La rivoluzione tradita: il caso tunisino
In questo numero della rubrica antropologia e pensiero libertario
ho deciso di analizzare gli eventi che si sono susseguiti in
Tunisia fino alle recenti elezioni del dicembre 2014 che hanno
portato il partito laico a guidare il paese. Credo che l'analisi
dei movimenti tunisini sia centrale per comprendere quello che
per molti è ormai il fallimento delle Primavere arabe
che hanno scosso tutto il nord Africa negli ultimi anni.
Senza troppi dubbi, dietro la “Rivoluzione dei Gelsomini”
si cela uno degli eventi più importanti e significativi
degli ultimi decenni, un evento che può essere definito
epocale, per i radicali mutamenti che ha comportato negli assetti
geopolitici nordafricani, se non mondiali.
Iniziata nel dicembre del 2010, in seguito alla morte di un
giovane commerciante di frutta che si era dato fuoco per protestare
contro il sequestro della propria merce da parte della polizia
corrotta del regime di Ben Ali, la rivoluzione si è propagata,
nel giro di pochi giorni, in molte delle più importanti
città tunisine. La cosa particolarmente interessante
è che la vera spinta rivoluzionaria prendeva fermento
anche nelle piccole città e nei paesi dell'interno del
paese, si crearono delle vere e proprie carovane umane che a
piedi marciavano verso le città per urlare la sete di
libertà contro la dittatura di Ben Ali.
Nel ristretto arco di tempo di un mese, il popolo tunisino,
oppresso da un regime venticinquennale, è riuscito a
costringere il dittatore, al potere dal 1987, a dimettersi e
fuggire dal Paese per salvarsi.
Come sappiamo la Rivolta, tuttavia, non si è fermata
alle frontiere tunisine, ma si è diffusa rapidamente
in molti altri paesi del Nord Africa e del Medio-Oriente, accendendo
in tal modo una miccia già innescata da anni. Nel giro
di qualche mese infatti, le proteste popolari si sono propagate
in Algeria, Egitto, Libia, Siria, con un andamento tipico delle
onde d'urto, ridisegnando gli assetti sociali e istituzionali
di un'intera porzione di globo.
Il drammatico gesto del giovane Bouazizi rappresenta dunque
solo la scintilla che fa detonare la polveriera. Scavando nel
complesso mondo della società tunisina, però,
si comprende a pieno come questa Rivoluzione sia stata, in realtà,
covata per molti anni e alimentata da un'attivissima società
civile, che, nonostante il regime di Ben Ali, ha continuato
a coltivare e costruire la libertà di espressione. Per
capire i processi che hanno portato alla rivoluzione tunisina
e soprattutto gli sviluppi e le separazioni tra il mondo laico
e quello islamico vi consiglio di leggere l'ottimo volume pubblicato
da elèuthera dal titolo: Quaderni di una rivoluzione
dell'antropologo tunisino Mondher Kilani. In questo volume di
quasi 400 pagine abbiamo modo di capire bene gli eventi non
solo attraverso i fatti di cronaca e la lettura della stampa
internazionale, ma abbiamo la fortuna di leggere il frutto di
una osservazione partecipante dell'autore nelle piazze e nei
paesi della Tunisia ma soprattutto abbiamo la possibilità
di leggere le voci dei protagonisti delle rivolte, i veri protagonisti.
Ovvero la voce dei giovani e meno giovani, disoccupati, venditori
ambulanti, avvocati, blogger, universitari, per rubare le parole
di Kilani, le voci della moltitudine cosciente che si è
messa in moto sul finire del 2010, senza un'avanguardia o una
figura carismatica che la guidasse, una moltitudine composta
da singolarità consapevoli delle proprie differenze che
ha agito collettivamente per raggiungere lo stesso obiettivo:
abbattere la dittatura e reinventare un modo nuovo di vivere
insieme. Una delle voci dei tanti protagonisti ci dice che:
uno dei vantaggi della rivoluzione è che essa ci ha costretto
a guardarci in faccia, a vederci come siamo, in una parola,
ci ha permesso di rientrare in noi stessi e di ritrovare la
nostra parte perduta. È interessante notare come prima
della rivoluzione mai le classi sociali, gli ambienti professionali,
i quartieri, le appartenenze regionali, le sensibilità
politiche, le relazioni di genere erano stati tanto attraversati;
grazie alla rivoluzione vissuta come un processo in costruzione
si stava iniziando il lungo cammino della mutazione culturale,
aspetto centrale per il solidificarsi di una vera rivoluzione.
Slim Amamou scrive: ecco le libere assemblee in piena strada,
i caffè trasformati in commissioni parlamentari, i manifestanti
andavano in giro senza sosta su boulevard […]ed ecco
le famiglie che invece di andare al lago o al Belvedere vogliono
farsi fotografare davanti ai carri armati, manifestare è
diventato un piacere. In questo contesto nasceva una comunità
d'azione, una soggettività collettiva si costruiva attraverso
la cooperazione di una comunità nuova, Alma Allende scrive:
che bellezza tra la gente, che bei visi senza paura, quale inedito
miglioramento degli sguardi improvvisamente liberi dalle rughe
della sottomissione.
