rivista anarchica
anno 45 n. 398
maggio 2015


Val Bormida

Quel valico non s'ha da fare

di Andrea Papi / foto Massimo Prosperi


Dall'Acna ai coloranti, passando per le discariche e il terzo valico.
Da quasi due secoli la Val Bormida si trova al centro di una colonizzazione economico-politica che ha portato ad uno sviluppo industriale altamente inquinante. Un nostro collaboratore è andato in valle per parlare con Vincente Taquias Vergara (“Urbano”), anarchico cileno tra i protagonisti delle lotte, e per raccogliere documentazione.


Quando sono entrato in contatto con la recente esperienza di lotta nella Val Bormida attraverso il racconto di alcuni dei suoi protagonisti, mi sono subito reso conto che non era affatto semplice parlarne o scriverne. Oltre a contenere indubbiamente alcuni elementi di novità presenta anche alcune rotture di schemi interpretativi d'intervento, non facili da comprendere immediatamente perché vanno approfonditi per riuscire a decriptarne il senso.
La prima peculiarità che salta agli occhi è che quasi subito durante la mobilitazione si è verificata una simbiosi spontanea tra le popolazioni di diversi paesi della valle e un numero consistente di sindaci. I rappresentanti delle istituzioni locali, invece di porsi innanzitutto come funzionari istituzionali, hanno accettato di diventare richiesti portavoce delle istanze di base espresse dai comitati dei vari paesi. Tra sindaci e cittadini si è dunque verificata una convergenza significativa per tutta la durata della mobilitazione, che perdura in un clima di reciproco ascolto e rispetto. Durante le assemblee dei comitati i sindaci si sono sempre posti convinti al pari di ogni altro cittadino, indipendentemente dal fatto che difficilmente avrebbero potuto far diversamente.
La seconda peculiarità, particolarmente eloquente, è che questa lotta è sostanzialmente pagante. Senza ambiguità sembrava avesse vinto la ragione sociale sulla speculazione privatistica, facendo emergere in tutta la sua portata la volontà popolare, dando in pieno ragione ai contenuti posti fin dall'inizio dalle comunità locali. Anche se ancora non ha la vittoria in pugno, la valle nel suo complesso è riuscita a resistere con fermezza contro una volontà a lei estranea, smascherandone il tornaconto di violento impatto ambientale antropico. Gli interessi padronali questa volta si son dovuti fermare di fronte alla fermezza e alla dignità di popolazioni che non amano invasioni “aliene” sul proprio territorio.
La terza peculiarità è Urbano Taquias, un emigrato cileno dichiaratamente anarchico, da decenni radicato nel territorio e ampiamente conosciuto per la ostinata pertinacia nel lottare contro le ingiustizie. Elemento di punta negli anni novanta per la fondazione di un Comitato Cileni Esiliati che non si limitava alla denuncia, ma alla creazione concreta di spazi di esistenza dignitosi per tutti quegli emigrati che fino a quel momento, in Alessandria e provincia, avevano rappresentato nient'altro che un comodo serbatoio di lavoro nero a buon mercato in cambio di indifferenza, quando andava bene, altrimenti di xenofobia. Già protagonista a suo tempo sia della lotta contro la Montedison a Carrara sia di quella contro l'Acna di Cengio, fin da subito è stato un riconosciuto fondamentale polo di riferimento per tutta la conduzione della vicenda (sul numero “A” 249 – novembre 1998 è stata pubblicata un'intervista di Emanuela Scuccato a Urbano Taquias dal titolo Quel rifugiato non abbastanza urbano).
Nel promuovere e stimolare la lotta, in questa contingenza della Val Bormida, ha trovato un validissimo aiuto nell'attivismo del giornalista Massimo Prosperi e dell'antropologo libertario Pier Paolo Pracca, i quali più che supportarlo ne sono stati cooperanti d'azione. L'aver lottato fianco a fianco un anarchico, a tutti gli effetti un protagonista primario, e dei sindaci, i quali non solo non si sono contrapposti bensì hanno sposato in pieno la causa delle popolazioni, rappresenta certamente un indiscutibile elemento di novità, che non può essere sottovalutato e che porta a porsi alcune domande, almeno per chi è abituato a ragionare d'anarchia. Abbiamo perciò chiesto direttamente ad Urbano: “Da anarchico come hai vissuto la lotta fianco a fianco con dei sindaci e come pensi che questo fatto non intacchi la tua coerenza anarchica?”.
Ecco la sua risposta: “Io penso che un anarchico prima di tutto debba partecipare all'interno delle lotte popolari quando sono in gioco gli interessi collettivi dei cittadini, come ad esempio qui in Val Bormida, per la difesa delle falde acquifere, della salute e del territorio dove si abita. Credo che sia molto importante dare il proprio contributo. Questo mi ha sempre portato ad essere al centro nelle lotte locali senza dover rinunciare ai miei principi, tanto meno ad aderire per forza a qualsiasi altra organizzazione politica. Nel territorio dove abito tutti sanno che sono anarchico e questo non impedisce che per portare avanti le lotte debba parlare con gli altri senza pregiudizi o settarismi, che mi porterebbero ad un isolamento settario. Penso che in questa fase in cui viviamo, dove una rivoluzione libertaria è di là da venire, non possiamo aspettare per intervenire oggi con la nostra esperienza ed estraniarci da quello che succede intorno.

Sezzadio (AI) - L'area della cava
Sfruttamento del territorio

Non esistono isole felici. Esiste invece un quotidiano pieno di aggressione al territorio, alla salute, all'ambiente in generale, con uno sfruttamento da parte del capitale e delle multinazionali che non dà tregua, mentre vediamo all'orizzonte i venti di guerra più generalizzati e più globalizzati, con le libertà dei cittadini sempre più assottigliate. Penso che in questo contesto portare i cittadini alle assemblee per discutere di queste cose sia già un contributo importante, che noi come anarchici dobbiamo dare. Per noi non esistono santuari. Tutto è in movimento ed è all'interno di queste lotte che dobbiamo parlare con più persone possibili, perché la società futura che ci auguriamo non potrà che essere il frutto di quello che facciamo oggi. È adesso che dobbiamo portare le nostre idee libertarie all'interno di tutto quello che si muove oggi. Noi saremo sempre riconosciuti dalla gente e dai cittadini per quello che diciamo e per quello che facciamo. Il nostro esempio deve aiutare a creare la coscienza dei diritti delle collettività che oggi si trovano davanti ad una aggressione permanente da parte dei politici, dei padroni e degli stati. Se staremo fuori da queste dinamiche ora, non potremo pretendere di cambiare la società domani”.
Personalmente concordo con questa impostazione, nonostante sia insolita anche rispetto alla mia esperienza. Non la trovo contraddittoria né incoerente. Il rapporto tra chi la pensa diversamente è stato sempre solare senza che si richiedesse ad alcuno di fare o dire cose che non si condividono e non vorrebbe. Il metodo d'azione, aperto e trasparente, non ha prodotto gerarchie e le decisioni comuni continuano ad esser prese concordemente in seguito ad approfondite discussioni in assemblee pubbliche, dove ognuno dei presenti può esprimersi alla pari senza che nessuno decida per altri. Siamo senza dubbio all'interno d'una pratica libertaria.

