rivista anarchica
anno 45 n. 396
marzo 2015





Siria/
Sulla via di Damasco

Atterrare a Damasco di notte: le luci verdi dei minareti dal finestrino dell'aeroplano. La prima volta che l'ho fatto è stato nel settembre del 2003. C'era una certa tensione tra i passeggeri, non tanto per la memoria ancora fresca delle Torri Gemelle, quanto piuttosto per via dell'onda lunga del conflitto iracheno, formalmente cessato – si pensava – con la caduta di Hussein nella primavera di quello stesso anno, ma di fatto ancora in corso. Insomma, a duecento chilometri, mezzora di volo, ci sono i caccia. La cosa fa una certa impressione.
La Siria era governata, da circa tre anni, da un uomo che la stampa chiama Assad. Il suo nome completo è Bashar Afiz al-Assad. È un esponente di un partito che si chiama Ba'th, comunemente definito Partito Arabo Socialista, per distinguerlo dalla sua costola irachena, pure chiamata Ba'th, ma frutto di una scissione avvenuta nel 1966.
Il Ba'th nasce nel 1947, fondato da al-Bitar, un intellettuale siriano che, nato nel 1912, era cresciuto nel contesto culturale della grande delusione che aveva seguito la fallita rivoluzione siriana del 1925, una rivolta contro il dominio coloniale francese che aveva tentato di ottenere l'indipendenza, senza riuscirci. Come anche l'altro fondatore, 'Aflaq, al-Bitar era damasceno e i loro ricordi della prima adolescenza si legavano alla difesa militare della città contro le truppe francesi, poi fallita. Cercare di comprendere le categorie politiche del mondo mediorientale attraverso le nostre definizioni di destra e di sinistra è un esercizio sterile e al contempo molto complesso. Questa precisazione vale per l'epoca in cui viviamo, e vale anche per le epoche che l'hanno preceduta. Vi sono, chiaramente, forti fattori economici e questioni di assi internazionali, e tutti questi fattori sono variabili nel tempo in base a contesti più ampi.
La storia del Medio Oriente è, in gran parte, e nei decenni del dopoguerra quasi per intero, legata al partito del Ba'th. E il partito del Ba'th fu, prima di tutto e prima di qualsiasi asse di pensiero ideologico o socio-economico, una forza anticoloniale. Leggiamo i romanzi di Agatha Christie. Ci sono inglesi e francesi dappertutto. Leggiamo la storia delle scoperte archeologiche nel primo Novecento: inglesi, e francesi, dappertutto. Nel 1925, la Siria non era riuscita a scacciarli, ottenendo solo una ridiscussione dei termini dei mandati. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l'esigenza di un nuovo tentativo era imprescindibile.
Il dominio francese in Siria datava al 1920. Il regno indipendente aveva avuto storia breve. Era nato nel 1918 con la caduta dell'impero ottomano, era stato smantellato dalle forze coloniali nel giro di un paio d'anni. La battaglia finale che portò alla conquista francese, avvenuta a Maysalun, a una decina di chilometri da Damasco, fu uno dei più vili massacri della storia coloniale nel Medio Oriente. 3000 soldati della resistenza, che appoggiavano la sovranità del re, vennero massacrati da un'armata di 9000 europei, meglio armati e meglio equipaggiati. E dalla dominazione francese, dopo la seconda guerra mondiale, la Siria non si era ancora liberata. Lo fece nel 1946. A una serie di manifestazioni da parte della società civile, cui la Francia rispose a suon di bombe, seguì un deciso intervento degli inglesi, che erano molto attenti a ridurre le influenze di altri europei nella regione: se non lo avessero fatto, forse, le prime battute della Guerra Fredda avrebbero preso una piega differente.
Il Ba'th nacque l'anno successivo. Era una forza anti-colonialista che dal Libano e dalla Siria si diffuse in altri paesi dello scacchiere. All'epoca, la nascita di Israele costituiva un nodo cruciale del pensiero politico mediorientale. Era un aribitrato europeo, che prendeva forma in un momento in cui la regione spingeva in direzione di una forte autodeterminazione delle nazioni, e, in certe sue forme, di una macronazione araba. Ma non c'è religione forte abbastanza da tenere uniti i sentieri di realtà e nazioni differenti. Dopo “il disastro” (al-nakba), ovvero la rovinosa guerra arabo-israeliana del 1948, la Siria conobbe una catena di colpi di stato e cambi di governo e un breve periodo di unione con l'Egitto di Nasser. Fu solo dopo lo scioglimento della Repubblica Araba Unita che il Ba'th prese il potere a Damasco, nel 1963, ma l'etichetta socialista non era destinata a produrre un programma politico coerente nei diversi stati in cui il partito andava affermandosi.
Nel 1966, all'alba della Guerra dei Sei Giorni, un nuovo conflitto incentrato sulla questione israeliana, il Ba'th siriano ebbe una svolta autoritaria, che portò alla scissione dal Ba'th iracheno (allineato alla cosiddetta “sinistra” araba), e alla presa di potere, nel 1971, da parte di un militare, Hafiz al-Assad, il padre dell'attuale presidente. Assad Sr. dovette far fronte a gravi problemi di stabilità interna al paese, che lo portarono a sviluppare una dittatura monopartitica con forte esercizio dell'autorità di polizia, e per perseguire questa stabilità percorse la via dell'uniformazione religiosa islamica: represse minoranze curde privandole della cittadinanza, ma la sua appartenenza alla setta alauita dell'islam sciita lo portò ad affrontare severe opposizioni dei sunniti conservatori, in particolare in seguito al suo sempre maggior allineamento al blocco sovietico.
