rivista anarchica
anno 45 n. 398
maggio 2015




Il mondo che vorremmo

Ci piacerebbe vivere in un mondo di uguali. È la triste, noiosissima verità. Siamo monotoni, resistenti al cambiamento e spaventati. Invece, per parte mia, tendenzialmente mi vesto di spirito rivoltoso, adoro la festosa differenza di teste e di pensieri che respiro quando entro in un'aula piena di testoline differenti e a volte diversamente giovani: insomma, non voglio pensare che l'omologazione sia un dato reale...
Come dimostrano alcuni fatti recenti.
Due o tre settimane fa, a Milano – la città dell'Expo, del multiculturalismo, della globalizzazione e del liberalissimo governo di sinistra – una ragazzina iscritta a un istituto professionale turistico, di famiglia egiziana, ma nata in Italia – si preparava con grande cura al suo primo giorno di stage. Per una futura addetta ai servizi turistici come lei, lo stage, nella nostra bistrattata ma ancora pubblica istruzione statale, è previsto e obbligatorio, edificato su una convenzione firmata dalla scuola della ragazzina e controfirmata da una selezione di alberghi. Nel caso specifico, questi ultimi si erano a suo tempo dichiarati disposti ad accogliere gli studenti. Sulla base di un accordo, s'intende, che avrebbe reso la scuola garante del corretto comportamento, e del benessere complessivo dei ragazzi, e l'albergo responsabile di un breve percorso formativo.
Naturalmente il servizio fornito era ed è, come si conviene in queste convenzioni, gratuito. E naturalmente la scuola in questione ha studenti festosamente e copiosamente differenti, in termini di etnia, cultura, religione, appartenenza politica, preferenze sessuali, gusti alimentari e chi più ne ha più ne metta. Come spesso è. O come dovrebbe essere nel mondo reale.
Dunque, in questa scuola reale nel mondo reale, il dirigente scolastico manda una ragazzina egiziana in un hotel milanese, che possiamo immaginare gestito da prime, seconde, terze o quarte generazioni: italiani in technicolor, ma sempre italiani.
La ragazzina si prepara. Indossa il velo come una cattolica indosserebbe una croce: con consapevolezza ma senza troppa retorica, non per vezzo, ma per convinzione. Non è un burqa, non è un hijab, ma un velo che copre solo i capelli. La ragazzina finisce di truccarsi, si guarda allo specchio soddisfatta e serena, e va. Oggi è un giorno importante, e quella che si appresta a fare è una cosa da grande. È pronta, si è preparata seriamente, sa quello che la aspetta. O crede di saperlo.