Novi Ligure (Al) - I comitati di base
sfilano contro il Terzo Valico
Dall'Appennino ligure al basso Piemonte

Conosciuta come Val Bormida, la valle è disegnata dal fiume omonimo. Diviso in due tronconi si estende dall'Appennino ligure, nell'entroterra savonese, protendendosi sino al basso Piemonte dove confluisce in un altro fiume, il Tanaro, il quale termina la sua corsa nel Po, il “grande fiume”.
Come ben sottolineato da Pierpaolo Poggio: “in un'ottica spaziale bisogna ragionare in termini di bacino idrografico [...] perché [...] per la sua struttura la Valle non riesce ad essere un vero fattore di unificazione” (Il peso della storia in valle Bormida in “Comuni polvere, polvere di comunità”, n.3-4, 2005). A parte Acqui terme, importante centro termale e turistico che comprende poco più di 20.000 abitanti, e Cairo Montenotte, che ne ha poco più di 13.000, la valle è composta da un nugolo di paesi e paesini, ognuno con poche migliaia di abitanti, spesso solo qualche centinaio. Paesi non frazioni, con la dignità istituzionale di comuni col loro municipio, tanto è vero che ognuno ha il suo sindaco o sindachessa. “[...] Se poi spostiamo l'attenzione alla dimensione temporale, le fratture e divisioni scompongono ben più profondamente il nostro territorio, una fascia sottile e tormentata che divide la pianura dal mare, la catena alpina da quella appenninica”.
Una frammentazione amministrativa particolare, dovuta probabilmente al fatto che dopo la restaurazione postnapoleonica in Piemonte si realizzò una sorta di “ibridazione” tra le istituzioni d'antico regime con quelle d'età napoleonica, che istituzionalizzava una chiara suddivisione gerarchica del territorio. Il 10 novembre 1818, infatti, il Regio editto n. 859 di Vittorio Emanuele I confermava la suddivisione del territorio in quattro ordini di gerarchia: divisioni, province, mandamenti e comunità. Un modo consolidatosi da allora di tentare di tenere i territori sotto controllo, oggi molto probabilmente non più così funzionale.
Il potere centrale ha sempre usato questa frammentazione per l'utilizzo di risorse umane e ambientali in loco legate ai cicli dell'industrializzazione in Italia. Nonostante le opposizioni delle popolazioni locali, fu imposta la costruzione di bacini artificiali per soddisfare le esigenze di acqua e di energia idroelettrica delle città della Riviera ligure e delle loro fabbriche. Soprattutto, in alta Val Bormida, tra otto e novecento, prese avvio, sulla spinta di esigenze militari, l'installazione di alcuni stabilimenti chimici, un polo chimico di tutto rilievo, attorno agli impianti di Ferrania, della Montecatini di Cairo Montenotte e dell'Acna di Cengio, collegati al porto di Savona tramite una funivia industriale (tuttora funzionante e all'epoca di avanguardia). Per usare una metafora che invero nella realtà rispecchia la concretezza del vissuto, è come se fin da subito dopo l'unità nazionale l'italiana val Bormida fosse stata colonizzata dalla centralità politico-governativa italiana.
Un'altra volta risulta molto chiaro Pierpaolo Poggio, che riesce a dare con efficacia una visione d'insieme delle dinamiche intercorse: “L'opzione per la valorizzazione delle risorse locali, l'agricoltura, il turismo, comune a molte aree italiane, assume il suo vero significato alla luce del fatto che tale scelta si è affermata dopo un lungo conflitto, avente come epicentro l'Acna di Cengio (SV), e dopo che, attraverso i decenni, sono falliti i tentativi di dar vita ad uno sviluppo industriale nei paesi della Valle”. Una situazione fallimentare erede di un periodo in cui si voleva a tutti i costi l'industrialismo come unica strada valida per lo sviluppo socio-economico. “[...] l'obiettivo era di portare le fabbriche, possibilmente le grandi fabbriche, nelle campagne”.
Poiché da parte del potere centrale si era sempre privilegiato l'industrialismo come via unica ed obbligata allo sviluppo, in questa valle in particolare ancora una volta si è dimostrato che le scelte politiche dall'alto, aggravate da pressappochismo perché prive di una precisa visione strategica, condannano i territori a forti marginalità e frammentazione indesiderate. È su questo sfondo di continui e sistematici tentativi di piegare l'intera valle a strategie industriali non pensate in sintonia col territorio, che prese corpo e forma la lotta dell'Acna di Cengio, che per la sua persistenza e qualità ha poi assunto una rilevanza storica. Visione e lettura fra l'altro in buona sintonia con quella data e vissuta in particolare dagli abitanti e dalle forze politiche espressione del territorio.
In una situazione in cui il Bormida, pur percorrendo un territorio a bassa densità di insediamenti produttivi, era ed è da sempre uno dei fiumi più inquinati d'Italia, oggi d'Europa, a metà degli anni ottanta sorse spontaneamente con forza la lotta contro l'Acna, quando ormai si era persa memoria delle lotte contadine succedutesi nei decenni precedenti senza ottenere alcun risultato. Un disastro evidente che le popolazioni non riuscivano più a sopportare, che portò a un progressivo coinvolgimento di tutta la vallata, “con la sola vistosa eccezione di Alessandria” (come testimonia il Poggio), fino a imporre la chiusura dell'Acna.

Un sito esplosivo

La lotta contro l'Acna di Cengio segnò una svolta nel modo di rapportarsi della valle nei confronti del potere centrale e fu talmente importante da diventare simbolica. L'Acna era sorta nel 1882 per esigenze militari come fabbrica di dinamite. Senza ovviamente consultare chi vi abitava, il luogo era stato scelto per la grande disponibilità d'acqua e di manodopera a basso costo e il collegamento ferroviario col vicino porto di Savona. Polo produttivo importante, i cui esplosivi rifornirono ampiamente la guerra coloniale di Libia nei primi decenni del secolo scorso.
Il problema dell'inquinamento si manifestò fin dall'inizio. Non si poteva più usare l'acqua del Bormida per irrigare, mentre la nebbia e le piogge portavano un agente chimico, il fenolo, nei terreni. Nel 1909 il pretore di Mondovì vietò l'utilizzo a scopo potabile dei pozzi nei comuni di Saliceto, Camerana e Monesiglio. La fabbrica raggiunse il massimo numero di occupati, circa 6000, in piena guerra mondiale nel 1918. Conseguenza: nel 1922 il pretore ordinò la chiusura dell'acquedotto di Cortemilia.
Nel 1925 l'Italgas rilevò l'impianto e lo riconvertì alla produzione di coloranti. Insieme a quello di Cengio rilevò anche gli impianti di Rho e Cesano Maderno e nel 1929 costituì l'Acna, acronimo di Aziende Chimiche Nazionali Associate. Siccome la situazione finanziaria del gruppo peggiorò rapidamente, nel 1931 l'Italgas fu costretta a cederla alla Montecatini e alla IG Farben. L'acronimo Acna rimase, ma di qui in avanti la denominazione sarà Azienda Coloranti Nazionali e Affini; con circa 700 dipendenti. Da vera fabbrica di veleni riprese anche la produzione di esplosivi e di gas tossici, necessari per la guerra in Abissinia. Tali gas vennero usati in Eritrea.
Data la persistenza sistematica dei disastri ambientali che procurava, finalmente nel 1938, un anno prima che una tremenda esplosione causasse la morte di cinque operai, 600 contadini citarono l'azienda per danni causati dall'inquinamento. Una causa che durò ben 24 anni senza ottenere giustizia, anzi. Nel 1962 la sentenza diede loro torto condannandoli al pagamento delle spese processuali. Lo stato e un sistema industriale completamente imposto avevano soggiogato la valle con grande prepotenza, umiliando sistematicamente ogni spinta di volontà popolare autonoma.

Sezzadio (AI) - La sala della conferenza
dei servizi viene occupata
Imporsi ad ogni costo