La crescita del movimento dei Fratelli Musulmani si colloca in questo contesto. Una delle prime sanguinose battaglie civili che opposero il movimento estremista sunnita alle politiche del dittatore prende il nome di Massacro di Hama. Avvenne nel 1982, e vi persero la vita un migliaio di soldati dell'esercito regolare e dai seimila ai trentamila civili. Nel frattempo, mentre il Ba'th siriano inseguiva al tempo stesso una secolarizzazione delle istituzioni della cosiddetta repubblica e una generalizzazione del culto islamico nel paese, il Ba'th iracheno aveva preso il potere, prima con il colpo di stato di Hasan al-Bakr e poi con la successione del suo braccio destro Saddam Hussein, la cui politica interna mirava pure a una laicizzazione dello stato (l'Iraq abolì presto la Sharia in favore di un sistema di codice civile di stampo europeo), e la cui politica estera mirava alla supremazia politica ed economica sull'Iran, altra grande potenza sciita della regione. Per far questo, ottenne il sostegno degli Stati Uniti, che avrebbe perduto nel 1990 quando invase il Kuwait.
La Siria di Assad Sr. fu costantemente segnata da un forte interesse nei confronti del problema palestinese; tuttavia, occorre considerare il bilancio propagandistico della questione e la formazione di Yasir Arafat, per comprendere i motivi del mancato appoggio siriano alle organizzazioni locali palestinesi. Arafat si era formato nel movimento dei Fratelli Musulmani, i cui rapporti col Ba'th erano difficili. Assad preferì dunque sostenere altri tipi di gruppi anti-israeliani, come il libanese Hezbollah e, ovviamente, Hamas. Lo faceva con una mano, mentre con l'altra aderiva alle indicazioni delle Nazioni Unite. Sul fronte del Kuwait, Assad Sr. appoggiò gli americani nelle operazioni anti-irachene. Probabilmente, la memoria storica è breve nella campagne della jazirah, o forse l'unione culturale supera i confini dei disastri passati quando si affrontano quelli futuri, perché nel 2003, per le persone che ho conosciuto a Deir-ez-Zawr, Saddam Hussein era invece un martire e un eroe.
Assad Sr. morì nel 2000, e dopo un breve interregno istituzionale fu succeduto, secondo il meccanismo monopartitico e plebiscitario della repubblica islamica, da suo figlio Bashar-al-Assad. Il suo tempo entra nella piccola storia della mia vita in Siria, durata circa cinque mesi, due e mezzo nell'autunno del 2003, due e mezzo nell'autunno del 2005. Bashar-al-Assad ha tentato un processo di graduale liberalizzazione della vita civile nel paese. Ad esempio, nel 2003, quando lasciai la Siria, in aeroporto dovetti consegnare le SIM del cellulare locale, che venne tagliata dai poliziotti davanti ai miei occhi. Nel 2005, questo fenomeno era cessato. Ma la liberalizzazione che aveva avviato Assad Jr. non se la poteva permettere, e lo capì molto presto. I tempi cambiavano, e si rendeva necessario un traumatico cambio di rotta.
Quanto sia stato traumatico, non è difficile immaginarlo. Io ho lasciato la Siria per l'ultima volta ai primi di novembre del 2005. Era un paese in cui, sebbene da un po' di tempo l'accesso a internet fosse aperto, sebbene le donne, soprattutto a Damasco e Aleppo, mostrassero visi e persino gambe in maniera sorprendentemente libera, a seconda dei credi di adesione – resta inteso -, e sebbene nelle città gli uomini istruiti almeno al punto di saper leggere il giornale di moglie ne avevano una sola, le periferie iniziavano a dare segnali strani.
Nel 2003, le barbe venivano tagliate. Nel 2003, Hussein era un martire, l'America un aggressore, ma si respirava ancora un senso di liberazione, per l'allentamento della morsa sulle libertà civili dopo la morte di Assad Sr. Gli italiani, gli europei, erano visti con simpatia. Nel 2005, le minacce occidentali e l'aumento della tensione erano vissute, dagli uomini della regione un po' sperduta in cui ho abitato, come delle gravi minacce alla sovranità della Siria. Le barbe si allungavano, le donne avevano il viso coperto. Voi state con Israele. Noi stiamo con Assad. (Non dite mai “Israele”, si raccomandavano i capi dello scavo archeologico. Dite “Disneyland”.)
Il tema portante della politica estera di Assad Jr. era, infatti, rimasto più o meno quello che aveva caratterizzato quella di suo padre. Ma il contesto del conflitto palestinese, negli anni recenti, è cambiato. Il sostegno nei confronti di organizzazioni estremiste come Hezbollah comporta, dopo la crescita di visibilità di movimenti come quello dei Fratelli Musulmani nel contesto della cosiddetta Primavera Araba del 2010-2011, la nascita di una forte opposizione interna, che è stata una dei motori principali dello scoppio, anche in Siria, di una guerra civile. A questo punto, potrei prendere un tono patetico. Elencare i nomi di città e cittadine dove ho conosciuto delle persone, e che ora, stando alle ultime notizie che ho avuto, sono state devastate. O parlare della storia di un ragazzo siriano di 25 anni, rapito col suo taxi qualche mese fa, ad Aleppo. E dire che, ad Aleppo, il padre per riavere il figlio ha dovuto pagare 5000$ (lo abbiamo aiutato noi, i vecchi amici), ma per riavere il taxi ne avrebbe dovuti pagare 20'000. Ma queste forse sono le cose che accadono in ogni guerra.
Mi accontento invece di aver raccontato una storia che mi appassiona, su un paese che ho, per un po' anche se per poco, vissuto in prima persona. Un pezzo di me, però, è rimasto a Damasco, nell'ufficio di un falsario “legale”, un artista che crea riproduzioni di antichità e le vende (repliche di tavolette cuneiformi, oggetti in metallo, in legno), un pomeriggio di novembre del 2005. C'era appesa una foto al muro, una foto che da noi, credo, farebbe fatica ad arrivare. Ritraeva un bambino di dieci anni, un musulmano palestinese, con una divisa verde. Il bambino guardava in camera, nell'istante in cui sulla sua fronte si apriva un terzo occhio, rosso, il foro di un proiettile. Ecco, io là ci ho lasciato qualcosa, in quella stanza, di fronte a un'immagine che rappresenta alla perfezione la complessità di un mondo che a volte l'Occidente osserva con occhio troppo distratto, finché non sono i suoni delle bombe a ricordarci quanto è piccolo il mare che lo separa dalle nostre vite.

