rivista anarchica
anno 45 n. 396
marzo 2015


 


Per una critica radicale
dell'economia politica

Dieci anni prima dello scoppio del crack finanziario, su una rivista tedesca del 1995, un caustico pubblicista di nome Robert Kurz raggelava l'euforia dei Nineties, sostenendo che «se l'estate siberiana del boom fordista nel dopoguerra» era stata già breve, «l'epoca seguente del “capitalismo da casinò”» degli anni '80 e '90 sarebbe stata «ancora più breve» (1). La crisi finale, anzi, era già in corso dagli anni '70 e presto uno scoppio fragoroso l'avrebbe annunciata al mondo. «Crisi?... quale crisi?», chiosavano nel frattempo gli osservatori economici, e la tesi di Kurz restò «voce di uno che grida nel deserto». Gli «uomini il cui orizzonte è il mercato – commentò Kurz –, [...] “credono” alla crisi assoluta solo quando loro stessi mangiano dalla pattumiera».
Quattro lustri dopo, quando anche il soddisfatto «ceto medio ha iniziato a frugare nei contenitori» (2) dell'immondizia, le idee della «critica del valore» che Kurz ha elaborato con E. Lohoff, N. Trenkle, A. Jappe fra gli altri, cominciano a suscitare meno indifferenza: sic transit gloria mundi.
Nello scorso mese di giugno è uscito, per Mimesis, Terremoto nel mercato mondiale (Mimesis, Milano, 2014, pp. 86, € 5,90), di Trenkle e Lohoff. Il libretto, in poche pagine, rende gli strumenti del pensiero marxiano adatti a ristabilire il giusto nesso tra «l'enorme bolla dei mercati finanziari» e la più generale crisi del capitalismo. Il lettore viene così scrollato dall'ipnosi, di sapore antisemita, delle attuali «personificazioni» della crisi che vanno dalle urla contro la casta degli speculatori, ai deliri del signoraggio.
Attribuire responsabilità esclusivamente al capitale finanziario, inoltre secondo gli autori, significa rovesciare la «connessione di causa-effetto» della logica capitalistica. La vera causa del tracollo si trova sotto la superficie finanziaria, nelle profondità contraddittorie del meccanismo capitalista. Ma di quale contraddizione parla la «critica del valore»? Per Marx - riferimento teorico insostituibile - il valore di una merce è dato dal tempo di lavoro speso per la sua produzione. Il «lavoro» che dà sostanza al valore però, il lavoro astratto, è un'astrazione tipica del solo capitalismo, una funzione che riduce tutti i differenti lavori concreti a «quantità di tempo indifferenziato speso per produrre una merce» (3). Una merce rappresenta, sul mercato, una mera quantità di lavoro astratto in base alla quale può essere scambiata con altre che esprimano una quota uguale della medesima sostanza.
Nel meccanismo di valorizzazione, anche i lavoratori sono privi di differenze e ridotti a semplici portatori di capacità di lavorare: una capacità qualsiasi da riversare nelle diverse branche della produzione. Un operaio può sempre essere convertito in centralinista, purché lavori e produca valore. In questo gioco sociale, la capacità di lavorare diventa una merce (la forza-lavoro) da vendere agli imprenditori in cambio di un salario. I capitalisti hanno il ruolo di generare nuovo valore costringendo i portatori di forza-lavoro a lavorare più tempo di quanto sia necessario a riprodurre il valore che costano. Per ottenere questa «estorsione di plusvalore», i proprietari di capitale sono costretti ad aumentare ossessivamente la produttività, rinnovando il potenziale tecnologico.
Ma, ed è questa la contraddizione centrale, la rincorsa tecnologica ha condotto, negli ultimi trent'anni, ad un livello di produttività così alto che il lavoro umano – l'unica merce in grado di generare valore – è diventata superflua per la produzione. Il capitalismo ha segato il ramo sul quale era seduto. Negli anni '80, però, il crollo fu rimandato proprio grazie alla stampella del capitale fittizio e l'accumulazione sembrò così ripartire.
Ma, nello scambio di prodotti finanziari, anche se il denaro venduto come merce ritorna accresciuto, si accresce soltanto di una sostanza fittizia, non basata su «valore effettivo». Con la creazione di titoli, infatti, si anticipa un valore – che viene utilizzato da subito come fosse «reale» –, sperando nella sua futura effettiva realizzazione nel processo di produzione. Come in un incantesimo, il capitale si accresce, raddoppia secondo dinamiche che il libro spiega con originalità; ma la massa di valore, la vera sostanza della ricchezza capitalista, non aumenta di un grammo.
Tuttavia, se il valore anticipato non viene poi generato nella produzione di merci tramite impiego di forza-lavoro, il meccanismo crolla: tutte le bolle finanziarie, in ogni crisi, sono scoppiate.
Che fare?
In un contesto in cui il lavoro – restando la base di una società in cui senza vendere forza-lavoro non è possibile accedere alle risorse – si è trasformato in una comparsa costretta a recitare sul palco tecnologico-informatico soltanto per qualche minuto; autorevoli esponenti politici propongono con acume di trasformare i «servizi per il lavoro in un diritto di cittadinanza» (4). Per farne cosa?
E i tentativi di risanamento e austerità? Secondo gli autori: una drammatica fiction degli Stati per conservare credibilità sui mercati finanziari e rimandare di un poco il crollo della montagna di promesse di pagamento ormai insolvibili.
La critica radicale piuttosto, ecco la proposta del libro, dovrà dirottare la produzione verso i bisogni concreti svincolando la società dalle assurde contraddizioni della logica del valore. Voler mantenere in vita artificiale il cadavere del capitalismo, condannando milioni di disoccupati a cercare, per sopravvivere, di interpretare ancora quel ruolo superfluo che qualcuno favoleggia di trasformare in un «diritto» o a morire di fame in mezzo all'abbondanza sarebbe, secondo gli autori, la più grande «occasione mancata» della critica dell'economia politica.

Riccardo Frola

Note
1.    R. Kurz, «La fine della politica e l'apoteosi del denaro», Manifestolibri, p.119
2.    Sono dichiarazioni di M. Iazzolino, segretario generale della fio.PSD
3.    A. Jappe, in Gruppo Krisis, Manifesto contro il lavoro, DeriveApprodi, p.126
4.    È quanto ha sostenuto G. Cuperlo, Corriere della sera 23/09/2014



Educazione
alla diversità

Noi popoli indigeni non siamo il problema.
Siamo piuttosto, in larga misura, la soluzione.

(E.L. Hernandez, teologo messicano zapoteco)