Nel frattempo era iniziata la protesta di massa. Esasperati dalle continue sopraffazioni venefiche che il potere centrale esercitava da decenni sul proprio territorio, finalmente nel maggio del 1956 si svolse una grande manifestazione di tutti i valligiani, che risalirono l'intera valle per protestare contro l'inquinamento sistematico. Dimostrando la propria caparbietà di volersi imporre ad ogni costo, lo stato reagì da par suo reprimendo con forza arrestando 54 valligiani, mentre criminalmente nel 1960 il Ministero dell'Agricoltura rinnovò all'Acna la concessione a derivare le acque del Bormida per altri 70 anni.
Per decenni, fino alla sua chiusura forzata, l'Acna ha continuato imperterrita a produrre veleni e ad inquinare pesantemente il territorio della valle, ignorando, complice l'autorità centrale costituita, le proteste e la volontà dei valligiani. Sul finire degli anni '70 produce 30 mila tonnellate l'anno di veleni, sostanze chimiche destinate alle industrie di pigmenti e coloranti. Nel 1979 occupa 1621 dipendenti. Nel 1983 passa alla Montedison, nel '91 entra a far parte dell'Enichem e nel '99 lo stabilimento viene chiuso: 200 operai finiscono in cassa integrazione e viene dichiarato lo stato di emergenza socio-ambientale per i 300 mila metri cubi di veleni da smaltire. Una vera e propria colonizzazione economico/politica da parte dello stato centrale e dei grossi interessi di aziende di respiro nazionale e multinazionale che ne ricavavano profitti.
Con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 18 marzo 1999 fu istituito un “Commissario Delegato” per lo stato di emergenza nel territorio di Cengio, in ordine alla situazione di crisi socio-ambientale con bonifica del sito, il cui completamento era previsto per il 2013/14. In realtà la bonifica propriamente detta non è mai stata completata. Anzi, è rimasta alle fasi preliminari. Esiste ufficialmente un sistema di “messa in sicurezza” specifico, che in verità presenta molte carenze, in particolare per quanto riguarda il percolato, che in minima parte continua a defluire nel fiume. Ma, essendo “decolorato”, nessuno si allarma perché non è appariscente, mentre ce ne si accorge quando c'è bisogno di visite oncologiche. Inoltre nel 2000 un'inchiesta della commissione parlamento d'inchiesta sui rifiuti mise in luce che probabilmente dei fanghi dell'Acna di Cengio sono stati smaltiti nella discarica di Pianura, a Napoli, per un ammontare di almeno ottocentomila tonnellate.
I comitati di base a difesa della valle, tuttora vigili, in proposito sono molto chiari e denunciano la situazione disastrosa. “L'Acna resta un pericolo. È una bomba ecologica priva di una vera messa in sicurezza. Il sito è inquinato da oltre un milione di metri cubi di rifiuti tossico-nocivi, è impermeabilizzato solo su tre lati e viene emunto percolato per 160 metri cubi all'ora. L'acqua viene poi decolorata e finisce nel fiume. Si parla anche di fratture nella roccia di marna sottostante l'area, solo in teoria impermeabile”. (La Stampa, sabato 14 settembre 2013 – “Torna l'allarme Acna in Val Bormida”)
Riportiamo le parole di Urbano che con grande efficacia di sintesi chiarifica bene la situazione al momento: “La bonifica dell'Acna di Cengio si è basata su una “messa in sicurezza permanente” costruendo una discarica che contiene oltre 3 milioni di metri cubi di rifiuti pericolosi. A questa si affianca l'azione di bonifica (asportazione del terreno contaminato e depurazione del percolato). L'impresa ENI-Syndial, proprietaria del sito e responsabile della bonifica, ha intenzione di vendere il sito, passando all'acquirente i 40 milioni di euro rimanenti per completare la bonifica. Non è però chiaro chi garantisca il mantenimento del controllo ambientale necessario per alcuni decenni su un sistema così pericoloso”. (”L'Ancora”, 30 giugno 2013)
Tutto ciò per chiarire come l'intervento statale e istituzionale prima ha imposto una determinata politica industriale altamente inquinante e velenosa, poi, una volta smascherato, di fatto ha continuato a permettere di deturpare il territorio fingendo di volerlo sanare. È per questo che con ostinata convinzione sosteniamo che se i vari processi fossero stati gestiti direttamente dalle popolazioni, le quali hanno sempre tentato di opporsi a questa politica devastatrice, tutto ciò non sarebbe successo.

Un'industrializzazione devastatrice

In questa situazione, in cui fin dai primi insediamenti ottocenteschi un potere centrale corrotto e ottuso senza ritegno aveva cocciutamente deciso di sacrificare la Val Bormida sull'altare di una industrializzazione devastatrice, senza tenere minimamente conto, com'è tipico della prepotenza del potere, della volontà della valle stessa, s'inserisce la lotta per impedire l'insediamento di discariche che senz'altro un'altra volta non farebbero bene alla valle. In fondo, proprio guardando come si era sviluppata storicamente, ci si rende conto come l'industrializzazione forzata alla fin fine non solo non era riuscita a trionfare, dal momento che ogni insediamento imposto era stato costretto a chiudere, ma che la valle stessa l'ha sempre vissuto come corpo estraneo che ogni volta ne intaccava progressivamente l'ormai perduta integrità originaria. Una considerazione che affiora con forza ancora una volta anche nella riflessione che Pier Paolo Poggio fa col suo ottimo studio-ricerca “Il peso della storia in Valle Bormida”.
Secondo le testimonianze dei suoi protagonisti si può dire che questa ultima vicenda di conflitto col potere ebbe origine quasi per caso. Attento da sempre ai movimenti socio-antropici, il su nominato giornalista Massimo Prosperi del settimanale locale “L'Ancora”, a metà del 2011 aveva captato casualmente la notizia che si voleva aprire una discarica a Sezzadio.
Qualche parola va subito spesa per chiarire il ruolo del periodico “L'Ancora”, espressione delle diocesi. C'è una storia alle spalle che val la pena raccontare brevemente.
È importante sottolineare subito che “L'Ancora” è un giornale di origine parrocchiale da sempre schierato coi problemi concreti della popolazione, per questo molto seguito e autorevole in zona. Da decenni sostiene queste posizioni perché ha una storia specifica legata alle tematiche di difesa del territorio valligiano. Don Oberto Bernardini, combattivo parroco di San Pantaleo, dopo l'assoluzione dei responsabili nel 1962 dichiarava amareggiato: “Tumori, tumori, tumori. Facciamo tante sepolture. Oggi dobbiamo essere tutti uniti e pretendere prima la salute e poi il lavoro. Se il lavoro vuol dire pericolo, vuol dire inquinamento, vuol dire morte”. Il 2 dicembre precedente aveva inviato un telegramma a quaranta sacerdoti della Valle. “Carissimo confratello – c'era scritto – ti invitiamo caldamente a una riunione di tutti i parroci della Valle per studiare una comune linea di comportamento nella complessa questione dell'inquinamento del fiume Bormida.” “I preti in prima fila”, dunque. Si capisce leggendo la prima pagina del settimanale diocesano “L'Ancora” di Acqui Terme: “Siamo terzi in Italia in fatto di inquinamento”, strillava con enfasi il titolo di apertura, dando spazio a chi attaccava i poteri responsabili del disastro e le forze politiche complici. Contro gli ingordi amministratori pronti ad allungare le mani sul finanziamento pubblico promesso dal ministro Ruffolo, i famosi 150 miliardi destinati alla bonifica del fiume e dell'intera valle. Ma anche contro il Partito comunista che continuava a collezionare brutte figure e a cucinare aria fritta al Festival dell'Unità: aveva organizzato la raccolta di firme per richiedere la dichiarazione di zona ad alto rischio ambientale per la Val Bormida quando il Consiglio regionale ligure e piemontese l'avevano già richiesta all'unanimità.
Massimo Prosperi, che conosce bene Urbano per averlo seguito da giornalista nelle sue battaglie precedenti, lo avvisò dell'informazione ricevuta. Urbano è un anarchico molto conosciuto e stimato nella valle, come pure lo è il Comitato Lavoratori Cileni Esiliati di cui lui stesso è stato promotore protagonista. Sia l'uno che l'altro, per la coerenza e la persistenza sempre dimostrate, hanno conquistato negli anni di godere di grande autorevolezza presso gli abitanti del territorio valligiano. Ormai sull'avviso, Massimo e Urbano, coadiuvati da Pier Paolo Pracca, insieme cominciarono così a ragionare e informarsi sulla probabile entità della cosa. In breve presero consapevolezza dell'entità della faccenda e si accorsero che non si poteva lasciare sotto silenzio qualcosa che, se fosse passata in sordina come stava avvenendo, una volta insediata avrebbe cambiato la qualità della vita nella Val Bormida.
Il problema può essere riassunto così. La Riccoboni spa, multinazionale impegnata nello smaltimento dei rifiuti, attraverso l'ente giuridico provinciale richiede di realizzare una discarica di rifiuti “non pericolosi” nell'area di Cascina Borio, in località Sezzadio, utilizzando uno spazio “già pronto” all'interno di una cava dismessa per l'estrazione di ghiaia, dove per molti anni aveva lavorato la ditta Allara. Richiesta di per sé non scandalosa. Come spesso succede in questioni ambientali per fare affari, dietro l'apparente facciata si cela l'inganno, finalizzato a favorire gli interessi degli speculatori di turno.
Prima questione, non secondaria, l'impossibilità di fidarsi della ditta richiedente. La Riccoboni di Parma si presenta con l'apparente faccia pulita di una ditta impegnata sul fronte ecologico. Per usare una sua pubblicità: “Riccoboni Holding è una realtà dinamica, composta da tre aziende che operano in sinergia tra loro nel business ambientale, offrendo servizi specifici per ogni esigenza di bonifiche, trattamento, smaltimento e trasporto di rifiuti industriali”. Una presentazione che contrabbanda garanzie di pulizia, competenza e affidabilità. In realtà l'azienda parmigiana attiva nel settore ambientale è, per esempio, coinvolta in un'indagine della Procura ligure per turbativa d'asta nell'ambito della bonifica di un sito industriale, la dismessa fabbrica Stoppani a Cogoleto, ed è pure implicata in una brutta faccenda di traffico di smaltimenti illegali di rifiuti tossici abusivi da Genova all'Andalusia, dove risulta uno scambio ambiguo di disponibilità tra l'area dismessa Stoppani e la discarica di Nerva in Spagna.