Federico Giusfredi



Ricordando Antonia Fontanillas/
Una compagna instancabile e solidale

L'affetto che Antonia ha regalato, anche a me e a diversi compagni e compagne italiane, era forte come le sue convinzioni libertarie. Ci conoscemmo nel 1983, alle Giornate Culturali del Congresso della CNT che si svolgeva a Barcellona, e mi aiutò subito nelle ricerche storiche con puntualità e precisione. Le piaceva ricorrere alla sua vasta biblioteca, eredità di una famiglia di storica militanza, per fornirmi fotocopie di articoli di difficile reperimento. E accompagnava questi regali preziosi con una serie di considerazioni di più ampio respiro. Conversare con lei era un piacere che ci guidava dentro i problemi di ieri e di oggi dell'anarchismo (e non solo in Spagna), delle sue lotte, dei suoi principi e dei suoi inevitabili limiti e contraddizioni.
Provava una particolare soddisfazione nel far visitare, purtroppo solo dall'esterno, gli edifici nei quali si realizzarono i passi avanti sulla strada della rivoluzione antiautoritaria nella Barcellona del 1936. Qui c'era la sede delle Juventudes Libertarias, lì dell'Ateneo Libertario e non molto lontano del cruciale Sindacato della CNT della Madera. E non trascurò, con un ritorno al passato più remoto, la modesta abitazione della famiglia Fontanillas Borras nella cupa Calle Robador del povero (e malfamato per i borghesi) Barrio Chino. Oggi quest'ultimo edificio non esiste più, vittima dello sventramento “modernizzatore” e “bonificatore” di qualche anno fa. Non poteva poi mancare la famosa ed enorme Casa della Regional della CNT, già Casa Cambò e al momento della nostra visita ormai sede del potente Fomento, struttura economica legata al franchismo.
Di sicuro Antonia era assai sensibile ai valori delle organizzazioni libertarie che hanno costituito la costante di tutta la sua vita, ma disponeva, come ácrata coerente, di un'ottica individuale e non temeva di assumere talvolta posizioni critiche nei confronti di certe scelte, passate e presenti, dell'anarcosindacalismo e del movimento specifico. Più volte rievocò la sua personale scelta, condivisa da altre compagne, di non partecipare al movimento delle Mujeres Libres alle cui militanti peraltro attribuiva un grande significato. Su questo tema sorprendeva compagne e compagni stranieri abbeverati alle numerose pubblicazioni che esaltavano ML come l'avanguardia nella battaglia per la liberazione del genere femminile. La spiegazione di questa distanza risiedeva sia in un'evidente differenza generazionale (più mature le ML, più adolescenti lei e le altre delle Juventudes Libertarias) sia in una valutazione classica: la lotta delle anarchiche non poteva scindersi da quella più ampia che coinvolgeva tutte e tutti. L'ideale e l'obiettivo della totale emancipazione degli esseri umani dall'oppressione capitalista e statale costituivano un impegno comune. Secondo quanto ci comunicava Antonia, le compagne avrebbero dato un migliore contributo allo sforzo sovrumano del 1936-39 collaborando strettamente con i compagni dentro la CNT e la FAI.
Questa presa di posizione poteva sembrare poco sensibile al nuovo clima diffuso anche in Spagna dopo la fine di Franco (che non significava la fine del franchismo, ci teneva a precisare). Ma non le impediva di dedicarsi a scrivere una biografia di Lucía Sánchez Saornil, una delle principali esponenti di ML. Antonia era affascinata dalla sua personalità controcorrente e dalla sua sensibilità poetica e letteraria e negli ultimi anni volle concretizzare questo sforzo di redazione storica.
Un'altra valutazione poco scontata era la sua riserva sulla efficacia della lotta armata clandestina condotta dall'anarchismo spagnolo. Secondo lei, nel tracciare un bilancio complessivo dell'esperienza, alla quale aveva comunque partecipato, le organizzazioni libertarie fecero delle scelte e delle modalità sbagliate, per quanto eroiche. I militanti più generosi e coraggiosi si sacrificarono per portare a termine qualche azione di attacco al franchismo e ai franchisti in una cornice assai sfavorevole. Il contesto negativo era purtroppo insuperabile non solo per la prevedibile repressione capillare del sistema dominante, ma anche per la difficoltà di svolgere una propaganda di più ampio respiro. In quella Spagna terrorizzata dal regime era quasi impossibile far comprendere agli interlocutori naturali - il popolo degli sfruttati e degli oppressi -, le ragioni di fondo del movimento che – Antonia lo ricordava spesso -, risiedevano sostanzialmente in un messaggio, pratico e teorico, di uguaglianza nella libertà. Anche in questo caso, i suoi dubbi non le impedirono di solidarizzare con chi si trovava in prigione in seguito all'attività clandestina. Basti ricordare che la giovane Antonia conobbe Diego Camacho negli anni Cinquanta, quando il futuro Abel Paz era ristretto in un carcere barcellonese. E va ricordato che lei continuò a considerarlo, anche dopo la separazione, un “compagno speciale” nelle lettere che scrisse fino a qualche mese fa, l'estate scorsa.
Nel complesso l'eredità di Antonia, al di là di ogni retorica e agiografia, ci mostra la dimensione individuale di un impegno ideale e concreto. Questa esistenza fornisce un esempio di come e quanto l'aspirazione ad un mondo denso di alti valori etici possa resistere durante una lunga vita. In quasi un secolo percorso, logicamente con i suoi alti e bassi, Antonia ha partecipato senza riserve a un movimento che ha l'ambizione utopistica di rendere libera l'umanità intera.