Voci sciamaniche è una “raccolta di esperienze visionarie” (Editore della terra di mezzo, Milano, 2013, pp. 272, € 23,00) – come recita il sottotitolo - che vanno a comporre il libro curato da Joan Halifax, trent'anni fa, negli Stati Uniti, stampato poco dopo in Italia da Rizzoli e che, nel 2013, le Edizioni della Terra di Mezzo hanno riproposto. (La curatrice del volume oggi è monaca buddista. In gioventù si laureò in filosofia e antropologia, per molti anni collaborò col grande studioso di miti Joseph Campbell, fu moglie di Stanislav Grof - psichiatra e ricercatore nel campo degli stati di coscienza non ordinari - con il quale sperimentò l'LSD come mezzo per alleviare le sofferenze dei malati terminali. Passò inoltre lunghi periodi della sua vita tra i Dogon del Mali e gli Huicholes e i Maya del Messico, studiando la loro cultura e partecipando ai rituali sciamanici).
Philippe Godard in un bell'articolo “La vita come un gioco” pubblicato su questa rivista nel dicembre 2014, dice: «Il “mondo” è un concetto che implica un'unica realtà: l'infinito dell'orizzonte e degli esseri. Se questa infinita diversità resiste, evolve, se certe culture scompaiono, ma altre vedono la luce, allora il mondo è mondo. In caso contrario, non è che una prigione a livello globale. In origine, ogni cultura inventata dall'uomo è stata soltanto un gioco: esseri umani inventarono cosmogonie, come i bambini immaginano una situazione nel mondo; si diedero regole e modi di vivere come fanno i bambini nei loro giochi del momento. Il fatto che questi giochi di culture, divenendo complessi, siano diventati altrettanti ostacoli alla libera realizzazione degli esseri e dei desideri non impedisce che il gioco resti all'origine del mondo umano: la vita è un gioco, e il bambino sa che cos'è il gioco di vivere».
A questo pensiero voglio aggiungere una riflessione ovvia ma, penso, non inutile. Voglio sottolineare l'evidenza del fatto che noi siamo immersi nel mondo culturale di una sola e piccola parte dell'emisfero, mentre contemporaneamente esistono altri popoli e altre geografie che, anche, stanno facendo – hanno fatto – la storia. Quindi è chiaro che abbiamo la possibilità di vivere la nostra storia come punto di vista interlocutorio in mezzo ad altre storie – alle quali è stata data meno risonanza, ma che non sono per questo meno importanti o prive di significato –, oppure possiamo perpetuare la visione meschina e calcolatrice di chi pensa che gli altri siano sempre più arretrati, inferiori o primitivi, in ogni caso da non prendere in considerazione.
In una prospettiva interlocutoria il senso della vita che ognuno di noi va ricercando emerge dal confronto della molteplicità, nel secondo caso il senso della vita si esaurisce e viene meno.
Aggiungo che la storia si è sempre costruita su mitologie, da sempre per tutti i popoli via d'accesso al mondo dello spirito e matrice dei comportamenti umani più ancestrali e profondi. Il mito nasce in risposta a bisogni primordiali - ripararsi, scaldarsi, nutrirsi... – e non ha esaurito la sua funzione; trovo quindi interessante chiedermi, e chiedere, quale sia il mito che dà senso alla vita quotidiana di ognuno di noi, qual è il mito capace, oggi, di spiegare la nostra vita?
Lascio aperta la domanda e con questi pensieri mi avvicino alle voci sciamaniche che sono raccolte nel libro di cui voglio parlare.
In circa duecentocinquanta pagine si susseguono trentasei narrazioni, trentasei voci che ci mettono a confronto con mondi lontani dal nostro abituale orizzonte. Un panorama vasto e variegato che comprende Siberia, Australia, Africa, Groenlandia, Melanesia e le Americhe del Nord, Centro e Sud. Luoghi dove lo/a sciamano/a è una figura centrale - mistica, sacerdotale e politica allo stesso tempo - con molteplici funzioni. Oltre a essere uno specialista dell'anima è guaritore, veggente, visionario, poeta, cantore, è capo spirituale, ma spesso anche giudice e politico, in quanto depositario della storia e della cultura sacra e secolare del suo popolo.
La figura sciamanica nasce durante il paleolitico superiore e oggi sopravvive ovunque esistano ancora popoli di cacciatori/raccoglitori e laddove questa antica tradizione sacra sia riuscita, in qualche modo, a mantenersi viva nonostante le trasformazioni - spesso molto pesanti - dell'ambiente culturale circostante.
I racconti delle “esperienze iniziatiche”, cioè di che cosa ha portato quegli individui a diventare dei “guaritori” e come questo è avvenuto, è un viaggio all'interno di tradizioni differenti ma con chiari punti in comune. Uno fra tutti, la percezione del mondo come luogo in cui tutto è vivente e ciò che vive è relazione, senza separazioni tra specie, nella consapevolezza della sacralità del legame che unisce ogni cosa. Come dice Leonard Crow Dog, Sioux del Nord America: – «Mitakuye oyasin, tutti i miei parenti! Voleva dire tutti quelli con due gambe, tutti quelli con quattro zampe, anche quelli con otto zampe e quelli senza: significava quelli con le ali e quelli con pinne, quelli con radici e con foglie, ogni cosa viva, tutti nostri parenti».
Sappiamo che la separazione e la frammentazione hanno costituito il punto di forza su cui si è basato lo sviluppo dell'Occidente. Cose utili e meravigliose sono state scoperte grazie all'osservazione sempre più ravvicinata del particolare separato dall'insieme di appartenenza. Ma cosa stava comportando tutto ciò per l'equilibrio personale di ognuno e del pianeta intero abbiamo dimenticato di chiedercelo. Oggi le conseguenze sono gravi e ben visibili. In questo panorama divenuto catastrofico le voci sciamaniche ci raggiungono come acqua per la sete. Sono storie di visioni, di esperienze interiori, spesso drammatiche, che aprono l'accesso a stati di coscienza non ordinari. Narrano cosmogonie che non sempre risuonano con facilità alle nostre orecchie. Di sicuro rendono evidente l'esistenza di un'apertura della mente alla quale normalmente non abbiamo accesso, un passaggio fra realtà ordinarie e non ordinarie. Un passaggio e allo stesso tempo una barriera fra mondi che coesistono.
Possiamo smettere di liquidare tutto questo come necessità tribali, ormai da tempo superate dall'evoluta cultura occidentale, e provare ad usarle come cassa di risonanza per comprendere se qualcosa di fondamentale è andato perduto lungo la strada della nostra evoluzione?
Pensiamo anche al fatto che queste culture/religioni non hanno mai costruito intorno a sé chiese o altri luoghi di potere: non è cosa sufficiente a sostenerci nel prestare loro ascolto con attenzione? Non si tratta di assumere modi d'essere che non ci appartengono, ma semplicemente di deciderci una buona volta a imparare gli uni dagli altri affinché questa infinita diversità possa resistere, evolvere, perché se certe culture scompaiono, ma altre vedono la luce, allora il mondo è mondo. In caso contrario, non è che una prigione a livello globale.
La sopravvivenza dei popoli nativi, in ogni parte del mondo, continua a subire pesantissimi attacchi. Se ne parla poco o niente. Leggere dei principi su cui molti di essi basano la propria esistenza è un fatto educativo: all'ascolto, al rispetto, al dialogo.

