rivista anarchica
anno 45 n. 395
febbraio 2015




Chi ci guarda

C'è una cosa che mi sono stufata di sentirmi dire: gli studenti non capiscono niente. È un mantra che certi docenti ripetono ossessivamente, spesso trascinando il finale della frase in un rap inconsapevole e sempre scuotendo la testa come i cagnolini col capo snodato che una volta si mettevano sul retro delle macchine.
Gli studenti non capiscono niente.
Ora, nei primi anni della mia ormai lunga carriera di insegnante, consideravo questa affermazione con perplessità incuriosita, domandandomi come mai a me capitassero, per strani giochi della sorte, studenti che invece non erano poi male. Anzi, in alcuni casi, risultavano strepitosi, a dispetto delle mie ingenuità giovanili e nonostante i mille errori che sempre fa chi, come me, viene catapultato in cattedra senza sapere bene che cosa ci si aspetti da lui/lei.
Gli studenti non capiscono niente.
Poi c'è stato un momento in cui ho cominciato a chiedermi cos'è esattamente che gli studenti non capiscono, e com'è che sono arrivati mostrarsi, in alcune circostanze e con certi docenti, come creature disinteressate e passive, concentrate sostanzialmente solo sul loro telefonino. Allora ho capovolto la mia prospettiva. Cosa vedono questi studenti che non capiscono niente quando guardano noi, i “maestri”?
L'altro giorno sono andata a sentire la lezione di un collega di gran fama. Non era una conferenza, ma una lezione normale, dentro un corso per studenti del triennio. Il collega non mi conosceva, dunque ero in incognito: la posizione privilegiata della mosca sul muro. Mi sono seduta e ho provato ad ascoltare con attenzione. Seduto, con davanti alcuni fogli, un tono di voce piatto e cantilenante, un disinteresse palese per quel che stava facendo e il disprezzo dipinto sul volto, il collega impartiva nozioni snocciolate nello spazio vuoto tra la cattedra e la prima fila di studenti, con un entusiasmo che avrebbe addormentato un ipercinetico, steso un pugile al primo incontro, annichilito l'idea stessa di interazione educativa, e probabilmente condotto persino Martin Luther King a imbracciare un fucile e sparargli, solo per porre termine a quella tortura. Dopo 35 minuti, cercavo affannosamente il telefonino, senza neanche rendermene conto, ma per puro desiderio di sopravvivenza. Dopo 47 minuti, volevo morire, mi scappava pipì, avevo urgenza di interrompere la cantilena in qualunque modo e volevo socializzare col ragazzino di fianco a me, che in tutta evidenza stava dormendo. Alla fine della lezione, mi sarei volentieri iscritta a un corso di step, giusto per fare un po' di movimento, dato che il cervello era definitivamente spappolato.
Dunque, sì, gli studenti non capiscono niente.
E tuttavia forse c'è un problema. L'istruzione è un dialogo formativo. DIALOGO: appunto. Il dialogo, tecnicamente, implica un'interazione, e, come dice Foucault, è di necessità un discorso, ovvero un processo basato sulla definizione di una relazione di potere. In questa relazione di potere, qui e ora nell'università italiana, la posizione one up spetta al docente, ed essa non viene mai messa in discussione. Non solo dagli studenti, che l'unico difetto che hanno è di sentirsi sconfitti in partenza e dunque di rinunciare preliminarmente a costruire uno scheletro culturale per comprendere il mondo, ma neanche dai professori medesimi. In questo universo variegato che va sotto l'etichetta di categoria docente, le forme di vita sono diversificate, e c'è la tipologia di cui sopra, ma anche l'idealista inaffondabile, l'entusiasta appassionato, il trascinatore di folle, e il docente invisibile (ovvero quello che non va quasi mai in aula). In quest'ultimo caso, ci va qualcun altro, di norma più bravo, ma non retribuito. Anni fa, ho chiesto a una giovane studiosa, ora esule oltreoceano (dove le hanno riconosciuto quel che vale) come mai gli studenti non si lamentassero per il fatto che in aula ci andava sempre lei al posto del docente titolare. Saggiamente, la ragazza mi ha risposto: “E perché dovrebbero lamentarsi? Io mi preparo, mi piace quello che faccio e mi prendo cura di loro”. Non fa una grinza, almeno finché ti va bene lavorare gratis al posto di qualcun altro che invece è pagato.
Gli studenti non capiscono niente.
Non sono particolarmente carismatica e neanche faccio di più di quel che dovrei. Mediamente, essendo una che conta poco o nulla nella gerarchia, ho corsi di circa 300 studenti, che sono ritenuti i più pesanti. Non ho mai avuto problemi di attenzione (se non mia, nel senso che normalmente arrivo alla fine dei corsi stremata) e devo confessare, senza troppa benevolenza, che da quei 300 occhi tondi, dall'interesse che ci vedo dentro, dalla scintilla della scoperta che si accende nel tempo, cambiando per alcuni di loro la direzione stessa della loro vita, ho imparato di certo molto di più di quello che loro hanno imparato da me. Non faccio di più di quello che dovrei, né sono più brava dei miei colleghi. Semplicemente, sono consapevole di quello che sto facendo: sto cambiando il mondo mentre dimostro ai ragazzi che credo in quel che faccio.
Ecco, se questa è fuffa, è vero: gli studenti non capiscono niente.
E probabilmente neanch'io.

Nicoletta Vallorani