Claudio Venza

P.S. Il 30 dicembre 2014 a Barcellona, nella Biblioteca Arús, si è svolto un Homenaje a Antonia Fontanillas curato da Sonya Torres, storica dell'anarchismo e sua stretta collaboratrice. In precedenza c'era stata una manifestazione pubblica con la collocazione di una lapide in Calle Robador, nel popolare e centrale rione del Raval (o Barrio Chino). Durante le tre ore alla Arùs si sono susseguiti molti interventi dando vita a una “memoria trasformata in esperienza vitale”.Si sono recitati brani di e su Antonia, si è cantato, si sono eseguiti numerosi brani musicali e teatrali. Inoltre era visibile una ricca esposizione di documenti e immagini sulla sua lunga militanza e si è presentato il volume postumo con la biografia della militante di Mujeres Libres, Lucia Sánchez Saornil, un obiettivo che finalmente si è realizzato, anche se postumo.


Qualche fiore per Antonia

Conobbi Antonia Fontanillas e Pepita Carpena nell'incontro “Anarchica, riflessioni sulla diseguaglianza sessuale” a Lyon nel 1987.
Entrambe sono venute a Lussemburgo nel giugno del 97, per partecipare ai dibattiti sui film “Libertarias” e  “De toda la vida”. Chi potrebbe dimenticare queste due militanti e dirigenti libertarie, che non esitavano ad esprimere il loro disaccordo su parecchi aspetti? Niente a che vedere con i conferenzieri politici all'uso dovunque, e ancora meno in un paese che allora non aveva nemmeno l'università e dove tuttora la libertà d'espressione è troppo timida. Durante i giorni lussemburghesi, si sono consolidati gli affetti con tutte e due. Su Pepita mi esprimerò in un'altra occasione. In questa mi è stato chiesto di scrivere qualche riga in ricordo di Antonia. Poco facile.
Oltre alla lucidità, cultura, vivacità ed intelligenza di Antonia, tre cose mi rimarranno impresse sempre: il suo coraggio di vivere, il suo amore per i fiori e la sua voce chiara, con la quale cantava un vastissimo repertorio messicano e catalano.  Era sempre felice quando le dicevo che ogni bel fiore che vedevo mi faceva pensare a lei. E, infatti, se le mandavo qualche cartolina con dei fiori, Antonia, che curava come nessuno gli scambi epistolari, mi faceva arrivare una lettera con delle fotocopie di fotografie di fiori fatte da lei.
In una delle ultime conversazioni telefoniche, mi fece capire che era stanca, che si sentiva mancare le forze. Continui a cantare? –mi chiese. Certo –risposi. Allora abbiamo cantato insieme il passaggio di un bolero. La sua voce era rimasta chiara e la sua memoria intatta. Lei, però, non era soddisfatta. Vedi? –mi disse. Questo mi dispiace, di non avere più tanta forza per cantare, perché respiro male. Ma sai cosa faccio? Quando mi corico, mi canto mentalmente le canzoni che amo di più e così mi posso addormentare.
Bella, cara, dolce, energica, coraggiosa Antonia, grazie dei fiori, delle canzoni, dell'esempio. Averti incontrata ci aiuta a voler essere migliori.

Paca Rimbau Hernández



Vita di Antonia

Nata a Barcellona nel 1917, in una famiglia di militanti anarchici, si trasferisce in Messico a otto anni restando fino al 1933, quando suo padre viene espulso per ragioni politiche. Nell'ambiente messicano effervescente e stimolante, sviluppa la grande attenzione di tutta la vita verso i libri, le riviste, la stampa di tipo sociale e letterario.
Tornata con i suoi a Barcellona, trova lavoro in una litografia e si iscrive subito alla CNT e alle Juventudes Libertarias dove è molto attiva. Nell'estate del 1936 (come risulta anche dal suo racconto pubblicato sul numero speciale di “Volontà” dal titolo “Spagna 1936. L'utopia è storia” del 1996) cerca di partecipare allo sfortunato sbarco su Majorca caduta in mano ai golpisti, ma è troppo giovane per un'impresa di quel tipo. Partecipa alla gestione della litografia Riusset dove spinge per la collettivizzazione che però non è accettata dagli operai. Lavora nell'amministrazione del quotidiano anarcosindacalista “Solidaridad Obrera” che viene soppresso dai franchisti nel gennaio 1939, appena conquistata la metropoli catalana.
Si dedica quindi alla stampa clandestina della “Soli” e poi di “Ruta”, altro foglio libertario che ospita i suoi primi articoli. Nell'impegno di solidarietà verso i detenuti libertari conosce Diego Camacho, alias Abel Paz, a cui si unisce per rifugiarsi nel 1953 in Francia. Qui mantiene contatti stretti con il gruppo del guerrigliero Quico Sabaté, ucciso dai franchisti nel 1960 e si impegna intensamente nei campeggi internazionali promossi dalla gioventù anarchica e in attività teatrali e culturali di propaganda libertaria. Collabora alla rivista “Frente Libertario”, una testata di lunga durata, edita in Francia da esiliati, e su posizioni indipendenti dalle grandi organizzazioni spagnole. Dopo la morte di Franco è presente a tutti i congressi della CNT ricostituita fino al 1983 e poi della CGT, sorta come scissione dalla CNT. Partecipa a frequenti incontri culturali e politici di carattere antiautoritario in Francia, Spagna e Italia. A Torino, nel 1997, porta le critiche anarchiche alla propaganda filosovietica che ancora è presente in certe commemorazioni e ricostruzioni storiche antifasciste.
Per decenni sostiene il superamento delle divergenze tra libertari e anarcosindacalisti di varie tendenze dando più spazio, teorico e pratico, alle notevoli affinità e meno alle indubbie differenziazioni.
Scrive, da sola o con altri, vari libri preferendo dar corpo a biografie di importanti militanti, uomini e donne: dalle promotrici di Mujeres Libres a Lola Iturbe, redattrice di “Tierra y libertad”, da Germinal Gracia (alias Victor García), conoscitore di molti movimenti di rilievo internazionale, a Luce Fabbri. Anche grazie ad Antonia si realizza, nel Maggio del 2007, un numero eccezionale della “Soli” sia per gli articoli sia per l'inedito spirito di collaborazione. Quell'edizione della “Soli”, di notevole spessore e qualità, viene curata e diffusa da entrambi i rami principali dell'anarcosindacalismo spagnolo (CNT e CGT). Continua fino agli ultimi giorni a mantenere positivi rapporti con giovani militanti ai quali comunica un entusiasmo e una fraternità di livello elevato.