Silvia Papi



Ma l'anarchia
è differenza

Questa non è una rivista come le altre, questo non è soltanto un annuario che approfondisce La pratica della libertà e i suoi limiti (Aa. Vv., Libertaria 2015, a cura di Luciano Lanza, Mimesis, Milano 2015, pp. 261, € 20,00). È assai di più, è una vera e propria introduzione al pensiero anarchico, alle sue radici, alla sua complessità, alla sua attualità e soprattutto alla sua differenza. Con questa parola intendo non soltanto la differenza rispetto ad altre teorie e pratiche politiche ma in primo luogo la differenza interna al movimento anarchico. È anche a questa sua pluralità che si deve il fatto che «l'anarchismo è la forma più avanzata di pensiero politico» (N.Chomsky intervistato da J.Sethness, p. 57).
Già nei fondamenti storici, nei “padri fondatori” vive la differenza. L'anarchia, infatti, «è il movimento storico radicato, almeno teoricamente, nel lavoro di William Godwin e Pierre-Joseph Proudhon, articolato più chiaramente nell'opera di Michail Bakunin, Pëtr Kropotkin, Emma Goldman e altri. Spesso è associato a una posizione antistatalista, ma a mio avviso sarebbe meglio definirla come dedizione nei confronti di due posizioni: critica del dominio in tutte le sue forme e propensione per forme di organizzazione e resistenza dal basso. Un simile punto di vista trascura un altro tipo di pensiero anarchico: l'anarchia individualista di Benjamin Tucker e Max Stirner, i cui propositi moderni sono libertari, come quelli di Robert Nozick. In ogni caso, in genere si associa il termine anarchia con le prime posizioni piuttosto che con l'ultima» (T. May intervistato da R. Marshall, p. 67). Rispetto al comunismo, l'anarchismo è libero da ipoteche totalitarie; si ispira ai propri iniziatori ma non li venera; «il terzo vantaggio, il più importante, è che le idee anarchiche sono centrali nella maggior parte dei movimenti sociali odierni» (G. Kuhn, p. 47).
I principi invalicabili dell'anarchismo sono pochi e si possono condensare nella «libertà dell'individuo e la non prevaricazione sugli altri individui» (F. Eva, p. 169), «nel rifiuto del dominio, nell'irrinunciabilità all'eguaglianza quale condizione stessa della libertà, nella fiducia nell'autonomia dell'individuo come strumento di autorganizzazione dei singoli nella storia» (P. Adamo, p. 239).
Contrariamente a ciò che spesso si pensa, rivoluzione, comunismo, antistatalismo, astensionismo non sono dei principi fondamentali dell'anarchismo ma soltanto alcune delle sue possibili manifestazioni. E infatti in questo libro c'è chi attacca senza incertezze lo Stato e c'è chi - come Chomsky - lo difende rispetto alle multinazionali poiché in queste ultime «nessuna influenza è possibile. Quelle sono vere tirannie. Quando la società è dominata in gran parte da tirannie private, che rappresentano la peggiore forma di oppressione, le persone hanno bisogno di un qualche tipo di auto-difesa. E lo Stato la garantisce» (citato da Kuhn, p. 49). C'è chi vede nel mercato sempre e soltanto il mercato del capitale e c'è chi ritiene possibile un mercato dove lo scambio sia volto non al profitto di pochi ma al vantaggio di molti, se non dell'intero corpo sociale. C'è chi è per la rivoluzione violenta contro la violenza del potere e diffida oggi più che mai di una democrazia rappresentativa al tramonto, «in cui contano le lobbies, i leader carismatici e i sondaggi di opinione» (Colin Crouch, ricordato da F. Codello, p. 130) e altri - come Berti e Adamo - che ritengono la liberaldemocrazia l'espressione oggi più avanzata dell'esigenza anarchica del massimo di libertà coniugata al massimo di eguaglianza.
C'è chi vede negli attivisti e nei militanti la reale incarnazione del progetto e critica i «giochi verbali, le controversie intellettuali di filosofi radicali, da caffè o salotto» (L. Pezzica, p. 223) e c'è chi, al contrario, pensa che «non si deve mitizzare la teoria “bassa” che nasce dalla partecipazione militante più di quella “superiore” che sarebbe reperibile in un canone» (L. A. Williams, p. 179) o giudica le tendenze antintellettualistiche uno degli ostacoli da superare in quanto l'anarchismo «non viene riconosciuto come pensiero “nobile”, abbastanza sofisticato da essere studiato e approfondito, e quindi non riesce a incidere o orientare, o stimolare correnti di pensiero al di fuori del ristretto circolo degli aficionados. [...] Quelli citati dai mass-media sono gli attivisti che intervengono attivamente nelle dinamiche di movimento (No-TAV e No-MUOS per esempio) o nei cosiddetti Centri Sociali; con un approccio dei media solo appena modernizzato, ma sostanzialmente ancora orientato alla criminalizzazione di fine Ottocento e Novecento. Nei dibattiti culturali, in televisione, nelle pagine culturali dei quotidiani più diffusi manca a tal punto la presenza di anarchici che anche autori che lo sono o che gli anarchici considerano interni al pensiero libertario (Albert Camus per esempio) vengono genericamente definiti/attribuiti all'area progressista» (F. Eva, p. 168). C'è chi vede ancora nel Sessantotto un modello di rivolta anarchica e chi critica aspramente il suo essere stato funzionale al dominio spettacolare «poiché questa società detta dell'abbondanza sembra reprimere il puritanesimo delle sue origini, si trasforma realmente in società permissiva senza la quale la festa non potrebbe darsi in quanto spettacolo. Un profumo di orgia si diffonde nello spirito del tempo, di cui il maggio '68 costituisce in qualche modo l'acme e il simbolo» (S. Latouche, p. 15) e chiede a chi voglia «“salvare” e riprendere la carica libertaria» del Sessantotto di «farsi carico di un ripensamento radicalmente critico non solo di quel che allora pensava, ma anche di quel che pensa ora e di come lo pensa» (F. Melandri, p. 232).
C'è chi non è disposto ad allontanarsi dai principi dell'anarchismo ottocentesco e chi vede in questa rigidità un ostacolo, optando piuttosto «per una specie di pragmatismo fallibilista, ovvero per una versione “senza aggettivi” dell'anarchismo, in cui la prospettiva utopica (una società egualitaria, non egualitaristica, in cui le relazioni tra gli uomini non siano determinate da meccanismi di dominio) non viene legata né a rigide prescrizioni istituzionali, politiche o economiche, né a precise metodologie e linee d'azione, ma piuttosto a una sperimentazione individuale e collettiva» (P. Adamo, p. 237). C'è chi fonda la possibilità stessa dell'anarchismo su un'antropologia positiva, fiduciosa nella “naturale” tendenza umana alla cooperazione - dimenticando magari la critica di Bakunin a Rousseau - e chi come Chomsky si spinge a definire quella umana «una specie malsana» (p. 56) o concorda con Immanuel Kant e con Isaiah Berlin sul legno storto dell'umanità, dal quale nulla si potrà ricavare di perfettamente dritto (F. Codello, p. 132).
Come si vede, questo volume è davvero pervaso dalla consapevolezza del limite non soltanto dell'azione politica qui e ora ma del limite universale delle cose umane, senza però che questo implichi la rinuncia a fare tutto il possibile per costruire una società di liberi e di eguali. Nessuna “grande rivoluzione”; al suo posto l'azione quotidiana, pervasiva, capillare, tenace. Una libertà che non è l'inizio o la conclusione di una trasformazione definitiva ma è piuttosto la «risoluzione di problemi reali, soprattutto perché gli anarchici hanno riflettuto molto sulla risoluzione di problemi reali puntando la loro attenzione sul microlivello, cosa che altre ideologie politiche non sentono in realtà di dover fare finché non si sono impadronite del potere statale» (D. Graeber, p. 80). Non la palingenesi ma l'anarchismo che già c'è nel corpo sociale, nel tessuto delle relazioni collettive e delle aspirazioni individuali: «Una nuova figura, quindi, che sia in grado di riunire in sé, anche se con momenti distinti, il riformismo e il rivoluzionarismo. Che faccia le cose concrete, banalmente quotidiane ma sapendovi imprimere il segno del possibile totalmente altro. [...] Riassunta in uno slogan la proposta è: pensare da anarchici, agire da libertari. [...] La rivoluzione come momento risignificante della società» (L. Lanza, p. 255).
Se «anche l'anarchismo si è trasformato un po' in merce, e non è più percepito come una minaccia» (G. Kuhn p. 48), le ragioni sono molte. Una è la sua riduzione al campo dei diritti umani, alla difesa delle donne, dei migranti, degli omosessuali, dimenticando che la rivendicazione dei diritti civili - da sola - è perfettamente coerente con l'esistente ultraliberista e che la libertà della persona è tale soltanto in un quadro di liberazione collettiva soprattutto dallo sfruttamento del capitale, dal dominio di un mercato del lavoro ridotto all'immenso profitto delle multinazionali. Un'altra ragione può essere anche una sorta di ingenuità nella lettura troppo ottimistica di alcuni eventi contemporanei, come quella che Mohammed Bamyeh fa delle «grandiose rivoluzioni della primavera araba», nelle quali si sarebbe ottenuta «la rara combinazione di metodo anarchico e intento liberale. [...] Persino le forze di governo ora accettano praticamente tutte le richieste dei rivoluzionari (p. 40). Neppure un accenno alla eterodirezione statunitense di queste presunte “primavere”, che infatti sono finite nell'inverno di poteri militari antichi e feroci, come in Egitto.
L'annuario 2015 di Libertaria è dunque un'articolata introduzione al pensiero anarchico anche perché fa toccare le ragioni per le quali «è difficile racchiudere tutti i protagonisti e le proposte riconducibili visibilmente all'idea anarchica in un solo corpo dottrinario al singolare, l'anarchismo» e piuttosto si deve sempre parlare di «anarchismo plurale» (S. Vaccaro, p. 145), da mettere ogni giorno alla prova - nelle sue possibilità e nei suoi limiti - all'interno di «un'articolazione sociale che si nutra della diversità come linfa vitale. L'acquisizione in toto del concetto di libertà esige il riconoscimento reciproco della diversità» (L. Lanza, p. 255).
L'anarchismo è differenza.