Il movimento cresceva, era infrenabile per la macchina della
repressione, era imprevedibile e l'uso dei social media e dei
blog ha sicuramente giocato un ruolo importante. Come scrive
Kilani dobbiamo però stare attenti a non banalizzare
l'uso della tecnologia perché i social network non possono
essere considerati i detonatori della rivoluzione. Non possono
soppiantare il movimento sociale nato dalla convergenza di diverse
forze, in particolare dei poveri e dei disoccupati, ma anche
dei lavoratori. La cyberdissidenza non ha fatto la rivoluzione,
ma ha sicuramente funzionato come cassa di risonanza. La rivoluzione
è stata creata grazie all'originalità di questi
movimenti non centralisti, intergenerazionali, che funzionano
attraverso le assemblee, praticano la democrazia diretta sotto
forma di dibattiti faccia a faccia, sviluppano la passione all'ascolto,
perseguono il consenso, hanno portavoce provvisori designati
dai gruppi, definiscono accordi minimi, elaborano nuovi saper-fare
politici, hanno la capacità di strutturare lo spazio
pubblico e per questo sono intrinsecamente libertari.
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Tunisi, 21 febbraio 2011 - Giovani occupanti della casbah |
Vecchi/nuovi scontri per il potere
Il grande dilemma che rimane è come poter gestire un
intero paese attraverso pratiche di democrazia diretta ed autonoma
senza scivolare in una democrazia di delega parlamentare. È
ormai evidente che anche in Tunisia qualcosa non ha funzionato
perché una volta cacciato il dittatore sono iniziati
gli scontri di potere e la voglia di diversi gruppi di egemonizzare
la gestione politica. Uno degli scontri più importanti
è stato sicuramente quello tra laici e mussulmani, anzi
per essere più precisi tra sostenitori di una comunità
laica rispettosa delle differenze con all'interno sia laici
che mussulmani e i sostenitori di uno stato islamico. Anche
su questo tema Kilani ci aiuta a capire cosa è successo
in Tunisia e come si sono create queste separazioni in seno
al movimento che ha portato alla caduta del dittatore.
Come sottolinea l'antropologo tunisino il vero problema è
che a un certo punto sia gli islamisti che i laici, di destra
o di sinistra si sono accordati per ricusare o per attenuare
ogni forma politica che abbia a che fare con la democrazia assoluta,
con la reale partecipazione, il vero cambiamento. Il pericolo
non era più la dittatura ma una società nuova
libera dal dominio, quello che era stato sperimentato e si cercava
ancora di sperimentare doveva essere imbavagliato, represso
cosa che il primo governo provvisorio cominciò subito
a fare anche se su i muri della Tunisia si leggeva: “non
prendetevi la nostra rivoluzione”.
Gli islamisti invece subito si sono messi al lavoro per prendersi
la rivoluzione e costruire un possibile stato islamico travolgendo
la società civile. All'interno di Quaderni di una rivoluzione
gli ultimi capitoli sono dedicati alla comprensione dell'islam
in Tunisia e sono particolarmente illuminanti per capire gli
eventi che hanno portato pochi mesi fa alla vittoria delle elezioni,
con una piccola maggioranza, il leader laico Béji Caïd
Essebs (macchiato da un suo coinvolgimento personale e politico
nel regime di Ben Ali).
Il bello di questa appassionante ricerca sul campo di Kilani
è che volutamente tralascia la scena politica istituzionale
per concentrare lo sguardo sui cittadini comuni, sulle tante
voci che per la prima volta hanno occupato lo spazio pubblico.
Ed è attraverso queste storie che è possibile
comprendere non solo quali siano le poste in gioco dell'attuale
transizione politica, e in particolare la biopolitica per il
controllo della popolazione promossa dalle formazioni islamiche,
ma anche le circostanze storiche di un evento non ancora concluso,
aprendolo al contempo all'universale.
Per concludere un aspetto importante che condivido con l'autore
è la certezza che l'antropologia e più in generale
le scienze sociali hanno lo scopo proprio di fornire gli strumenti
di presa sul mondo attuale, ossia di comprendere ciò
che è in gioco per fare un po' di luce su cosa scommettere,
che è esattamente quello che fa questa ricerca sul campo
dell'antropologo tunisino.
Andrea Staid
Per
saperne di pił
Mondher Kilani, Quaderni di una rivoluzione. Il caso
tunisino e l'emancipazione nel mondo contemporaneo,
Eleuthera, 2014.
Fulvio Massarelli, La collera della casbah. Voci di
rivoluzione da Tunisi, Agenziax, 2012.
Leena B. Mhenni, Tunisian girl. La rivoluzione vista
da un blog, Alegre, 2011.
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