c.v.

Antonia Fontanillas (Barcellona 1917-Dreux 2014)

 



Naga 2014/
Stanno tutti bene

L'Associazione volontaria di assistenza socio-sanitaria e per i diritti di cittadini stranieri, rom e sinti (Naga) ha svolto un'indagine sulle condizioni socio-sanitarie ed economiche della popolazione immigrata in Italia. L'analisi dei dati raccolti dal Naga tra il 2009 e il 2013 permette di ricostruire la composizione dell'immigrazione irregolare e di dare una lettura diversa degli effetti della crisi economica.
I risultati della ricerca sono stati inseriti nel Rapporto Naga 2014, di cui pubblichiamo le conclusioni.

Il Naga offre da quasi trent'anni assistenza sanitaria gratuita ai cittadini stranieri - non in regola con il permesso di soggiorno o neocomunitari che non hanno accesso alle prestazioni del Servizio Sanitario Nazionale. Data la peculiarità della sua utenza, i dati Naga rappresentano una fonte di informazione originale e privilegiata sul fenomeno dell'immigrazione a Milano. Essi consentono di documentare l'evolversi nel tempo delle caratteristiche demografiche e socio-economiche di una popolazione che sfugge sostanzialmente alle rilevazioni statistiche ufficiali.
Questo rapporto ha analizzato i dati raccolti dal Naga sui circa 15.000 utenti che tra il 2009 e il 2013 si sono recati per la prima volta al Naga (il numero totale di visite nel corso di questi anni è stato circa 4 volte superiore, ma le informazioni socio-demografiche sul migrante sono relative solo al momento della prima visita). Particolare attenzione è stata prestata ai 2.417 utenti che hanno raggiunto il Naga per la prima volta nel 2013. Il Rapporto ha analizzato le caratteristiche del campione Naga, con riferimento, in particolare, a nazionalità, genere, situazione familiare, anzianità migratoria, livello di istruzione, situazione abitativa e condizione lavorativa. Lo studio ha anche considerato le interazioni più significative fra queste variabili. [...]
Sebbene il profilo demografico dell'utenza Naga sia rimasto relativamente stabile nel tempo, a partire dal 2008 si assiste ad un fortissimo peggioramento degli esiti lavorativi del nostro campione. Lo studio documenta infatti come la crisi economica abbia sortito effetti molto pesanti sui tassi di occupazione degli utenti Naga e sulla stabilità percepita del posto di lavoro, per i pochi che ce I'hanno. In particolare, la percentuale di occupati sugli attivi nel campione Naga è passata dal 63% nel 2008 al 36% del 2013; la riduzione è stata di oltre 10 punti percentuali per la componente femminile. Contestualmente, la percentuale di coloro che percepisce come relativamente stabile il proprio lavoro (occupazione permanente) è passata dal 52% del 2008 a meno del 25% del 2013. È inoltre sensibilmente peggiorata la condizione abitativa del campione, con un preoccupante aumento dei senza fissa dimora.
L'interpretazione delle cause di questi fenomeni estremamente complessi esula dagìi obiettivi del presente Rapporto, che più modestamente intende offrire evidenza statistica originale su un fenomeno altrimenti sconosciuto. Eppure, almeno due conclusioni possono essere tratte dallo studio.
In primo luogo, il timore che l'immigrazione stia penalizzando i lavoratori italiani dal mercato del lavoro non trova riscontro empirico nei dati. Questo timore nasce dalla tesi secondo la quale i lavoratori immigrati (soprattutto irregolari) esercitano nel mercato del lavoro una concorrenza sleale “al ribasso” nei confronti degli italiani. Di conseguenza, la loro presenza spiazzerebbe la forza lavoro autoctona aumentandone la disoccupazione. Da un punto di vista empirico, questa tesi implica andamenti speculari nei tassi di occupazione nelle due popolazioni (immigrati e nativi), il che è ampiamente smentito dai fatti. In altre parole, non vi è evidenza di una riduzione dei tassi di occupazione degli italiani cui corrisponde un aumento (o una minore riduzione) dei tassi di occupazione dei lavoratori immigrati. Al contrario, i dati relativi ai tassi di occupazione di italiani, stranieri regolari e irregolari. provenienti da tre differenti fonti statistiche ISTAT, ISMU e, appunto, Naga puntano sulla crisi economica iniziata nel 2008 quale causa dell'aumento della disoccupazione. La riduzione dei tassi di occupazione ha colpito tutti i tre gruppi, ma si è abbattuta con particolare virulenza sulla popolazione irregolarmente presente in Italia.
ln secondo luogo, i risultati dello studio suggeriscono con forza la necessità di appropriati interventi pubblici. I dati non consentono di distinguere fra due possibili cause fra loro complementari della maggiore vulnerabilità alla crisi del campione Naga. La prima vede gli immigrati del campione inseriti in un segmento del mercato del lavoro particolarmente fragile e maggiormente esposto alle conseguenze occupazionali della crisi economica. La seconda spiegazione rimanda al processo di autoselezione degli immigrati che si rivolgono al Naga: come ampiamente discusso nel rapporto, lo status occupazionale degli immigrati influenza sia la possibilità di avere il permesso di soggiorno che quella di accedere pienamente al Servizio Sanitario Nazionale. Di conseguenza, nell'utenza Naga sarebbero sovrarappresentati gli immigrati privi di (regolare) lavoro.
ll corto circuito tra mancanza di lavoro (regolare o meno), difficoltà nell'ottenere (e mantenere) iregolari documenti di soggiorno e le limitazioni all'accesso alle cure attraverso il servizio sanitario pubblico è acuito dalla crisi e alimenta una condizione di rischio per la salute e in generale per le condizioni di vita delle persone che si trovano in questa morsa. Una situazione che richiede un'attenta riflessione e interventi mirati in termini di salute, legislativi - slegando il permesso di soggiorno dal contratto di lavoro - e di tutela dei diritti in specifici segmenti del mercato del lavoro.