Alberto Giovanni Biuso



Il fuorigioco?
Limita la libertà (di movimento)

Quando Gianni Brera da direttore chiamò Luciano Bianciardi (Grosseto 1922-Milano 1971) a collaborare sulle pagine del prestigioso Guerin Sportivo, lo scrittore grossetano - diventato notissimo per quel romanzo, La vita agra, che metteva rabbiosamente alla gogna il modello social-borghese degli anni del boom economico - era già fortemente debilitato nel fisico a causa dell'alcool. Infatti, la sua rubrica settimanale aperta al dialogo coi lettori, Così è se vi pare, non ebbe una durata lunga, iniziò alla fine di settembre del 1970 e si protrasse fino al novembre dell'anno dopo. Tifoso della Fiorentina (ma dei fiorentini diceva peste e corna), appassionato e pure molto competente di calcio, Bianciardi al terzo dei suoi figli che gli pose l'interrogativo “perché una persona seria come te si occupa di sport?”, di rimando confermò “perché sono una persona seria”. Difatti.
Come si può leggere nel volume lI fuorigioco mi sta antipatico (Stampa Alternativa, Viterbo, 2007, pp. 384, € 16,50) serissime erano le risposte che consegnava agli affezionati lettori del Guerin che gli scrivevano. Scanzonato e schietto emetteva i suoi giudizi su calciatori, allenatori, atleti di altri sport e, spesso, si sbilanciava in paralleli con la letteratura, la storia che dalla penna di qualche altro cronista potevano apparire eccessivi ma non dalla sua. Alla ricorrenti e fatidiche dieci domande poste, Bianciardi l'anarchico (“uomo che vorrebbe una società basata sul consenso e non sull'obbligo”) non perdeva occasione per osannare il fascinoso Gigi Riva, ma al di sopra dell'idolo dei tifosi del Cagliari scudettato, poneva solo Silvio Piola, lo svedese Gunnar Nordahl e il gallese John Charles. Dell'allora allenatore della nazionale, Ferruccio Valcareggi, diceva che era “un onesto amministratore della pedata” e dovendolo avvicinare ad un personaggio del Risorgimento (epoca di cui si poteva considerare un esperto) chiamava in causa Quintino Sella. Su Vittorio Pozzo si esprimeva così: “Era un ottimo alpino che faceva cantare da solisti terzini, da coristi i mediani e da soprani gli attaccanti. Con questo assieme strepitoso veniva fuori un ottimo melodramma. E vinceva partite e campionati del mondo”. Ad un lettore che gli domandava: “Se fosse il presidente dell'Inter farebbe il cambio alla pari Mazzola-Rivera?” ribatteva: “Se fossi il presidente Fraizzoli non farei lo scambio alla pari. Ma siccome sono Bianciardi, lo farei anche domattina”.
Del fuorigioco sentenziava “mi sta antipatico (da qui il titolo del libro di Stampa Alternativa), come tutte le regole che limitano la libertà di movimento e di parcheggio”, mentre un personaggio come Helenio Herrera Bianciardi proprio non lo sopportava: “in questa società dove molti, troppi vendono fumo, Helenio Herrera si trova benissimo, e sa tenere da par suo l'ufficio stampa di Helenio Herrera. Come tecnico? Manca di intuizione psicologica, si abbandona all'ambiente in cui opera, vince i campionati se ha alle spalle un dirigente come Moratti”.

