rivista anarchica
anno 45 n. 398
maggio 2015


persone
Non bambinologo né pedagogista

contributi di Giacomo Pontremoli, Celeste Grossi, Angelo Petrosino, Filippo Trasatti e due scritti di Giuseppe Pontremoli


Così si autodefiniva Giuseppe Pontremoli, al quale è stata dedicata recentemente una giornata di studi all'Università degli Studi di Milano - Bicocca. Pontremoli è stato una delle figure più interessanti e stimolanti del “mondo pedagogico” negli ultimi decenni. Di segno profondamente libertario. A lui abbiamo già dedicato un dossier su “A” 310 (estate 2005) dal titolo Dalla parte dei bambini (e della libertà).

Giuseppe Pontremoli (1955-2004)



A mio padre

di Giacomo Pontremoli

Essere “nonbambinologi; nonpedagogisti”.
Vedere i bambini nella loro realtà individuale. Questa una delle caratteristiche dell'approccio e della pratica educativa di Giuseppe Pontremoli, nel ricordo del figlio Giacomo.

Le persone non muoiono: restano incantate.
João Guimarães Rosa

Scrivere di mio padre è misurarsi con il grado di conoscibilità e di verità che le parole possono o non possono dare. Restituirlo senza mistificarlo, e senza eludere la mia realtà di figlio, e, infine, saperlo comunicare a chi legge senza perdere la realtà di lui, di me stesso e di chi legge. È stata questa la ragione della mia difficoltà di fronte alla proposta di introdurre il suo ricordo su queste pagine. E la ragione per cui non parlerò qui di lui direttamente; di quello che ha significato per me la sua morte, la ricchezza della sua presenza nella mia infanzia, la centralità della sua memoria, la mia ricerca della sua vita e della sua storia dopo averlo perduto, dieci anni fa, nell'aprile del 2004, otto mesi prima che compisse cinquantanove anni, sei prima che io ne compissi undici.
La paura di dire qualcosa che possa impoverirne la verità riguarda anche il suo lavoro e i suoi scritti. L'agiografia persuade o respinge? L'analisi capillare illumina o annebbia? I riassunti dànno nell'essenziale o riducono? Come è stato ricordato in una recente, generosa giornata autunnale all'università Milano-Bicocca (di cui riferisce qui Celeste Grossi della rivista école), ma anche nel bellissimo ricordo di Alfonso Berardinelli, e di Cesare Pianciola sul n. 25 della rivista “Gli asini” (che pubblica un suo scritto del 1992), mio padre è stato maestro di scuola per scelta. Scelta priva di falsa coscienza e di feticci, quotidianamente interrogata e animata dal problema inquietante dei fini e dei mezzi e della quota di mistificazione attuata dalla “Principessa Pedagogia” a danno della variegatissima e irripetibile realtà dei bambini: “Avendo a che fare ogni giorno con loro se ne vedono tanti, ma mai un Bambino, e si scoprono in loro mille bisogni, e poi desideri, folate impetuose di voglie. E avere a che fare ogni giorno con loro non è senza eco, e insegna qualcosa. Ad esempio, che forse i nemici più grandi sono il Mito e la Mistica, quando invece sarebbe sufficiente guardarli, i bambini. E infatti le cose più chiare su loro le han viste e le han dette coloro che hanno guardato i bambini e le cose d'intorno. Il più delle volte fuori dei luoghi deputati; o anche dentro, ma lavorando fitto per intrecciarlo al fuori, questo dentro.” (Bambini e bambinologi. La triste spocchia della Principessa Pedagogia e la necessità di ridiscutere le immagini generiche e di comodo dell'infanzia, “Linea d'ombra n. 33, dicembre 1988).
Essere dunque “nonbambinologi; nonpedagogisti”. Vedere i bambini nella loro realtà individuale. Rispondere vivamente, in prima persona, alla loro esistenza, in un duplice atto di coraggio: la costruzione di un argine all'indifferenza, l'ignavia, l'accettazione, l'umiliazione, l'abbrutimento; il rifiuto del compiacimento oracolare per un ruolo di potere assunto secondo una missionaria vocazione manipolativa e correttiva (rifiuto lucido, responsabile, attento). Sapere che i bambini non sono “piccoli adulti”, esseri umani a metà da completare, percorritori di uno stadio transitorio e inferiore della vita umana; che sono già persone intere. Evidentemente il contesto è tale da costringere a pronunciare delle costernanti ovvietà. Anche perché “ancora una volta, oggi più che mai, i bambini sono soli. Eppure si potrebbe forse proprio imparare da loro”.

