio 2014