Mimmo Mastrangelo



Un'enorme potenzialità
di contagio sociale

Quando tu prendi il potere,
allora il potere si prende te

J. Holloway, p. 80

Agire altrimenti. Anarchismo e movimenti radicali nel XXI secolo è il titolo dell'ultima antologia curata da Salvo Vaccaro per elèuthera (Milano, 2014, pp. 247, € 15,00).
L'anarchia è intesa qui come elemento vitale, che appartiene cioè alla vita, e presente, non rimandabile a un lontano e ipotetico futuro. Essa è motore di conflitto permanente contro il governo, sempre più governance post democratica (iperburocratica) e sempre meno government rappresentativo, contro l'accanita competizione che tende a uniformare di sé tutti i campi del vivere sociale, contro la guerra permanente e la logica repressivo-securitaria degli Stati nazionali, contro la manipolazione e la falsificazione permanente, contro il saccheggio della ricchezza sociale e ambientale che è la cifra comune del neoliberismo. A questo proposito assai significativamente Graeber (p. 36) scrive non di “neoliberismo” ma di “neoliberalismo” per intendere come esso sia più che un movimento economico un movimento politico, “una reazione a tutte quelle vittorie ottenute dai movimenti sociali degli anni Sessanta”.
L'anarchia è stata adottata, per lo meno come mezzo, e in maniera più o meno consapevole, da parte di un gran numero di movimenti di lotta che negli ultimi venti anni hanno dato corpo a forme di resistenza all'ordre établi. In questa antologia si riportano analisi su alcuni di questi movimenti. Manca, ed è un peccato, una riflessione su quello greco, tra i più spiccatamente anarchici e maturi, a mio modo di vedere, sia nella pratica che nelle riflessioni. Ma ci sono i movimenti americani di Occupy con le riflessioni di David Graeber, Michael Albert e Noam Chomsky, ci sono le influenze zapatiste sul postmarxismo di John Holloway, gli indignados e le relazioni tra costoro e buona parte del movimento anarchico spagnolo, attivo in quel grande momento di presa di coscienza collettiva che sono state le acampadas, gli hacker di Anonymous; fino ad arrivare a un insieme di contributi, alcuni dei quali ruotano intorno a concetti centrali e fecondi come “l'utopia persistente” (definizione coniata M. Abensour che per R. Kinna combacia con il pensiero anarchico, p. 150) e l'insurrezione, declinata come attacco permanente e rifiuto dell'attesa, altri a mio parere assai meno centrati, perché sostanzialmente neo (e non anti) deterministi, quando teorizzano il collasso – d'emblée – della civiltà industriale, o il crollo del capitalismo globale (Uri Gordon, pp. 129-144).
A chiudere un ricco saggio riassuntivo che ha il merito di sintetizzare un rinnovato modo di pensare l'anarchismo in azione: il post-anarchismo e la politica radicale oggi di Saul Newman, autore di cui elèuthera ha pubblicato ultimamente un altro, simile, e stimolante, scritto: Fantasie rivoluzionarie e zone autonome. Post-anarchismo e spazio politico (2013, pagg. 81, € 8,00). Newman identifica la politica radicale contemporanea con “forme di organizzazione transnazionale antiautoritarie” basate sulla “democrazia diretta o non-rappresentativa”, cioè in buona sostanza “anarchiche”. Un anarchismo per lo più “inconscio” perché “modo particolare di intendere e praticare la politica, un modo che persegue l'autonomia dallo Stato e che non punta alla conquista del potere, ma alla sua decentralizzazione e democratizzazione” (S. Newman, pp. 234-235).
Quindi, metodo anarchico dicevo: ovvero orizzontale, antiautoritario, antigerarchico (Graeber, p. 39) che prende forma nelle assemblee generali, nei gruppi di lavoro a esse collegati e nell'abitudine all'azione diretta e spesso illegale in grado di imporre obiettivi intermedi, nel mutuo appoggio come pratica solidale extra, o anti, statale.
Un metodo che è immediatamente prassi in quanto rifiuta la distinzione tra forma e sostanza e che è collettivo perché elaborato attraverso il confronto transnazionale, nel comune rifiuto della conquista del potere a qualunque grado e nell'intento altrettanto comune di  disperdere e neutralizzare quanto più possibile tale potere.
I movimenti contemporanei nella loro eterogeneità, cito ancora l'ottima introduzione di S. Vaccaro, intendono divenire “rivoluzione senza farsi istituzione della rivoluzione”: vero e proprio nodo gordiano della modernità, questo, che l'anarchismo, solo tra i movimenti rivoluzionari, ha individuato e affrontato, anche se invero non (ancora?) risolto.
Da qui la salutare attenzione al presente, la tensione continua a “creare spazi prefigurativi in cui sperimentare nell'immediato il tipo di struttura esistenziale che esisterebbe in una società libera dallo Stato e dal capitalismo” (D. Graeber, p. 42). “Il comunismo – scrive D. Graeber (p. 46) – esiste già nel nostro intimo relazionarci con gli altri su un milione di livelli differenti. Quindi si tratta di espanderlo progressivamente fino a distruggere il potere del capitale”. Questo nella consapevolezza che il capitalismo è un “modo” non una “cosa” (J. Holloway, p. 80), così come lo Stato, come già ripetutamente indicato tra gli altri da M. Bakunin e E. Colombo, non è solo “una serie di istituzioni e strutture di potere, ma una particolare relazione autoritaria, un particolare modo di pensare e organizzare le nostre vite” (S. Newman, p. 226). Mezzi e fini libertari hanno un'enorme potenzialità di contagiare l'ambito sociale, più di quanto esse non facciano già, in un'epoca in cui “la distanza dell'istituzione sociale dalla società” è “divenuta sempre più chiara a porzioni sempre maggiori di popolazione” (J. Holloway, p. 74).
Testi come questi sono preziosi strumenti da provare a utilizzare in una fase in cui hanno raggiunto l'apice le politiche di saccheggio dei governi e dei loro collegati transnazionali: N. Chomsky ricorda giustamente, e lo fa spesso, che ad aprire la strada al New Deal sono stati gli scioperi degli anni Trenta. Allo stesso modo oggi è necessario occupare e rioccupare le piazze, fisicamente o simbolicamente, ovvero infiltrare il sociale che ci circonda, dando vita a esperienze più diffuse possibile di assemblearismo, conflitto con l'ordine costituito e autogestione di tutti gli aspetti della nostra vita, costruire ponti tra sfruttati di diverse latitudini e sponde del Mediterraneo per generalizzare un'insubordinazione di massa e radicale, che è il solo mezzo nelle nostre mani per far mutare di segno le politiche dei governi o, se si vuole, della governance transnazionale. Ma queste mani ce le dobbiamo sporcare, possibilmente smettendo di autorappresentarci come originale ma innocuo movimento di opinione e dandoci da fare penetrando davvero nel sociale, agendo fianco a fianco – ognuno con i suoi modi ma in maniera solidale – con chi “sta sul pezzo”, senza tentennamenti, ortodossie, capziosi distinguo o soverchie paure.

Antonio Senta



La vagina
scomparsa

Ogni anno la rivista Time interroga i propri lettori: “quale parola vorresti venisse bandita il prossimo anno?” e propone una lista di termini tra i quali scegliere. Si tratta perlopiù di neologismi abusati o espressioni gergali divenute quasi insopportabili come OMG (oh mio dio) o LOL (che ridere). Tra i buoni propositi che si è soliti formulare in vista del nuovo anno, Time ne propone uno linguistico-lessicale, auspicando la rimozione dal linguaggio – soprattutto quello dei media – di parole che avrebbero ormai perso (o non hanno mai avuto) un significato.
Nella lista di vocaboli da mettere al bando nel 2015, la presenza di femminista ha sorpreso tutti. In molti hanno criticato con indignazione questa scelta (per cui Nancy Gibbs, redattrice di Time, si è pubblicamente scusata). Ma com'è potuto accadere che un termine con una forte accezione rivoluzionaria venisse declassato fino ad essere inserito in una lista di parole di cui ci si augura il pensionamento?
Quanto accaduto è probabilmente sintomo della credenza diffusa di una inopportunità delle istanze femministe nel XXI secolo, per alcuni divenute ormai anacronistiche. Non è il vocabolo in sé ad essere riconosciuto come obsoleto, ma ciò a cui rimanda e da cui deriva: il femminismo. Non c'è più alcun bisogno di parlare di emancipazione femminile e liberazione sessuale in questa nostra nuova era, poiché tutto è già stato conquistato. Ma è davvero così?
Il gesto femminista. La rivolta delle donne: nel corpo, nel lavoro, nell'arte (a cura di Ilaria Bussoni e Raffaela Perna, Derive Approdi, Roma, 2014, pp. 166, € 20,00) fornisce uno spunto per una riflessione sull'efficacia e l'importanza del femminismo oggi. A partire dalle immagini delle manifestazioni femministe di ieri, avvenute principalmente negli anni Settanta, ma ancor più dalle immagini del gesto femminista per eccellenza: pollici e indici che si univano a formare un triangolo che rimandava al sesso femminile. Il volume, una raccolta collettanea di sedici saggi accompagnati da diverse foto di donne che esibiscono il simbolo della vagina, non ha come obiettivo la sola narrazione storica, ma si interroga su cosa sia rimasto della rivoluzione (incompiuta) femminista, proponendo un'analisi critica di quanto avvenuto in quegli anni e di ciò che ne resta.
Il libro prende vita da una domanda delle curatrici: dov'è finito il gesto femminista? Così presente per più di un decennio, il simbolo di un'intera lotta sembra essere scomparso. Viene realizzata una ricerca genealogica, indagando sulle sue radici. Quando è apparso per la prima volta e dove? Scopriamo così, dopo aver interrogato diverse esponenti del movimento femminista nel mondo, che il simbolo della vagina è comparso per la prima volta in Italia, dove è poi divenuto il segno distintivo delle battaglie del femminismo.
La portata rivoluzionaria di quelle mani alzate è data principalmente dal contesto. Sono gli anni Settanta. Aborto, riforma del diritto di famiglia, divorzio, maternità consapevole sono obiettivi delle lotte compiute in nome di un'autodeterminazione che fino a quel momento non era concessa. Forte è il rifiuto del ruolo che si pensava fosse ''naturalmente'' assegnato ad ogni donna proprio in virtù del suo organo riproduttivo. Era la vagina a conferire significato al genere femminile e a darle un posto ben preciso all'interno della società. Eppure, nonostante il sesso ricoprisse un ruolo così centrale nella vita delle donne, tanto da condizionarne ogni aspetto dell'esistenza, questo si rivelava un tabù inesplorabile, non conoscibile né tantomeno narrabile; qualcosa di cui non poter nemmeno disporre in modo libero e autonomo. È proprio questa la condizione che trasforma l'esposizione pubblica del gesto femminista in un atto rivoluzionario. Con pollici e indici uniti, le donne mettevano in luce ciò che fino a quel momento era rimasto rinchiuso nello spazio buio dell'indicibile, si riappropriavano di qualcosa che non gli era mai appartenuto fino in fondo, affermavano la loro volontà di scegliere cosa farne e svincolavano una parte anatomica dalla sua funzionalità organica. Il genere si staccava ufficialmente dal sesso, affermandosi come costruzione sociale, come un processo che niente aveva a che vedere con la biologia. Con quel gesto le donne dichiaravano di essere finalmente libere di decidere del proprio ruolo e della propria individualità in completa autonomia.
Nascono i collettivi, i gruppi di dibattito e autocoscienza entro i quali ci si confronta portando la propria esperienza. Sfidando il patriarcato all'interno della famiglia e rifiutando il ruolo sociale fino a quel momento imposto, il movimento femminista attaccava la chiesa cattolica e lo stato e proponeva teorie e pratiche sociali alternative a quelle esistenti. La sua connotazione antagonista avvicinava il femminismo di quegli anni alle lotte di classe e lo allontana dalla sua ala definita “borghese”. Eguaglianza, giustizia sociale, liberazione dai vincoli morali e istituzionali sono gli obiettivi che spingono le donne a scendere in piazza al fianco degli uomini nelle manifestazioni operaie, e a farlo nuovamente insieme ad altre donne nelle manifestazioni femministe.
Attraverso le testimonianze di chi ha preso parte alle lotte di quel periodo, il volume ricostruisce il significato della battaglia femminista combattuta in nome dell'autonomia e della liberazione, il percorso intrapreso e i mezzi utilizzati, compreso quello artistico. Propone anche un'analisi critica degli errori del passato, del presente e delle debolezze dell'intero movimento.
Resta comunque da capire per quale motivo il gesto femminista risulti attualmente scomparso, avvistato l'ultima volta in una manifestazione nei primi anni ottanta e mai più rivisto. È interessante notare come il segno della vagina sia forse l'unico gesto riconducibile ad una rivoluzione che non viene sistematicamente ripreso e riprodotto. A quarant'anni dalla sua prima apparizione, quel segno resta scabroso, sovversivo oggi forse più di ieri vista la sua sparizione dalla scena pubblica. Si tratta di un gesto di forte rottura, con una valenza politica radicale, che rimanda esplicitamente alla sessualità e al piacere. La sua dipartita mostra quanta sia ancora la strada da percorrere per raggiungere una liberazione sessuale ed un'emancipazione reale ed efficace.
Considerata la scomparsa della “vagina femminista” e visti gli attacchi degli ultimi anni al diritto all'aborto, al perdurare del tabù dell'educazione sessuale, all'ostruzionismo nei confronti di un dibattito sulla fecondazione assistita e alla mistificazione delle teorie di genere, è forse ancora presto per pensare ad un pensionamento del termine femminista. Ne abbiamo ancora bisogno, e questo volume ci aiuta a capirlo.