Il tempo (per leggere) rosicchiato qua e là

La letteratura, la lettura, aveva senso nel suo lavoro di insegnante perché l'aveva nella sua vita. Era un “fatto personale”. Non ero un suo alunno, non conosco la sua quotidianità scolastica, in cui leggeva ad alta voce in classe; ma so perfettamente cos'è stato per me sentire, vedere, nella sua voce, Long John Silver e Jim Hawkins, Tom Sawyer e Mowgli, Bilbo Baggins e Pinocchio, Atreyu e il GGG, Medardo di Terralba e Amnon Feierberg. Imporre la letteratura ai bambini senza amarla, per principio o per dovere scolastico, nel migliore dei casi è solo il triste segnale di una rimozione del lettore libero e autonomo che si è pure stati prima di preferirvi le intimidazioni dei “logotecnocrati”... Viceversa far partecipare i bambini ad essa come al proprio amore, come qualcosa che riguarda la nostra vita e la loro, che può fargliela e farcela comprendere e aprire, è l'unica cosa che la vivifica e rispetta. Se non si ama la letteratura personalmente, è allora utile chiedersi non solo come insegnarla, ma perché; perché mai.
Se “la lettura è un atto anarchico” (Hans-Magnus Enzesberger), se “fa pensare, può farti libero e ribelle” (Heinrich Böll), leggere a scuola, leggere ai bambini, era una “azione spregevole”, una deviazione dal programma e dai doveri scolastici: per leggere una storia – non una storia a caso, s'intende; non qualsiasi libro – era necessario “rosicchiare il tempo qui e là”. Farlo con i bambini, prima ancora che per loro.
Questo può essere detto: non trovo differenze tra quel che ha scritto e lui stesso. Il rapporto fra le parole dei suoi libri, e ciò che è stata la mia infanzia, è radicale. Penso a quanto ancora oggi conservano i suoi ex alunni. Sono i miei coetanei. All'universitario ricordo pubblico d'autunno la loro presenza e la loro testimonianza è stata un regalo straordinario. Siamo tutti stati, diversamente, bambini presso di lui; ora siamo cresciuti. Se aveva ragione Alioscia Karamazov, se per salvarsi è necessario avere dalla propria infanzia “buoni e santi ricordi”, questo ha lasciato mio padre sul mio e sul nostro futuro. Non tutto è perduto, anche se molto è perduto.

Giacomo Pontremoli




Il maestro che suonava i libri

di Celeste Grossi

Nella sua rubrica sulla rivista école, Giuseppe Pontremoli sottolineava l'importanza della lettura per lo sviluppo dei bambini. Perché crescessero liberi e ribelli.