Una discarica sulla falda naturale

La questione principale però riguarda ovviamente il sito richiesto. Si chiede di approntare a Cascina Borio, in località Sezzadio, una discarica da 1,7 milioni di metri cubi di rifiuti, definiti non pericolosi, su un'area sotto la quale si trova la falda che alimenta gli acquedotti dei paesi di Acqui Terme. Scosse di terremoto o di assestamento del terreno potrebbero benissimo produrre falle nel sistema protettivo lasciando libero scorrimento al percolato e allora addio falda naturale. Attualmente sono circa 50.000 i valligiani che beneficiano dell'acqua di questa falda, ma la sua potenzialità di usufrutto è stata stimata attorno ai 200.000 abitanti, praticamente l'intera valle. Si comprende quindi come sia delicata la faccenda e come non si possano prendere decisioni alla leggera, dal momento che a ragion veduta non si può rischiare in alcun modo d'inquinare una falda che è fondamentale per la sussistenza e la sopravvivenza di un'intera popolazione residente.
La testimonianza battagliera di Urbano all'inizio della lotta chiarifica molto bene come si andava prospettando il quadro d'azione. “Le risposte della Riccoboni su come intende gestire la discarica in Cascina Borio non sono per niente rassicuranti. Sotto la Cascina Borio ci sono riserve d'acqua per consumo umano in grado di risolvere i problemi di erogazione per centinaia di migliaia di persone in caso di siccità. In questo territorio molti Comuni si servono dell'acqua di quella falda che è inoltre tutelata nel PTA (piano di tutela delle acque), che costituisce atto di indirizzo pianificatorio cui attenersi per la valutazione degli impatti che possono gravare sulla risorsa idrica. La stessa Regione ha inviato il suo parere alla provincia di Alessandria [...] in cui fra l'altro sostiene che il sito prescelto non risulta idoneo, per ubicazione e caratteristiche, ad ospitare un impianto di discarica, dal momento che l'intervento interessa un territorio che sovrasta un sistema idrico sotterraneo vulnerabile e vulnerato. Io penso che la Commissione di Impatto Ambientale non possa e non debba rilasciare nessun permesso di discarica di rifiuti nella Cascina Borio, perché si assumerebbe una grossa responsabilità politica e morale”. (”L'Ancora”, 9 dicembre 2012)
Ma il problema non si limita a questo. Anche la ditta Bioinerti srl, che a sua volta per l'occasione aveva ceduto i diritti alla ditta Allara spa che precedentemente aveva sfruttato il sito come cava, aveva chiesto l'usufrutto di una discarica. Bioinerti/Allara, per conto del Cociv, chiedevano di usare la cava di Cascina Borio per portare seicentosessantaseimila metri cubi di smarino provenienti dalla lavorazione del Terzo Valico. Lo smarino è l'insieme dei detriti (sia terre sciolte sia frammenti rocciosi) provenienti dai lavori di scavo di gallerie, cave e miniere. Evidentemente, essendo in questo caso considerato rifiuto e come tale sottoposto alle disposizioni della normativa in materia, esce inquinato dal tipo di scavo del Terzo Valico.
Il “Terzo valico” è un progetto per la costruzione di una linea ferroviaria ad Alta Velocità ed Alta Capacità in progettazione dal 1991 che unirà la città di Genova a quelle di Milano e Torino, ovvero la tratta italiana del Corridoio Europeo Reno-Alpi, i cui lavori sono iniziati nell'autunno 2013. Il soggetto che realizza gli investimenti infrastrutturali ferroviari necessari è composto sia dal Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane, che opera attraverso la Rete Ferroviaria Italiana (RFI) e che è il proponente dell'opera, e la società di ingegneria Italferr cui spetta l'alta sorveglianza sulla realizzazione del progetto. Il General Contractor incaricato della progettazione e costruzione del Terzo Valico è il Consorzio Cociv che risulta composto dalle seguenti primarie società di costruzioni italiane: Salini-Impregilo (64%), Società Italiana Condotte d'Acqua (31%), CIV (5%).
Di fronte a queste richieste di usufruire di due discariche, i cui siti sono ubicati su una falda naturale che già fornisce acqua a 50.000 persone della valle, ma che è anche prevista come riserva in caso di bisogno per circa 200.000 persone, è fondamentale capire bene cosa succederebbe se venissero autorizzate e attuate. I comitati hanno fin da subito denunciato con forza che sicuramente la falda sarebbe gravemente messa in pericolo sia dal progetto Terzo Valico, che intende usare le cave per portare smarino contenente amianto, sia da quello della Riccoboni, che a sua volta intende portare rifiuti contenenti metalli pesanti e rifiuti di siti di bonifica di altre aree già inquinate. Di fatto è ufficiale che le rocce dell'area interessate dallo scavo sono prevalentemente serpentini, pertanto vi è un elevato rischio che il materiale depositato contenga quantità rilevanti di amianto, nonché di composti tossici di nichelio, cobalto e cromo.
Ma il problema si amplia ulteriormente. Il quotidiano “La Stampa” del 17 novembre 2013 riporta a chiare lettere che “La Riccoboni è solo la punta dell'iceberg. La Grassano di Predosa intende ampliare la sua attività di lavorazione degli olii in un'area che è ancora più vicina alla falda della discarica di Cascina Borio”. Mentre sempre per bocca di Urbano, portavoce dei comitati: “Come tutti sanno il Cociv sul nostro territorio voleva anche la cava di Noviglia, per 350.000 metri cubi, finita nel nulla a seguito di accordi fra la ditta scavatrice e il Comune di Castelnuovo. Oggi ospita una distesa di pannelli solari e una parte sarà usata per attività sportive. Altra cava che era stato chiesto di utilizzare era quella di Badia-2 di 25.000 metri cubi. [...] mentre sul piano preventivo alla ditta Allara è stata anche negata l'autorizzazione per aprire una cava da 19 ettari sull'area di Prato Regio. [...] Purtroppo, com'è noto è ancora sul tappeto un permesso, concesso in maniera molto discutibile il 21 aprile, alla vigilia delle elezioni, alla ditta Grassano per un impianto di soil-washing1 destinato ad accogliere rifiuti sia pericolosi sia non pericolosi, ancora proprio sulla falda acquifera” (”L'Ancora”, 9 novembre 2014).
Come si può notare è un territorio letteralmente martoriato da richieste di cave prima e discariche una volta che le cave esauriscono le loro estrazioni. Dopo che attraverso l'Acna si era ridotta la Val Bormida ad essere la più inquinata d'Europa, si è continuato imperterriti a depredare e massacrare il territorio, impedendo lo sviluppo della sua tendenza naturale che sarebbe di organizzare aree coltivate e agricole di qualità. Fortunatamente con le ultime lotte, esercitate da una popolazione tenace e dignitosamente decisa, questo scempio sistematico ha avuto una battuta d'arresto, gettando, speriamo, le basi per l'avvio di una vera e propria inversione di orientamento.