Associazione Volontaria di Assistenza Socio-Sanitaria e per i Diritti di Cittadini Stranieri, Rom e Sinti
Via Zamenhof 7/A, 20136 Milano
Tel: 0258102599 - Fax: 028392927
naga@naga.it

Chi siamo

Il Naga è un'associazione di volontariato laica e apartitica che si è costituita a Milano nel 1987 allo scopo di promuovere e di tutelare i diritti di tutti i cittadini stranieri, rom e sinti senza discriminazione alcuna. Il Naga riconosce nella salute un diritto inalienabile dell'individuo. Il contatto diretto e quotidiano con stranieri irregolari e non, rom e sinti permette di interpretarne i bisogni e di individuare risposte concrete, nonché di avanzare proposte, richieste, rivendicazioni nei confronti di strutture sanitarie e istituzioni politiche. Gli oltre 300 volontari del Naga garantiscono assistenza sanitaria, legale e sociale gratuita a cittadini stranieri irregolari e non, a rom, sinti, richiedenti asilo, rifugiati e vittime della tortura oltre a portare avanti attività di formazione, documentazione e lobbying sulle istituzioni.
L'associazione non si pone in alternativa o in concorrenza con i servizi sanitari pubblici, né desidera deleghe nell'ambito di un settore che rientra tra le funzioni preminenti dello Stato sociale; si propone, anzi, di estinguersi come inevitabile conseguenza dell'assunzione concreta e diretta del “problema” da parte degli organismi pubblici preposti.
In un anno, vengono svolte dal Naga più di 15.000 visite ambulatoriali, oltre 800 persone che vivono nelle aree dismesse della città vengono contattate dal servizio di Medicina di Strada, centinaia sono i lavoratori di strada cui i volontari dell'unità di strada Cabiria offrono un servizio di prevenzione e riduzione del danno sanitario, centinaia sono i soggetti cui l'associazione offre tutela legale gratuita. Dal 2001, inoltre, i volontari del Centro Naga Har prestano assistenza legale e sociale a richiedenti asilo, rifugiati e vittime della tortura.

Associazione Volontaria di Assistenza Socio-Sanitaria e per i Diritti di Cittadini Stranieri, Rom e Sinti
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Argentina/
Bicimacchine in Patagonia

Il progetto di costruire bicimacchine in Patagonia è nato con l'idea di aiutare la comunità/casa ecologica autosostenibile Kalewche, situata nel villaggio di Cholila (Chubut, Argentina). In quel momento a Kalewche il sistema per pompare l'acqua dal lago sottostante fino a casa, generato da un motore eolico, smise di funzionare. Così la casa restò senz'acqua mettendo in difficoltà i suoi abitanti e fondatori: Darìo Calfunao e Laura Volentini, attivisti mapuche e permacultori. Questa ci è sembrata una buona occasione per diffondere la tecnologia delle bicimacchine in questo territorio, e aiutare al tempo stesso Darìo e Laura.
Abbiamo cominciato a pianificare e costruire un prototipo di bici pompa d'acqua della tipologia “da pozzo”, che secondo noi poteva permettere di pompare l'acqua dal lago (Mosquito) fino alla casa Kalewche (elevando l'acqua per un dislivello di 60 metri e per una distanza di 120 metri circa). Nel frattempo iniziò anche la ricerca di vecchie bici abbandonate, parti di bici e di macchinari (pompe, alternatori, frullatori, macine, ecc.) e tutto ciò che poteva servire per fare delle bicimacchine.
Si cominciò anche a preparare lo spazio di lavoro nell'abitato di Cholila, all'ostello Piuke Mapu dove c'era disponibilità di energia elettrica, che a Kalewche mancava. Il progetto di costruire la bici pompa da pozzo restò in disparte, dopo aver parlato con Darìo e Laura che non vedevano così necessaria la possibilità di riuscire a pompare l'acqua dal lago fino alla casa con una o più bicimacchine, poiché avevano già preso misure per soluzioni convenzionali. Così abbiamo deciso di comune accordo di costruire altri tipi di bicimacchine per diffondere questa tecnologia nella regione, attraverso corsi e esposizioni.