Carlotta Pedrazzini



Una vita
avventurosa

Oreste Ristori è una figura interessante, ancorchè non molto nota, dell'anarchismo non solo italiano, a cavallo tra '800 e '900.
Nasce a San Miniato (PI) il 12 agosto 1874. La famiglia ben presto si trasferisce a Empoli dove il giovane Oreste muove i primi passi politici nel gruppo anarchico locale. Nel 1892 subisce il primo arresto, cui segue un decennio di condanne, arresti, domicilio coatto ed evasioni. Nell'agosto del 1902, per sfuggire alle persecuzioni della polizia, raggiunge il Sud America dove vivrà spostandosi tra Argentina, Uruguay e Brasile. Spesso in prima linea come agitatore sociale e pubblicista, nel 1936, dopo essere stato uno dei protagonisti delle insurrezioni operaie nella città di San Paolo contro i movimenti parafasciti, è espulso dal paese e rimpatriato. Arrestato nel corso delle manifestazioni popolari in occasione della caduta del fascismo dell'estate 1943, muore fucilato per rappresaglia degli squadristi a Firenze, al poligono di tiro, la mattina del 2 dicembre di quell'anno insieme all'anarchico Gino Manetti e tre militanti comunisti Armando Gualtieri, Luigi Pugi e Orlando Storai.
L'Archivio storico del Comune di Empoli gli ha dedicato un sito: http://www.oresteristori.it. Carlo Romani ha curato la voce sul Dizionario biografico degli anarchici italiani e ha pubblicato l'articolo Oreste Ristori un'avventura anarchica, sul n. 1/1999 della «Rivista storica dell'anarchismo».
Su Ristori è appena uscito, per BFS edizioni (via I. Bargagna, 60, 56124 Pisa, info_bfsedizioni@bfs.it, tel. 050 9711432) il volume di Carlo Romani Oreste Ristori. Vita avventurosa di un anarchico tra Toscana e Sudamerica (pp. 288, € 20,00), del quale proponiamo questo stralcio:
Ristori combatteva una visione secondo cui l'anarchismo era uno scopo inalienabile dell'umanità. Capiva invece che le trasformazioni sociali, la possibile via rivoluzionaria, sono frutto di un continuo lavoro nel presente, nelle azioni quotidiane, dove nessuno meglio del libertario cosciente, già libero dalle soggezioni imposte dalla disciplina e dal controllo dello Stato borghese, è l'agente privilegiato da seguire nei momenti in cui la tensione sociale irrompe in maniera più repentina e violenta. Hobsbawm direbbe che gli anarchici, eroi romantici, non avrebbero mai potuto realizzare la rivoluzione per la loro incapacità di organizzare le forze in lotta in maniera che si costituissero in effettiva resistenza agli apparati repressivi esistenti. La rivoluzione di cui parla lo storico inglese non è la stessa che idealizzavano gli anarchici. Eroi romantici, utopici o, se vogliamo, ribelli primitivi, gli anarchici durante il processo autogestionario della Rivoluzione spagnola, dimostrarono che era possibile, con molta determinazione, quasi una fede cieca, a partire da un lavoro costante, rivolto al micro, al locale, organizzare amministrativamente comunità senza il bisogno di una forza autoritaria centralizzata e repressiva.
Le rivoluzioni nascono in maniera spontanea, senza data prevista, dipendono dalle condizioni favorevoli che si vanno generando nel calore della lotta e hanno bisogno di una gran dose di coraggio personale in tutti gli individui coinvolti. Spetta però alla frazione più cosciente del proletariato dirigere questo processo rivoluzionario. A Buenos Aires gli anarchici non si erano dimostrati degni della fiducia che avevano l'obbligo di trasmettere all'insieme dei lavoratori e questo non piacque a Ristori. Dopo un breve periodo di calma, la repressione politica ricominciò a farsi sentire. La visibilità che Oreste esibì, nell'ansia di rimettere in moto il movimento, gli procurò immediatamente dei guai. Arrestato assieme a Basterra, il 14 gennaio fu condotto a bordo del piroscafo tedesco “Schleswig” con destinazione Brema.
Purtroppo per il console italiano, il capitano della nave tedesca si rifiutò di ricevere a bordo due passeggeri costretti a viaggiare contro la loro volontà, quasi causando un incidente diplomatico col governo argentino che, per superare il problema, dopo due giorni di fermo del piroscafo nel porto di Buenos Aires, cedette, aspettando un'altra occasione per espellerli. In ringraziamento per la decisione adottata in quel caso, Ristori e Basterra organizzarono una colletta tra i compagni portuali per consegnare una medaglia al capitano della nave tedesca, minacciando nel frattempo il governo argentino di rappresaglia attraverso il boicottaggio degli stivatori addetti al caricamento delle navi coinvolte nella deportazione di prigionieri. Il boicottaggio era il primo strumento di pressione utilizzato dai sindacati anarchici. In quell'occasione, col movimento sindacale in riflusso, i lavoratori si rincuoravano quando qualche iniziativa veniva presa, facendo crescere la loro autostima. E fu quel che fecero Basterra e Ristori nel corso della loro deportazione. Vediamo questa piccola beffa.
Il giorno 16, il Ristori – il quale si era fatto passare per belga – ed il Basterra, venivano condotti per ferrovia a La Plata, ed imbarcati sul Magdalena, postale inglese in partenza per il Brasile e Southampton.
Giunto il piroscafo a Montevideo ove faceva il suo primo scalo, il Ristori e il Basterra che erano stati raggiunti a bordo da vari anarchici profughi in quella Città chiedevano al Capitano il permesso di scendere a terra, cosa a cui questi annuì senz'altro, aggiungendo che tutti i passeggeri erano liberi di sbarcare ove volessero, non facendo egli il carceriere. Naturalmente essi non tornarono a bordo. Ma non contenti di ciò dopo aver fatto provare che avevano perduto il piroscafo per mera sbadataggine, riuscivano a riscuotere dal rappresentante la compagnia di Navigazione in Montevideo, – come si usa del resto per i viaggiatori che per caso perdono il piroscafo a Montevideo – la restituzione di metà importo del viaggio pari a $ 20 oro per ciascuno, e che han servito a tenere allegri per vari giorni, i malnutriti anarchici dell'Argentina profughi a Montevideo.
Il modo patetico in cui vennero ridicolizzate le autorità, per quanto irriverente, risollevò il morale degli esuli a Montevideo che erano riusciti a sfuggire alla deportazione imminente.