Lo sviluppo della lotta

Nel momento in cui ci si cominciò a rendere conto dell'entità, della qualità negativa e della pericolosità, non dichiarate né esplicitate in alcun modo, insite nelle richieste delle discariche, quasi spontaneamente è cominciata una mobilitazione che ha avuto una sua progressione d'intensità e di compattezza divenute in breve inattaccabili e irresistibili. Ciò che veramente contava, se si voleva raggiungere un punto di forza difficilmente scalzabile, era la consapevolezza collettiva degli abitanti della valle che se si fossero mossi insieme con chiarezza di argomenti e d'intenti avrebbero potuto bloccare la realizzazione dello scempio che si stava per imporre loro.
Fu subito chiesto un parere tecnico al dott. Foglino, un geologo particolarmente competente perché anni prima aveva studiato accuratamente l'area in questione. Era stato fra gli artefici del progetto che aveva collegato il campo pozzi di Predosa ad Acqui Terme attraverso una condotta idrica lunga ben 40 km. Conosceva perciò benissimo la situazione geologica della zona e senza esitazione confermò che “non era ammissibile una discarica a Sezzadio, seppur garantita che viene fatta nel modo più protetto, perché è proprio sopra una falda acquifera che fornisce l'acqua a circa 50.000 abitanti della valle. Scosse di terremoto o di assestamento del terreno avrebbero potuto benissimo produrre falle nel sistema protettivo lasciando libero scorrimento al percolato e allora addio falda naturale”.
Nel corso della mobilitazione si sono poi aggiunte altre voci autorevoli, come quella considerata importantissima del geologo docente universitario in pensione professor Antonio della Giusta, che nell'assemblea dei comitati di base del 16 gennaio 2013 prese ufficialmente posizione contro la discarica, ponendo l'accento soprattutto sulle garanzie al cittadino legate ad una simile opera.
La prima cosa che fece Urbano fu quella di mobilitare il Comitato Cileni Esiliati, che dall'atto della sua fondazione negli anni novanta non si era mai limitato a svolgere mera azione di denuncia sulla condizione degli immigrati, mentre si era sempre mosso attivamente sulle situazioni di disagio sociale dei territori dove vivevano. Soprattutto in Val Bormida, dove sono attivi da decenni, sono conosciuti e stimati e, per la tenacia che hanno sempre dimostrato, si sono conquistati una certa notorietà e una solida autorevolezza, ampiamente riconosciute dalla popolazione valligiana.
Il Comitato Cileni Esiliati si mosse subito con forza, distribuendo materiale informativo, pubblicando articoli e facendo dichiarazioni alla stampa, se necessario organizzando presidi, cercando insomma in ogni maniera di estendere alla popolazione consapevolezza e conoscenza della posta in palio. Agiva su un terreno fertile e non tardò a dare risultati consistenti. Contribuì in modo rilevante alla formazione in diversi comuni di combattivi comitati di cittadini contrari all'insediamento delle discariche, i primi sorsero ad Acqui Terme e a Gavonata, che nel giro di qualche mese agivano compatti e in sintonia per la salvaguardia dell'ambiente. Il primo presidio organizzato dai comitati antidiscariche è del gennaio 2013, con una conferenza che li ufficializzava nella sala riunioni cittadina ad Acqui Terme. In contemporanea sorse anche un Comitato dei sindaci che si riconosceva nelle istanze di quelli popolari. Inizialmente erano19, mentre ad oggi sono 25 pronti ad intervenire se se ne ripresenta l'occasione.
Come esponente di punta e portavoce del Comitato Lavoratori Cileni Esiliati, durante una marcia popolare del 6 ottobre 2012 ad Arquata contro il Terzo Valico, Urbano dichiarò: “La situazione esistente è la base ideale per favorire lo svilupparsi di speculazioni in grado di arricchire pochi sulla pelle di molti, col rischio di inquinare zone ancora incontaminate e mettere a serio repentaglio la salute dei cittadini. Per quanto riguarda la discarica di Cascina Borio, abbiamo assistito alla mobilitazione dei sindaci della zona, ma solo se anche la popolazione sarà seriamente mobilitata a difesa dell'integrità del proprio territorio potremo avere dei risultati. Non bastano i sindaci per vincere le battaglie, occorre una sincera mobilitazione popolare” (”L'Ancora”, 14 ottobre 2012).
Come ho accennato all'inizio, l'apporto dei sindaci è stato qualcosa di veramente interessante nello sviluppo d'insieme di questa vicenda. Invece di porsi soprattutto come rappresentanti istituzionali, portando di conseguenza avanti gli interessi delle istituzioni di cui in fondo sono funzionari, molti di loro si sono apertamente schierati con le ragioni addotte dai comitati di lotta, diventandone al contempo elementi attivi, nei momenti cruciali portavoce di fatto. Alla fin fine è innegabile che il loro apporto, sia per l'afflato personale sia per la carica che rivestivano, sia stato determinante per i risultati di blocco della costruzione delle discariche, che a tutti gli effetti fin dall'inizio ha rappresentato il vero e autentico proposito dell'intera valle. Sindaci dunque, in questo caso, innegabile espressione della volontà popolare.
L'opera di propagazione delle informazioni, delle prese di posizione e di progettazione alternativa dal basso in breve divenne battente, trovando come valido portavoce il settimanale “L'Ancora”, come abbiamo visto ben conosciuto e seguito dai valligiani, che instancabilmente, attraverso l'attenta penna di Massimo Prosperi, settimana dopo settimana ha informato e aggiornato con rigore e sorprendente puntualità il progredire della vicenda. Una situazione montante che è riuscita a rendere di dominio pubblico ciò che i potenti di turno (economici e politici) volevano fare, avendo cercato di farlo inizialmente in sordina, in contrasto con ciò che invece chi abita il territorio temeva, voleva e documentava. Uno scontro politico e sociale in piena regola.
Dopo mesi di dibattiti, incontri pubblici, confronti di carte e documenti in ambiti istituzionali, le associazioni e i comitati chiamarono alla mobilitazione per un presidio da tenersi martedì 22 gennaio 2013 davanti agli uffici della Conferenza di Servizio, che avrebbe dovuto dare ufficialmente l'autorizzazione per l'uso della cava di Sezzadio alla Riccoboni e al Cociv per il Terzo Valico. C'erano già state opposizioni annunciate di sindaci che avevano rilanciato la protesta, anche con una lettera in cui erano poste dieci domande alla Giunta Provinciale, “con il preciso intento d'illuminare tante zone d'ombra”. I comitati sapevano che era un punto cruciale, perché quella Conferenza “non poteva e non doveva” dare nessuna autorizzazione per quello scempio. La responsabilità politica della Provincia sarebbe stata gravissima se avesse autorizzato nonostante sapesse perfettamente che tutta la cittadinanza di Acqui Terme e dei paesi limitrofi era contraria. Di fatto la Conferenza ed ogni decisione furono rinviate.
Circa due mesi dopo un altro momento cruciale segnò di fatto una prima vittoria per chi lottava contro le discariche. Il sindaco leghista Arnera del Comune di Sezzadio fu costretto a decadere e il Comune commissariato. Il giorno dopo la riunione del Consiglio comunale del 21 marzo otto consiglieri (4 di minoranza e 4 di maggioranza) avevano dato ''le dimissioni al fine di provocare lo scioglimento del Consiglio comunale e di conseguenza la decadenza del Sindaco e della Giunta [...] essendo in totale disaccordo con l'indirizzo amministrativo assunto dal Sindaco di Sezzadio in merito ai progetti, presentati da Riccoboni spa e Bioinerti srl, per la realizzazione di due discariche di rifiuti in località Borio”, come da loro stessi dichiarato nella lettera di dimissioni. Arnera si era dimostrato estremamente ambiguo sulla problematica relativa alla discarica. L'aveva formalmente avversata come capo del Comune, ma apertamente sostenuta, anche nel corso di interviste, da un punto di vista strettamente personale. All'atto pratico, proprio nel consiglio comunale del 21 marzo, era stato l'unico a esprimersi con voto contrario rispetto alle due mozioni di minoranza che chiedevano il rifiuto di sostenere la discarica, appoggiando invece le richieste della Riccoboni sul cambio di destinazione d'uso. Il suo comportamento, biecamente opportunista, l'aveva smascherato portandolo a perdere la carica oltre la faccia.
Lo stesso Urbano dichiarerà a “L'Ancora” del 31 marzo “Crediamo che con la caduta del sindaco Arnera la Riccoboni abbia perso un importante alleato sul territorio: il nostro impegno per dire no alla discarica comunque non si fermerà qui e speriamo che ora in Provincia il presidente Filippi, che sappiamo in privato convinto assertore della discarica, faccia tesoro di quanto accaduto cogliendolo come un importante segnale”. Era chiaramente un avviso a tutti i coinvolti che la lotta avrebbe continuato con maggior forza e determinazione fino a raggiungere pienamente l'obiettivo prefissato.
Effettivamente gli incontri pubblici, le dichiarazioni alla stampa e i presidi si moltiplicarono e la presenza dei comitati lungo tutto il territorio coinvolto della valle divenne assidua. Grazie ai comitati di base la questione della discarica di Sezzadio divenne una presenza costante, che inchiodava alle loro responsabilità le ditte richiedenti e chi, apertamente o sottobanco, le sosteneva. Per citarne solo alcuni particolarmente significativi, con striscioni a convegni ad Acqui Terme, Alessandria, Novi Ligure, al presidio di Piazzetta della Lega, al Foral di Novi Ligure del 6 aprile all'attenzione di un uditorio di circa 500 persone, a una marcia contro le discariche e l'uso delle cave in provincia di Alessandria il 20 aprile da Novi Ligure a Pozzolo Formigaro, durante la manifestazione del 1 maggio a Torino. Sempre “L'Ancora” il 14 aprile riporta: “[...] il popolare “Urbano” ha incontrato anche una delegazione NoTav proveniente dalla Val di Susa, che, un po' a sorpresa, ha manifestato la propria soddisfazione per i risultati raggiunti dal movimento contro la discarica nelle ultime settimane, dimostrando come la problematica di Sezzadio abbia ormai ampiamente varcato i confini della provincia”. I consensi ricevuti dai comitati in ogni consesso dove hanno manifestato sono sempre stati ampi e numerosi.
Nel frattempo le ditte non erano state con le mani in mano e avevano fatto ricorso contro le due delibere del Comune di Sezzadio, con la pretesa di riappropriarsi del territorio che stava sfuggendo loro di mano e minacciando di pretendere un rimborso nel caso non fosse stato accordato il permesso. Di fronte a una tale protervia padronale la risposta di tutti, comitati cittadinanza e sindaci, fu compatta. Una serie di assemblee partecipatissime nei vari paesi mostrò praticamente un fronte unito e determinato che fece montare la cosa fino a che la popolazione nella quasi totalità comprese che le discariche non si dovevano fare per il bene e la salute della valle.
Il 25 novembre 2013 trenta sindaci della Val Bormida (ben 6 in più di quanti avevano aderito in origine al patto per la difesa ambientale) interruppero la seduta del Consiglio Provinciale e lessero un documento unitario contro le discariche. Il giorno dopo circa 200 persone dei comitati occuparono la Conferenza di Servizio, che già per cinque volte aveva rimandato la decisione, richiesta dal protocollo, di approvare o impedire i lavori. “Politicamente, la nostra vittoria è chiara - spiega Urbano - abbiamo dimostrato che la Valle Bormida non è disposta ad accettare compromessi, e che le istituzioni devono prendere atto che questo progetto non si deve fare”. Il sindaco di Acqui, Enrico Bertero, conferma il suo proverbiale ottimismo. ''Già il giorno precedente la Conferenza avevo pronosticato che le cose sarebbero andate bene per noi. Massima fiducia nell'operato dei Comitati, ma soprattutto credo che la presenza dei 30 Comuni al Consiglio provinciale abbia sortito un certo effetto” (”L'Ancora”, 1 dicembre 2013).
Di fronte a una tale determinazione popolare, tenendo anche conto del fatto che il tutto si stava svolgendo di fronte a un pubblico numeroso, al quinto incontro i tecnici cominciarono a cedere. Non potevano più sostenere l'insostenibile: che tutto era a norma e poteva svolgersi regolarmente senza pericoli d'inquinamento, come richiesto dalle ditte richiedenti. La Conferenza fornì una documentazione sfavorevole e dopo mesi la Provincia non poté che pronunciarsi contro la discarica. Non furono accordati i permessi e il sito conteso fu coperto, destinato ad altri usi. Per gli aspiranti inquinatori sembrava un vero e proprio colpo di grazia.