Esposizione di bicimacchine e offerta di bici-frullati
a un evento per i desaparecidos di Cholila

All'ostello Piuke Mapu vennero realizzate nel giro di una settimana una bici pompa mobile e un bici-frullatore. Questo utilizzando delle bici trovate nella discarica di Cholila, una pompa elettrica fuori uso regalata da alcuni amici di Lago Puelo e un vecchio frullatore semi-rottto che Laura aveva a Kalewche. Queste due bicimacchine vennero esposte ad un evento organizzato dai Vicini Autoconvocati di Cholila per il primo anniversario della scomparsa di due persone a Cholila.
In questa presentazione abbiamo fatto bici-frullati e li abbiamo regalati ai partecipanti all'evento. La nostra azione richiamò molto l'attenzione e presto abbiamo preso contatto con varie persone che ci hanno offerto interviste alla radio e esposizioni nelle scuole. Ci è stato poi anche offerto di organizzare un corso nella Centrale di Trattamento di Esquel.
Tre corsi, una tecnica
Furono presenti al corso di Cholila 20 persone, tra gente del posto, della regione e viaggiatori che parteciparono portando bici, macchinari, strumenti e alcuni accessori. Altri solo prestarono il loro aiuto volontario. Il corso cominciò con una esposizione delle due bicimacchine che già avevamo costruito. I partecipanti poterono provare il bici-frullatore e per volontà di Darìo si provò anche la bici-pompa-mobile installando le tubazioni idrauliche e misurando i litri pompati al minuto.
Dopo la tappa del primo corso abbiamo continuato a lavorare alcuni giorni per terminare la bici-macina e questo artefatto chiamò molto l'attenzione degli abitanti. Venne realizzato un secondo corso, promosso da alcune ragazze di un villaggio localizzato al limite tra le regioni di Rio Negro e Chubut. Questo corso fu molto particolare; abbiamo conosciuto gli abitanti del luogo che avevano molto interesse per le bicimacchine perché già avevano una macina per mele e un estrattore di sugo fatti di legno e adattati a un motore elettrico.
Alcune persone del posto organizzarono la raccolta di materiali e noi abbiamo contribuito diffondendo il corso con mezzi digitali, nella gestione degli strumenti e con tre bicimacchine da esporre. Il corso andò molto bene, parteciparono persone che portarono banchi da lavoro e pezzi da adattare.
Rientrati a Cholila, dopo alcune settimane di lavoro tra l'ostello e Kalewche, abbiamo realizzato diverse esposizioni nelle scuole della zona. Abbiamo partecipato a un'esposizione e ad un incontro nella scuola superiore di Cholila, una lezione nella Scuola d'arte di Lago Puelo e abbiamo fatto un'altra esposizione nella scuola elementare di Rio Blanco, un piccolo villaggio vicino.
Avevamo già in programma un ultimo corso prima del nostro ritorno, quello all'impianto di trattamento rifiuti di Esquel. Durante questo corso siamo riusciti a terminare una bici-lavatrice e abbiamo cominciato la costruzione di un bici-frullatore con la partecipazione di varie persone di Esquel interessate alla tematica della tecnologia sostenibile.
Il giorno seguente siamo andati alla comunità mapuche di Santa Rosa a Leleque, dove vive la famiglia Curiñanco nel territorio ancestrale recuperato all'usurpazione capitalista di Benetton e della Compañia de Tierras. Qui abbiamo consegnato la bici-lavatrice terminata durante il corso di Esquel alla comunità Santa Rosa. La bicimacchina venne accolta bene da questa famiglia e restò qualcosa in più del nostro passaggio per quelle terre. Lì a Santa Rosa abbiamo salutato Darìo che ritornò a Esquel, mentre noi ci siamo fermati per passare un po' di tempo nella comunità mapuche.
È così che è terminato il progetto bicimacchine in Patagonia, un po' a malincuore perché ci sono state offerte possibilità di continuare a tenere corsi in altre parti della Patagonia, ma soddisfatti per quanto realizzato.
Un documento video dal titolo “Bicimaquinas en Patagonia” è disponibile su YouTube.

Questo scritto è dedicato alla piccola Wanda, che ha tragicamente lasciato sola sua madre Maga, nostra amica e compagna.
“La saggezza consiste nell'arte di scoprire la speranza dietro al dolore.”
Subcomandante Marcos

Michele Salsi, Miguel Alberto Hidalgo
del Collettivo Jaguar de Madera - Biocostruzioni e bicimacchine
ark-michele@riseup.net

Michele Salsi si è già occupato delle bicimacchine in “A” 386 (febbraio 2014) con un articolo dal titolo “Teoria e pratica della tecnologia appropriata”