Condizioni di indegnità

In metrò, ignora gli sguardi obliqui di chi vorrebbe commentare quel suo capo coperto, e tuttavia capisce anche che, a dispetto di tutto, anche la sua differenza sta diventando a Milano un dato consueto. E in ogni caso, lei è sicura di se stessa, non sta facendo male a nessuno, tiene il viso scoperto ed è riconoscibile, e dunque, che problema c'è? Da una sua compagna, italiana, sa che molti anni fa anche in questo paese, il paese in cui lei è nata e al quale appartiene, le donne serie giravano con la testa coperta, e dovevano anche guardare per terra e non rivolgere la parola agli uomini. Sorride, la ragazzina, mentre scende dal metrò e si avvia verso l'albergo. In fondo, lei è nata in questo paese. Ha una cultura diversa e una fede differente, ma non fa male a nessuno, e nessuno farà del male a lei.
Con questa certezza, la ragazzina entra nell'albergo pronta a cominciare il suo servizio. Ancora sorride quando le dicono che no, hanno cambiato idea, e che insomma se non vuole togliersi il velo, lì lo stage non lo può fare. Confusamente, risponde che non capisce e che è pronta a lavorare bene: questo è l'importante, no? Ma non c'è verso. La mandano via. Se non può togliersi il velo, niente. Così la ragazzina torna a scuola. E il dirigente scolastico le deve trovare un albergo diverso, e mandare una brava filippina a capo scoperto nell'albergo che non aveva voluto la piccola araba determinata, che in realtà araba di nascita non è. Ammesso che si possano oggi definire geograficamente le appartenenze.
Ora, in questa storia, che è vera a tutti gli effetti, ci sono stratificati significati diversi. Il primo è la banalissima mancata osservanza di un accordo: un datore di lavoro ospita personale gratuito sulla base di una convezione che ha firmato con un ente pubblico. L'ente pubblico deve garantire – e di fatto in questo caso lo fa – un trattamento equo, che non risenta di discriminazioni di etnia, genere e quant'altro. Dunque la convenzione è concepita in modo consequenziale, e non fa menzione della possibilità dell'albergatore di rifiutare uno stagista il cui aspetto, per ragioni etniche o religiose, non sia conforme alle sue aspettative. Se è vero che ognuno è libero di fare quel che vuole in casa sua, a mio parere un datore di lavoro può scegliere liberamente (e neanche tanto, secondo me) chi assumere se poi lo paga anche. Qui si tratta invece di un accordo che risulta in una suddivisione delle responsabilità per una prestazione di lavoro non retribuita e orientata all'acquisizione di esperienza professionale. In altri termini, un datore di lavoro prende con sé una persona teoricamente formata ma che manca di esperienza pratica. Perciò se ci si offre per ospitare uno stage, non è che si può anche scegliere di non accettare chi viene proposto, a meno che non si tratti di casi palesi di indegnità.
Il punto, in effetti è proprio questo: il velo definisce una condizione di indegnità? O si tratta appunto, soltanto, di una dichiarazione di fede, come lo è la croce per un cattolico? Cos'è che ci spaventa esattamente? La differenza? O la possibilità che il velo dimostri un'appartenenza deteriore? L'idea che il profilo dell'arabo sia uno solo e sempre quello del terrorista?
Forse sarebbe utile, certe volte, ricordarsi come venivano considerati i migranti italiani all'estero non troppi anni fa. O forse, per quel che mi riguarda, mi basta ricordare le piccole torture quotidiane inferte ai “terroni“ che abitavano le classi degli IPSIA dell'hinterland milanese nei miei primi anni di esperienza da insegnante.

I ragazzi stanno bene

Anche allora, tuttavia, sempre nella nostra bistrattata scuola pubblica, forme di esclusione così pesanti non ne ho mai conosciute. I ragazzi trovano sempre un modo di assestarsi. Perciò mi ricordo che forse più o meno trent'anni fa, nella classe di periti meccanici in cui avevo la prima ora di lezione 3 volte alla settimana, il calabrese che arrivava tutti i giorni in bicicletta da Bollate a Rho, con qualunque tempo, era preso in giro, sempre e irremissibilmente, ma con una forma di affettuoso cameratismo che mi ha sempre scaldato il cuore. E quando me lo portavano davanti alla cattedra semicongelato e me lo mostravano dicendo “Guardi prof: un terron glacé”, quel ragazzo mingherlino sorrideva, e nel giro di mezz'ora, quando si era sbrinato, era a far casino esattamente come gli altri e con gli altri. Certo, non so poi cosa ne è stato del terron glacé quando è uscito di lì per avviarsi al mirabolante mondo del lavoro. Ma finché è rimasto a scuola, anche e soprattutto in quella scuola disgraziata, abbiamo riso con lui. Tutti, me compresa. Allo stesso modo in cui i compagni di classe della ragazzina rifiutata dall'hotel hanno scritto tutti insieme una lettera di protesta al datore di lavoro un po' razzista: semplice, ma decisa, e molto consapevole.
Così penso questo: la scuola, quella pubblica, è un posto dove ancora restiamo umani.
Fuori, è una cosa diversa.

Nicoletta Vallorani