Val Bormida - Pesca sul fiume (ma i pesci
non si possono mangiare per l'inquinamento)
Testimonianze

Parlando con alcuni sindaci di questa loro esperienza, come il sindaco e il suo vice di Strevi, o quello di Cassine, o ancora con la sindachessa di Merana, ho raccolto brevi ma efficaci testimonianze di lotta e di vissuto che ne denotano un'acquisizione di consapevolezza oltremodo interessante perché va oltre il loro impegno istituzionale.
“All'inizio ci credevo poco. In passato c'erano state altre battaglie che non avevano portato a niente. Avevo poche speranze perché mi sembrava che i comuni coinvolti fossero pochi.
A un certo punto ci siamo tutti resi conto che ognuno doveva avere una consapevolezza maggiore per l'acqua, perché è fondamentale per la nostra vita.
Prima dell'uso della falda, qui eravamo tutti abituati con l'acqua delle autobotti, perché l'acqua era stata inquinata dall'Acna. Sapevamo bene l'importanza dell'acqua. Con le ultime elezioni c'è stato un cambio generazionale dei sindaci e c'è una maggiore consapevolezza dell'importanza dell'ambiente, che va salvaguardato. I sindaci fanno da collettori di una coscienza collettiva che aumenta. È un anno zero di una nuova era in cui la salvaguardia dell'ambiente è diventata prioritaria.
Prima la politica nazionale la faceva da padrona con gli interessi degli schieramenti. Ma questa esperienza ha messo in moto un cambio di rotta. Se vuoi vincere le elezioni devi promettere posti di lavoro e non occuparti troppo dei problemi ambientali. Nei piccoli comuni il rapporto è diretto. Da anni è uso e costume continuare a inquinare e dare importanza alla salute vuol dire perdere posti di lavoro. L'apparato statale dava solo vincoli. Raccogliere l'uva e mangiarla era proibito perché inquinata. A differenza del passato i sindaci hanno sostenuto i comitati e s'è creata una buona sinergia.
La Riccoboni è venuta in questa provincia perché c'erano un presidente, un sindaco e una commissione che per interesse le erano favorevoli. Il potere però non aveva previsto gli elementi che li avrebbero sconfitti: Urbano e la compattezza popolare.
C'era stato un problema alla fine degli anni novanta per una discarica. C'era stata una sollevazione ed era stata impedita. Oggi avvisati abbiamo aderito in 25 piccoli comuni attorno a Sezzadio, che fra l'altro è una zona vincolata dalla regione per la ricchezza delle sue acque. Ma c'è una dichiarazione di tutela senza indicazioni operative di come tutelarla, proprio in questa zona dove c'è Acqui che ha sempre avuto problemi idrici.
Il progetto della Riccoboni sembrava tecnicamente accettabile, ma era del tutto inopportuno come scelta del luogo perché non si può prevedere l'imprevedibile. Un sito senza pubblica utilità scelto perché c'era già una cava dismessa, comodo per la ditta perché quel buco era di una tale grandezza che sarebbe stato disponibile per servire tutto il nord come raccolta di rifiuti.
Già il Bormida è un fiume morto e non è possibile accettare una discarica per rifiuti inerti. Stiamo con l'anarchico Urbano perché ci propone battaglie giuste”.
Molto interessante anche la testimonianza di Marco Ribaldone, un coltivatore di Gavonata, sulla lotta contro una discarica fatta nella sua zona tra il 1995 e il 2001, che dimostra come il potere ha da sempre il vizio di occupare e imporsi al di là dei bisogni di chi vi abita. Si trattava di una discarica per i rifiuti urbani, un sito posto letteralmente in mezzo ai campi coltivati, col percolato che avrebbe irrimediabilmente messo in crisi le produzioni agricole. Il leitmotiv era sempre lo stesso: era una cava dismessa, quindi già improntata per essere adibita. Inoltre i camion avrebbero dovuto passare in mezzo ai campi attraverso una strada consorziale privata. Una situazione davvero insostenibile. Decisi avevano fatto i blocchi e non facevano passare i trattori, bloccando letteralmente la strada. L'area fu poi destinata a parco regionale.