Marco Camenisch/
Nuovo rifiuto della libertà condizionale

Dopo oltre un anno di temporeggiamento, il Tribunale Federale di Losanna ha rifiutato il rilascio condizionale di Marco. Come per le precedenti decisioni, anche a questo giro le motivazioni sono politiche: Marco non si distanzia dalle sue posizioni politiche, pertanto la libertà condizionale va rifiutata.
Un breve riepilogo rispetto alla storia di questa richiesta per una liberazione condizionale da parte di Marco.
Dal 2012 Marco dovrebbe beneficiare della libertà condizionale, dal momento che ha compiuto i 2/3 della pena inflittagli. La richiesta in questo senso inoltrata all'Ufficio delle Misure Detentive di Zurigo venne rifiutata il 13 aprile del 2012. Da qui il ricorso.
In un primo momento, la Direzione del Dipartimento di Giustizia e degli Interni del Canton Zurigo aveva rifiutato l'ammissibilità del ricorso, e solo in seguito alla rivalutazione da parte del tribunale amministrativo, il tutto è ritornato nelle mani dell'Ufficio delle Misure Detentive, aka Feldstrasse di Zurigo.
Venne dunque rinnovata l'audizione a Marco, ma ciò nonostante, nel febbraio 2013, il rilascio condizionale venne nuovamente rifiutato. Come motivazione a questo rifiuto fu: “una visione delinquenziale del mondo, nonchè una predisposizione cronica alla violenza” da parte di Marco - una motivazione che si squaglia da sola, mettendo ulteriormente in risalto il carattere politico della decisione di non-rilascio. Per tanto così avrebbero potuto evitare giri di parole e affermare chiaramente che se Marco non lo rilasciano è perché, oggi come ieri, rimane un anarchico rivoluzionario.
Nella riformulazione data dal Tribunale Federale le parole sono diverse ma il significato è lo stesso: Marco non viene rilasciato in quanto “tuttora manca un credibile allontanamento dalla predisposizione alla violenza e una presa di distanza dall'utilizzo di questa come strumento per un confronto politico”.
Ora, data la globale realtà contrassegnata da un acuirsi della crisi e della tendenza alla guerra, si ha a che fare con una disarmante ingenuità se si vuol considerare la violenza come estranea agli strumenti della politica. Non ci rimane dunque che constatare come al Tribunale Federale non solo vi siedano giudici assolutamente naive, ma che pure non rimanga che l'argomentazione politica.
Marco non esce perché mantiene una posizione integra e diretta contro la violenza del dominio. Ovvio come questo non piaccia alla giustizia di classe, ovvio come vogliano continuare a vederlo dietro le sbarre.
In un punto però si mostrano le contraddizioni interne tra i responsabili della detenzione di Zurigo ed i controllori della giustizia borghese di Losanna. Secondo i giudici federali, infatti, Marco deve da subito poter disporre degli alleggerimenti nella detenzione. Il Tribunale Federale scrive che entro maggio 2018 al massimo è da considerare il rilascio, cosa che corrisponderebbe al termine definitivo della pena di Marco. Ciò nonostante questo non è stato un motivo sufficiente per concedere già ora un rilascio condizionale.
Lo scopo della detenzione in Svizzera è che ogni detenuto/a, al termine della pena, sappia vivere senza più commettere reati. Secondo i giudici, per poter rendere possibile questo percorso verso una vita al di fuori del carcere, devono venir concessi i necessari alleggerimenti affinché possa esserne provata l'attuabilità. L'ufficio delle Misure Detentive, responsabile per questi alleggerimenti, ha finora sempre impedito ogni alleggerimento: dunque si vedrà se questa sentenza potrà influire sulle condizioni di detenzione di Marco.

MARCO LIBERO!
indirizzo:
Marco Camenisch, PF 38, CH -
6313 Menzingen, Svizzera

Soccorso Rosso Svizzera



No Expo/
L'università chiude per “motivi di sicurezza”

Tutto era pronto per venerdì 16 e sabato 17 gennaio. A ridosso dell'imminente esposizione universale, la Rete No Expo aveva deciso di organizzare alcuni eventi culturali presso la sede di via Festa del Perdono dell'università statale di Milano. Agli appuntamenti del venerdì sarebbe poi seguita l'assemblea nazionale, prevista per il giorno seguente, convocata per fare il punto della situazione sulla resistenza ad Expo.
Milano, sabato 17 gennaio - fuori dall'ex sede Anpi occupata

Proprio nel periodo in cui, a seguito degli avvenimenti di Parigi, comuni cittadini e istituzioni si sono scoperti Charlie, strenui difensori della libertà di espressione, stampa e pensiero, l'università ha letteralmente chiuso le sue porte per fermare un evento No Expo.
Senza precedenti avvisi, istituzionali o informali, il portone di entrata della sede di via Festa del Perdono è rimasto serrato. Su di esso, due fogli affissi comunicavano che ''per motivi di sicurezza'' l'università avrebbe riaperto il lunedì seguente, rimanendo chiusa nei giorni 16-17-18. Bloccate quindi le attività didattiche, lezioni, ricevimenti, richiesta e consegna di libri di testo, con tre esami spostati nella sede di via Mercalli.
La decisione, presa dal rettore Vago e dal prefetto Tronca, appoggiata dal Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza, è stata giustificata da motivi di ordine pubblico. Già da qualche giorno circolavano voci sulla presunta pericolosità della due giorni No Expo; con articoli apparsi anche su quotidiani nazionali si è cercato di spargere il seme della paura e della tensione per quello che era un appuntamento culturale, un momento di confronto e dibattito politico. Ecco il calendario che ha spaventato procura e rettorato: venerdì 16 gennaio - spettacolo teatrale, aperitivo bio, concerti hip hop, raggae e balkan; sabato 17 gennaio - workshop tematici in mattinata e assemblea plenaria prevista per il pomeriggio. Vista la chiusura degli spazi universitari, gli organizzatori dell'evento hanno ripiegato sull'area occupata di via Mascagni 6, ex Anpi, dove tutti gli appuntamenti hanno avuto luogo come da calendario.
Più che una questione di ordine pubblico, la decisione sembra essere stata principalmente politica, un tentativo di impedire la diffusione delle ragioni di chi si dice contrario all'esposizione universale di Milano, con strategia di criminalizzazione nei confronti di chi per quelle idee si sta battendo. Quella dell'università, poi, è stata una chiara presa di distanza dalle critiche al mega-evento; tra le sue mura sono permessi corsi e conferenze ''in vista di Expo'', ma niente che sia critico con esso.
Come denunciato già da un comunicato apparso sul sito No Expo, sembra che la costruzione di un nemico pubblico da combattere e la creazione di un clima di tensione vengano preferiti al confronto e al dibattito e la chiusura di un luogo come l'università rende questa idea molto più di un sospetto.

Carlotta Pedrazzini