Carlo Romani



Teatro delle Albe/
Aung San Suu Kyi ovvero dell'ironia

Vita agli Arresti di Aung San Suu Kyi, andato in scena al Teatro Rasi di Ravenna, è la proposta del Teatro delle Albe per la regia di Marco Martinelli con Ermanna Montanari (e con Roberto Magnani, Alice Protto, Massimiliano Rassu). La domanda “è distante la Birmania? Evidentemente no. Vicina come ogni parte della terra” racconta lo spettacolo. Ad ognuno i suoi perché. Per me è vicina, perché nei soprusi della polizia Birmana, ordinati dal regime militare, vedo Aldrovandi, Cucchi, No Tav, Genova. In generale vedo tutti quei momenti in cui lo stato si è fatto “mandante” e il poliziotto “assassino”. Cosa è successo? Perché come in un lampo è tornato questo pensiero che raggela il sangue ma che nella quotidianità viene assopito? Perché non ci si può più rassicurare e cullarsi nella tranquillità avendo negli occhi quel riserbo all'immedesimarsi? Perché non avviene come con le immagini dei telegiornali che rendono lontani disastri anche spesso vicini?
Perché, se non fossi impacchettato nella mia (quotidiana?) impotenza o incuranza, se non fossi come incastrato nella sedia, nei miei modi civili, mi verrebbe da alzarmi e gridare verso il palco: guardate che qui la situazione è tragica alla stessa maniera. Guardate che i soprusi sono qui di fianco, qui nel cuore dell'Europa democratica, dagli esempi che ho fatto prima alla quotidianità mostruosa dei singoli. L'inferno di molte, troppe persone.

Da qui parte la mia vicinanza o meglio “l'avvicinamento.” Lo spettacolo riesce con sottili ma efficaci espedienti a rendere la Birmania vicina e piano piano a far sorridere. Come? Saw Maung, per esempio, il dittatore birmano, interpretato da Massimiliano Russu, ricalca la figura del nostro politico medio, un po' mafiosetto, uno che cerca di essere furbo ma è uno sciocchino, un cialtrone, un italiota. Con quella voce rauca di chi te la vuole contare. È il padrino. È un ossimoro, ma non c'è da stupirsi se il male è mediocre. D'altronde siamo in Italia, ops, scusate in Birmania. Il dittatore è buffo, si intoppa, non crede neanche lui più in quello che fa. Occupa una poltrona e tira a campare.
Come ammesso dal regista, lo spettacolo nasce quando si accorgono della somiglianza fisica tra Aung San Suu Kyi ed Ermanna Montanari. Il fascinoso personaggio dell'eroina birmana esalta i lineamenti del volto e le movenze orientali dell'attrice protagonista. E poi quando Ermanna parla al microfono il tempo si ferma, i vecchi spettri emergono, quelli nuovi si placano. Senti che le distanze non esistono, né di tempo e né di spazio. E della sua bravura è già stato scritto in modo molto autorevole: “sperimentatrice delle possibilità e del potere della voce umana” recita la motivazione del Premio Lo Straniero, dedicato alla Memoria di Carmelo Bene che le è stato conferito nel 2006. Nel momento in cui Ermanna prende il microfono, secondo me, succede proprio un mistero: lo spettacolo nello spettacolo. Alcuni momenti meravigliosi quanto rari ma, quando avvengono, la magia pervade il teatro.
Improvvisamente la Birmania si allontana. E causa ne è proprio Ermanna Montanari – Aung San Suu Kyi.
Con l'evolvere della vicenda biografica della protagonista mi sento sempre più piccolo e squallido.
Quindici anni di reclusione e la protagonista dice: “Se avessi odiato i miei carcerieri, allora sarei stata effettivamente loro prigioniera”. Certo, ma dove trovare la forza per sfidare i carcerieri se non usando la forza dell'ironia? Sbeffeggiarli li rende deboli. Ma io mi chiedo se quella sofferenza che ho provato all'inizio dello spettacolo è reale, se il mondo in cui viviamo è sempre più invivibile e se il malessere collettivo si estende a macchia d'olio. Vorrà dire che siamo noi i nostri carcerieri? Come essere ironici? “La serietà come unico umorismo accettabile” è una frase di Flaiano (e come mai i suoi aforismi sono sempre attuali?). E se facciamo quello che non ci piace? Se non prendiamo la materia nella sua interezza? Non siamo forse noi i prigionieri? E chi sono i nostri carcerieri?
Ritorna in me una beffarda voce che dice: “ciò che è buono appare, ciò che appare è buono”. Lo spettro della società dei consumi? Ognuno deve combattere i propri oppressori e per farlo, lo spettacolo insegna: un'arma potente è l'ironia.

Marco Martinelli con Ermanna Montanari

L'ironia però sembra lontana. Svilita. In un pezzetto dello spettacolo i Moustache Brothers, comici birmani che rischiano la vita per le loro battute sul regime, dicono: “in Italia esiste un comico che si chiama Crozza che prende in giro i politici e più li sfotte e più guadagna soldi. A noi aumentano solo gli anni di reclusione”. La leggendaria ironia della Birmania è lontana da noi. Qui noi siamo comici. L'ironia (che ci manca) porta con sé un tipo di risata diversa dalla nostra? La risata rivoluzionaria, antiautoritaria, liberatrice.