L'orco ci prova a non demordere

L'11 gennaio 2015 “L'Ancora” riporta una lettera del comune di Predosa relativa agli articoli apparsi sul numero 48 dello stesso settimanale, nella quale contesta la posizione del “Comitato dei Sindaci per l'ambiente”, che in una riunione del 12 gennaio chiariva come vuole agire rispetto alla “gestione associata di funzioni relative alla tutela e alla salvaguardia delle risorse idriche”. L'amministrazione comunale di Predosa in questa lettera difende il suo “diritto di agire negli interessi dei cittadini di Predosa” annuncia che “si batterà con tutte le proprie forze per difendere ed agevolare i presenti e futuri insediamenti industriali, in piena trasparenza ed informazione”. Inoltre accusa il Comitato e Urbano, suo accreditato portavoce, ritenendo che “facendo un uso disinvolto del Fondamentalismo Ambientalista, il portavoce del Comitato di base, abbia l'obbiettivo di terrorizzare le aziende già presenti e di disincentivare eventuali investimenti produttivi futuri nel nostro Territorio”. Finisce ribadendo “che non ha intenzione alcuna di assoggettarsi ad interessi terzi a discapito dei legittimi interessi della comunità che rappresenta”.
Una chiara presa di distanza istituzionale da parte di un Comune che non ha nessuna intenzione di unirsi alla lotta per la salvaguardia dell'ambiente e rivendica il “diritto” di permettere di installare nella propria giurisdizione le industrie che ritiene opportune, ovviamente nel “pieno rispetto delle norme vigenti”, proponendo nei fatti di isolare il territorio comunale come se non facesse parte di un insieme idrogeografico, come se le sue scelte non avessero dirette conseguenze ambientali oltre i confini comunali, come se la falda acquifera in pericolo non riguardasse l'intera Valle Bormida.
La questione aveva preso avvio il 12 dicembre, quando a Predosa si era svolto un incontro fra l'Amministrazione Comunale e la ditta Grassano, per discutere su un nuovo CER (Catalogo Europeo dei Rifiuti) richiesto dalla ditta, riguardante circa 7 mila tonnellate di materiale all'anno, L'esigenza di richiedere un CER specifico nasce dall'acquisizione del contratto di appalto per il “Servizio di raccolta, trasporto e smaltimento rifiuti non pericolosi della Centrale Termoelettrica Federico II di Brindisi”, il cui committente è Enel Produzione Spa.
Dal momento che tutti gli smaltimenti di rifiuti portano consistenti circolazioni di denaro, il Comune di Predosa era rimasto allettato economicamente dalla proposta e si era convinto a tentare di farla propria, scontrandosi con la linea di lotta fino allora tenuta dalla popolazione dell'intera valle. Per questo si era scagliato contro comitati e sindaci, attaccando in particolare Urbano, con qualche ragione ritenuto una specie di punta di diamante della lotta, pedestremente definendolo un fanatico “fondamentalista” che non sente ragioni, nella convinzione e nella speranza di decapitare il fronte che, finché unito, le avrebbe impedito di portare avanti l'agognato lucroso contratto.
Di fronte a tale critica offensiva, così spudoratamente anticomitati, si è alzato spontaneo un coro unanime che ne ha condannato le posizioni e l'insita pericolosità. Sia il comitato dei sindaci che i comitati di lotta hanno subito risposto, sconfessando l'accusa di fondamentalismo, attaccando l'intenzione istituzionale di accettare le proposte della ditta Grassano e dichiarando con decisione che, come avevano fatto contro le richieste di discarica a Sezzadio, non sarebbero stati inermi in attesa. Lo spirito battagliero contro ogni tentativo d'inquinare la riserva idrica della valle non era affatto sopito e si sarebbe pienamente rinfocolato. L'Ancora del 25 gennaio 2015 riporta fra l'altro che il comitato “Vivere a Predosa” ha contrastato con decisione il sindaco, dicendo sostanzialmente che la sua posizione e le sue scelte non rappresentano i cittadini che lo hanno eletto.
Lo stesso Urbano, che era stato attaccato direttamente, rispondeva per le rime, da una parte respingendo con determinazione l'accusa infondata di fondamentalismo, dall'altra riproponendo il cosiddetto “piccolo piano-Marshall”, che come comitati avevano proposto dopo le terribili esondazioni dell'autunno scorso che avevano portato morte e distruzione in Provincia. Questo “piccolo piano-Marshall” consiste sostanzialmente nella proposta di dirottare i fondi stanziati per le grandi inutili opere, in particolare il Tav e il Terzo Valico. Invece di spenderli come previsto si chiede di usarli per la messa in sicurezza dei territori che da diversi anni dimostrano di esser sempre meno in grado di reggere l'impatto con le variazioni climatiche, trovandosi sistematicamente sottoposti a esondazioni, frane, bombe di fango e acqua, che ne disastrano ulteriormente il territorio, già di per sé dissestato, soprattutto per la costante mancanza di una manutenzione adeguata ed efficiente.
A metà febbraio si è materializzato il fatto che fa comprendere il perché di questa ripresa vigoria degli incrollabili “orchi”. Un'inaspettata sentenza del TAR, al quale la Riccoboni aveva fatto ricorso, ha annullato la decisione provinciale di negare l'autorizzazione, rinnovando perciò alla ditta la possibilità di attivare la discarica. Dopo la letterina di qualche settimana prima con cui il presidente della provincia e sindaco di Alessandria Rita Rossa aveva auspicato serenità di giudizio a proposito del ricorso al Tar, il 16 febbraio 2015 lo stesso Tar ha fatto sapere che la ditta ha ragione e che può fare la discarica a Sezzadio in località Cascina Borio, nonostante che ben 25 comuni del territorio siano fermamente decisi a non volerlo in quanto temono l'inquinamento della falda acquifera sottostante.
Naturalmente i comitati non l'hanno presa bene e si sono immediatamente mobilitati. Senza esitazione hanno deciso di riprendere la lotta con rinnovata energia ed hanno espresso le loro intenzioni in un comunicato: “È una sentenza che i Comitati di Base disconoscono e stigmatizzano nei tempi, nel metodo e nel merito, ritenendola inaccettabile anche e soprattutto perché assume connotati chiaramente politici. Non si era mai vista, in vicende giudiziarie di questo tenore, un'ingerenza così spudorata e palese da parte di una carica pubblica come il Presidente della Provincia. Quella stessa Provincia che, presente in aula per difendere il diniego che aveva espresso tramite la conferenza dei servizi, ha sconfessato la propria linea con una lettera scritta dal suo attuale Presidente, Rita Rossa. È evidente come siamo di fronte a un atto prettamente politico, di cui la Presidente Rossa è chiamata ora ad assumersi la piena responsabilità, e lo stesso vale per i ripetuti giudizi positivi espressi a sostegno dell'azienda ricorrente, una ditta privata, che con il suo progetto privato mette a rischio una risorsa pubblica di primaria importanza come è l'acqua. [...] La nostra lotta non si ferma. Diciamo ancora, con forza, NO alla discarica di Sezzadio”.

Brevissime riflessioni finali

Tutta questa vicenda è una testimonianza/dimostrazione di come il potere economico/politico occupa e colonizza i territori senza rispettare bisogni e volontà di chi vi abita e li sente propri, predisponendoli come conseguenza a sicuri incurabili degradi e perdita di valore. La tracotanza padronale e di dominio non demordono mai e continuano sistematicamente a tentare d'imporre la propria sfrontata sopraffazione. Fortunatamente non sempre ci riescono e qualche volta, come appunto nel caso della Val Bormida, sono costrette a desistere per la resistenza e la tenacia delle popolazioni che trovano forza, compattezza e motivazioni per opporsi e non subire. Purtroppo non è ancora finita. Come dimostra l'ultima sentenza del Tar il potere ha mille strumenti al suo servizio per continuare a imporsi al di là della volontà popolare.
Ma i comitati non demordono e rimangono vigili a proteggere la propria terra. Oltre a tentare con grande tenacia di battere un'altra volta la reiterata volontà d'ingerenza e di sopraffazione, premono affinché il Consiglio regionale definisca le tanto attese norme attuative del PTA (Piano territoriale delle Acque), già approvato dalla Regione Piemonte. Norme attesissime dagli abitanti della valle per dare finalmente una protezione adeguata e permanente alle sue preziosissime risorse idriche. È stato sancito in linea teorica che la zona è protetta, ma non è stato spiegato come. Di fatto non sono sanciti i criteri ufficiali per intervenire in modo adeguato ed efficiente al fine di una vera concreta protezione, per cui tutta la zona continua ad essere esposta a incursioni deturpatrici. Dato il precedente di lotta che si è determinato, ci dovrebbero ormai essere le credenziali e i presupposti per riuscire a completare l'opera intrapresa di vera salvaguardia dei beni naturali, che sono a disposizione di tutti (esseri umani e le altre specie animali e vegetali) e non devono appartenere a nessuno.

Al momento di andare in stampa, ci giunge la notizia di una prima vittoria: in via definitiva sono state approvate dalla regione importanti norme attuative del PTA (Piano di tutela delle acque).

Andrea Papi

  1. Il soil washing è una tecnica di bonifica del suolo contaminato che prevede il recupero della parte pregiata del mezzo attraverso un processo di separazione fisica dell'inquinante, un vero e proprio lavaggio (washing) con acqua, soluzioni acquose di tensioattivi, biosurfattanti, oppure con solventi organici.


A proposito di cave, discariche e utilizzo consapevole del territorio

Intervista di Alessandra Fava a Antonio Della Giusta

Come fa il cittadino ad avere garanzie su quanto viene conferito in una cava?
Questo è uno dei punti nodali: chi ci garantisce che in una discarica deputata a ricevere la terra del Terzo valico non finiscano altri rifiuti, magari tossici? Il privato fa i suoi interessi e allora chi mi garantisce che il tritume di roccia non sia mescolato ad altre cose? È impossibile controllare che cosa portano tutti i camion, specie se ne passano 30 o 40 al giorno. Ci vorrebbe un uomo fisso che controlli ma dalle esperienze che leggiamo nelle cronache giudiziarie questo non basta. Se ci sono rifiuti tossici sotto uno strato di terriccio come si fa? Tutto quello che abbiamo visto realizzarsi nel napoletano, non ce lo siamo mica inventati. Camion interi che sparivano sotto altra roba. Un controllo effettivo non ci sarà mai.
Le amministrazioni dovrebbero anche riflettere sull'uso del territorio nel futuro. Non guardare solo ai pochi anni di un ciclo amministrativo...
Se il Monferrato vuole attrarre gli inglesi e diventare il Chianti del nord, i politici devono anche chiedersi che cosa gli offriamo: vigneti frutteti e agricoltura di qualità o discariche? Bisogna pensare in prospettiva. Se oltre ai capannoni ci mettiamo anche le discariche, abbiamo venduto tutto.

I comitati No-tav e No-Terzo valico fanno anche presente che se si scava vengono fuori i filoni di amianto. Che tipo di complicanze porta e come andrebbe trattato?
Se si trattasse solo di roccia naturale con una piccola parte di amianto non ci sarebbero grossi problemi perché quello non produce neppure percolato. In pratica in cava l'amianto farebbe lo stesso effetto di quando è imballato nel terreno. Però se invece i terreni sono mescolati ad altri rifiuti, il mix può diventare molto pericoloso. Se là sotto si trovano dei filoni grossi di amianto puro allora va messo in sicurezza, non può essere conferito così. Insomma ci vuole un'analisi molto dettagliata per capire che tipo di amianto è e quanto sono grosse le fibre.

Per Sezzadio lei ha fatto presente che manca una modellazione di falda in 3D (la cosiddetta Modflow) per l'elaborazione delle fasce di rispetto con le portate attuali. Ci spiega meglio?
In sostanza quando la cava è limitrofa a una falda dovrebbero misurare la portata e i livelli della falda e studiarla nel periodo di magra e di piena. È uno studio che va fatto su un arco temporale almeno di un anno e mezzo tenendo presenti piogge e nevi per capire come variano i livelli nel tempo e capire anche come la falda si sposta a seconda del pompaggio dei pozzi. Insomma per valutare davvero le situazioni e quindi decidere se una cava o una discarica è idonea ci vogliono molti dati e una ricerca fatta seriamente, su tutta l'area e non su tempi brevi. Ad esempio per Sezzadio gli studi a mio avviso sono su un'area troppo ristretta.

Quando si può parlare di una cava sicura?
Vanno fatti degli studi sulla stratigrafia. Spesso si parla di impermeabilizzazione con teli speciali
tentando di sottacere che in 30 o 40 anni i percolati potrebbero intaccare i teli oppure si potrebbero formare delle fessure in seguito a piccoli eventi sismici. E poi c'è un criterio di prudenza contadina e torno a Sezzadio. Lì c'è una falda che dà acqua a 200 mila persone: un tempo letamaio e pozzo dell'acqua in campagna erano sempre distanti. Quindi dico, se le discariche vanno fatte per forza, almeno mettiamole dove non c'è acqua potabile.

Quel che stupisce un profano è che negli atti consegnati agli enti locali persino il dato scientifico diventa interpretabile. Ad esempio per Sezzadio, la Riccoboni parla di strati di argilla che potrebbero comunque limitare la discesa del percolato...
Da studioso dico che la continuità dei terreni argillosi non esiste. Ci sono strati e quindi i liquidi possono passare da uno strato all'altro e scendere. Quindi tornando all'argomento più generale servono campagne di studi reali e il concetto del buon contadino va tenuto presente.

Alessandra Fava

Intervista estratta dall'articolo Cava non cava e le terre del Terzo valico, di Alessandra Fava del 18 gennaio 2013, inviato a BlogAl il 23 gennaio 2013



Chi difende la salute non è un fondamentalista

di Pier Paolo Pracca

Scrivo dopo la lettura di un comunicato apparso su “L'Ancora” nel quale si accusavano i Comitati di Base di fondamentalismo ambientalista in relazione alla battaglia che, in questi ultimi due anni, hanno portata avanti insieme al popolo della Valle Bormida ed ai suoi sindaci in difesa della falda acquifera di Sezzadio-Predosa. Intervengo in questo dibattito in quanto da trent'anni mi occupo di ambiente e salute ritenendo questi beni prioritari e fondamentali e non per questo mi sento un fondamentalista (sarebbe interessante chiedere a questi signori cosa intendano davvero con questo termine). I comitati di base, i sindaci, gli uomini e le donne del territorio si sono battuti e si stanno battendo non in nome di un concetto astratto, di un'ideologia, ma in nome di un bene quotidiano di uso comune come l'acqua. Hanno fatto ciò, e continueranno a farlo, con caparbietà in qualità di cittadini che si assumono la responsabilità di confrontarsi e pronunciarsi apertamente su un tema non negoziabile come quello della salute. Se la vecchia convinzione della politica (“sono tutti uguali e noi non possiamo farci nulla”) declinava in una muta rassegnazione dopo questa esperienza di lotta crediamo sia giusto e possibile far rispettare i nostri diritti ribellandoci, se è il caso, a tutto ciò che troviamo ingiusto e pericoloso per le nostre vite e quelle dei nostri figli. Lo spirito civico che ha visto coagularsi intorno al 'No' alla Discarica di Cascina Borio con Comuni, enti e popolazioni uniti nello spirito della orizzontalità, spontaneità e molteplicità di un movimento che, in Valle Bormida, non si ricordava dai tempi dell'Acna di Gengio, non rinuncerà a contrapporsi ad altri tentativi nel caso noi non li ritenessimo potenzialmente lesivi per l'ambiente nel quale viviamo. Un'attenzione per la nostra salute e per quella delle generazioni a venire che al di là e al di fuori degli schieramenti politici ha unito e sta unendo le persone di una intera Valle e non sparute avanguardie di ecologisti radicali come sembrerebbe far credere l'articolo comparso sul vostro settimanale.
Di questo dovranno tenere conto coloro che vorranno proporre insediamenti industriali sul nostro territorio: c'è una nuova consapevolezza e volontà di partecipazione alle decisioni dal basso che, in modo democratico e non violento, è pronta a controllare e ad esprimersi su ogni decisione inerente il territorio. Continueremo su questa linea senza timori reverenziali forti di un'etica e di una fede nella bontà di una causa giusta come la difesa di una delle più importanti falde acquifere del Basso Piemonte. Siamo chiamati a suonare un nuovo spartito, che prevede la partecipazione alle scelte cruciali per la nostra vita e saremo sempre presenti proponendo la nostra visione in una articolazione dialettica sempre più democraticamente partecipata con le istituzioni e con i territori.

Pier Paolo Pracca

Originariamente apparso in “L'Ancora”, 25 gennaio 2015