Andrea Manica



Quarta edizione per il fabbro anarchico
Umberto Tommasini

L'anarchismo, secondo il mio punto di vista, si è basato soprattutto sull'individuo militante cosciente e responsabile. Le strutture organizzative hanno evitato, quasi sempre, di appiattire le singolarità con un modello di disciplina e uniformità. Anche per questo, l'anarchico (e l'anarchica) ha, di solito, una vita densa: impegno e utopia, resistenza e sogni.
Questo è il caso di Umberto Tommasini (1896-1980) per 60 anni attivista mai fanatico, aperto alle novità libertarie e nemico di ogni autoritarismo. Attraverso l'esempio, e mai dando lezioni, è stato un vero “maestro” e come tale ha avuto un ruolo fondamentale nella formazione di molti anarchici e libertari. A Trieste e non solo. Perciò ricordarne l'esistenza ricca di ideali e di lotte offre un modo di conoscere meglio le teorie e le pratiche anarchiche.
Ogni edizione dell'autobiografia ha una sua storia. Tutto inizia con una nuova tendenza storiografica che vuole dare voce agli “esclusi”: la scoperta delle fonti orali. Senza la registrazione, fatta nell'estate del 1972 nella casetta di Vivaro in Friuli, non avremmo mai avuto un documento di eccezionale importanza, una finestra su un militante e un movimento quasi del tutto sconosciuti o mistificati.  Il progetto del libro restò in un cassetto per diversi anni: gli anni Settanta erano piuttosto densi di cortei, assemblee, scontri con fascisti e polizia, volantini mattutini, pomeridiani, serali, affissioni notturne, ecc. Insomma mancava il tempo per dedicarsi ad un lavoro metodico e di non immediata utilità. Solo Clara Germani si mise al lavoro seriamente e con regolarità trascrisse, in più di 600 cartelle, l'intervista di 16 ore. Da ricordare che allora usò una piccola Olivetti 32, regalo per il suo diciottesimo compleanno.  Ciò comportò un impegnativo lavoro di “taglia e cuci” per riordinare il discorso in ordine cronologico, ma fatto con le forbici e il nastro adesivo...
Dare una forma scritta coerente alla narrazione orale richiede notevole impegno. Nel nostro caso, il salto di paradigma espressivo andava fatto con grande attenzione per salvare la spontaneità del dialetto triestino e rendere leggibile un testo a chi non fosse abituato a maneggiare questa lingua, una variante del veneto. Il risultato fu un volume di più di 500 pagine con glossarietto annesso. Poi un inserto fotografico e la prefazione di Paolo Gobetti, il figlio di Piero, è l'animatore della “videostoria”. Da anni andava raccogliendo interviste preziose come quelle agli anarchici spagnoli esiliati e pieni di speranze dopo la caduta di Franco. Lo stesso Umberto rese un'ora di conversazione nel 1976 proprio a Gobetti all'interno di una sessione della Biennale di Venezia dedicata alla guerra di Spagna. È l'unica videoregistrazione in cui egli parla con il suo linguaggio schietto e antieroico.
Parte integrante del volume del 1984, apparso quattro anni dopo la sua morte, fu ricavata da un lavoro di scavo nell'Archivio Centrale dello Stato a Roma, dove si accumulavano le informative dell'OVRA, la polizia politica di Mussolini. Qui il suo fascicolo si apre con la dicitura “Attentatore”, peraltro molto fondata: nel 1926 e nel 1937 quasi si realizzò il sogno di uccidere il “duce”.
Le duemila copie del libro andarono esaurite in tempi brevi. Ci “aiutò” un onorevole democristiano di destra, il padre padrone del principale circolo culturale triestino: un'ora prima della presentazione ci chiuse la sala regolarmente affittata. Un'affannosa ricerca di uno spazio ci permise di deviare le 200 persone che volevano partecipare alla presentazione, curata da Pier Carlo Masini, Paolo Gobetti e Nico Berti.
La polemica successiva scosse l'opinione pubblica triestina e molte centinaia di triestini protestarono contro la discriminazione. Tutto ciò promosse questo libro pericoloso e bisognava passare a rifornire le librerie due volte la settimana. L'editrice militante Antistato (oggi scomparsa) non perse i pochi fondi disponibili e investiti in questa opera voluminosa anche grazie al sostegno del compagno Attilio Bortolotti, un friulano emigrato in Canada ed estimatore di Umberto.
Ci furono poi decine di presentazioni, locali e nazionali, che permisero di far conoscere meglio la ricchezza umana e la determinazione politica dell'anarchismo italiano, ma anche francese e spagnolo.
La soddisfazione di questa impresa era turbata dalla constatazione che molti lettori mostravano serie difficoltà nel seguire le pagine in dialetto. E così si giunse all'edizione tradotta in italiano. Anche qui Clara Germani ci mise tutta l'attenzione necessaria. Bisognava ridurre le dimensioni senza far perdere il valore complessivo. Dopo molti anni, nel 2010, Odradek, editore romano impegnato nella stampa di lavori sui movimenti popolari, pubblicò “Il fabbro anarchico” preferendo questo titolo al precedente “L'anarchico triestino” troppo locale. Collaborò anche Claudio Magris con un'intervista nella quale considera “epico” il libro e “straordinario” il racconto di Umberto.
La versione in italiano è la base di altre due edizioni. La prima esce a Barcellona nell'autunno del 2011 con un titolo che cerca di riallacciarsi al grande movimento del 15M (Maggio) una sorprendente mobilitazione spontanea che occupò le principali piazze spagnole per circa un mese. Ecco che Tommasini diventa Un indignat del segle XX. La minuscola casa editrice catalana Llibres de Matrícula affronta però una crisi molto grave e licenzia, per motivi economici, l'unica lavoratrice (e traduttrice) il giorno dopo la presentazione del libro. E così il volume circola assai poco, in pratica solo nell'ambiente militante in cui ha un ruolo cruciale La Rosa de Foc, la libreria della CNT in Calle Joaquim Costa, a un passo da un noto edificio, il Centre de Cultura Catalana de Barcelona, Calle Joaquim Costa 34b.
La seconda edizione tradotta è realizzata nel novembre scorso dalla Fundación Anselmo Lorenzo, editrice della CNT con sede a Madrid con un catalogo mirato a rafforzare la cultura anarchica, in particolare di tipo storico. È scelto il titolo El herrero anarquista. Memorias de un hombre de acción. La traduzione è di Paca Rimbau che vi dedica quasi un anno e l'Introduzione storica viene adattata per un lettore non italiano e quindi presenta un maggior numero di note esplicative. Questo volume ha un grande pregio: l'inserto fotografico comprende una quarantina di riproduzioni, più numerose e meglio stampate degli altri tre inserti. Il Prologo è di Pere Gabriel, un docente dell'Universitat Autònoma de Barcelona e uno dei migliori esperti di storia dell'anarchismo spagnolo.
Nella capitale catalana, a metà novembre 2014, si svolge una bella presentazione dell'autobiografia orale con la collaborazione di un interessante gruppo, l'AltraItalia, composto da giovani “emigrati” anni fa dalle nostre terre quando in Spagna era facile trovare lavoro. Il loro orientamento è genericamente di sinistra senza preconcetti verso l'anarchismo e, dato assai rilevante, hanno varato una serie di iniziative per far conoscere la memoria e l'attualità di un paese ribelle. Intendevano, e intendono, dimostrare che l'Italia era migliore dell'immagine diffusa nel mondo e che non si esauriva in un furbo e deprimente personaggio da spettacolo televisivo (Berlusconi) o in una congerie di politici, conservatori di varie tendenze, di basso profilo. Quindi il libro e il nuovo docufilm realizzato da due giovani registi triestini, Ivan Borman e Fabio Toich, si sono inseriti in un programma di diffusione della nostra storia di lotte e speranze. E le memorie, sempre vive e gustose, di Umberto hanno apportato un'esperienza preziosa fatta di scontro, individuale e collettivo, contro ogni potere. Due presentazioni si sono svolte anche a Madrid, nella sede della CNT e nella libreria LaMalatesta.
Si sta aspettando la traduzione in francese per aumentare la conoscenza di questa figura di protagonista generoso, oltre che modesto, della storia antiautoritaria del Novecento europeo.

Claudio Venza