Con la sua rubrica “Leggere negli anni verdi” su école, Giuseppe Pontremoli ha guidato maestri e maestre dentro un bosco di storie e ha creato percorsi di lettura con i quali accompagnare le bambine e i bambini nel crescere, accompagnarli a diventare delle donne e degli uomini liberi, delle donne e degli uomini di pace.
Giuseppe Pontremoli era venuto a sapere da Heinrich Böll che «leggere fa pensare, può farti libero e ribelle» e questo per Giuseppe era assolutamente essenziale. Giuseppe diceva (cito da Elogio delle azioni spregevoli): «[...] raccontare storie ai bambini, aiutarli a crescere, aiutarli a imparare a vivere. Vivere. Crescere. Non: sopravvivere; non: trascinarsi; non: adeguarsi all'esserci consentendo comunque».
Per Giuseppe le bambine e i bambini sono dotati di qualità diverse, speciali, sono esseri umani interi; l'infanzia non è un transito verso il futuro, uno stadio inferiore dell'essere umano. La passione per la letteratura e per l'insegnamento che si trova in tutto ciò che Giuseppe ha scritto, è una passione travolgente e contagiosa.
Giuseppe è stato un maestro elementare da quando aveva vent'anni, è stato maestro per passione, non per ripiego, e come scelta di impegno civile, come scelta di impegno esistenziale, è stato un maestro di libertà e di pace. Giuseppe pensava, e lo scriveva, che fare scuola è un compito globale. Aveva una convinzione assolutamente ferma, fermissima: «per le bambine e i bambini l'essenziale è che possano vedere qualcuno che ascolta, parla, legge, scrive, dubita, riflette, si emoziona, scava e non si accontenta e non si basta e scruta e scruta e racconta e racconta e cammina cammina; e tutto dentro la situazione, quella lì, con tenerezza e furia, con passione».
Giuseppe in école non è stato solo il rubrichista di “Leggere negli anni verdi”. È insieme a Giuseppe che abbiamo scelto che la nostra rivista avrebbe avuto uno stile narrativo che privilegiasse il racconto di chi la scuola la abita, delle relazioni tra le persone che nella scuola si intrecciano.
Giuseppe, anche quando in redazione parlava di una circolare ministeriale, raccontava una storia. Giuseppe ci manca molto, fortunatamente ha scritto tanto e possiamo ancora averlo con noi.
Nel decennale della scomparsa di Giuseppe noi di école abbiamo voluto ricordarlo con la pubblicazione di Giuseppe Pontremoli, maestro1. L'e-book (a cura di Celeste Grossi, Cesare Pianciola, Giacomo Pontremoli, Andrea Rosso, Gianpaolo Rosso, Stefano Vitale, Idee per l'educazione/école, novembre 2014) è stato presentato a Milano il 24 novembre 2014, nel giorno in cui Giuseppe avrebbe compiuto 59 anni, nel corso dell'incontro La nonpedagogia di Giuseppe Pontremoli. Bambini e bambinologi, promosso da Ivano Gamelli all'Università Bicocca2.

Celeste Grossi
direttrice di école
www.ecolenet.it

Note

  1. All'indirizzo https://ecoleedit.wordpress.com/2014/11/24/giuseppe-pontremoli-maestro/ l'e-book si può scaricare o leggere on line.
  2. All'indirizzo https://ecoleedit.wordpress.com/2014/11/27/giuseppe-pontremoli-alla-bicocca/ si possono trovare i video di alcuni interventi svolti nell'incontro del 24 novembre 2014.




Uno che sapeva schierarsi

di Angelo Petrosino

L'insegnante, l'uomo, il poeta e tante altre cose nel ricordo di un collega.

Negli anni Novanta del secolo scorso, oltre a scrivere libri per bambini, scrivevo saggi, articoli, storie in cui parlavo di infanzie difficili. Un giorno mandai una di queste storie alla rivista Linea d'Ombra, della quale Giuseppe era uno dei principali redattori. Credevo che fosse una rivista inaccessibile per me. Invece quasi subito dopo l'invio del mio testo, mi arrivò una telefonata di Giuseppe. Mi disse che la storia era piaciuta, che volevano pubblicarla e mi invitò ad andare a trovarlo nella redazione della rivista a Milano.
Fu l'inizio di una bella e lunga amicizia. Scoprimmo subito di avere in comune tante cose. Prima di tutto un'idea precisa di infanzia. Giuseppe, oltre che raffinato lettore, giornalista e critico, era soprattutto un maestro. Uno che, come me, si misurava giornalmente nell'aula di una scuola con bambini dalle storie complicate, con piccole vite che chiedevano all'adulto di aiutarle a realizzarsi e a non essere schiacciate da noia, pregiudizi e stereotipi.
Parlavo spesso con Giuseppe del nostro lavoro di insegnanti, del nostro proposito di schierarci dalla parte dei bambini come adulti lucidi, concreti, affidabili. Ci dicevamo come fosse importante ascoltare i bisogni dei piccoli, liberare le loro menti, difenderli dalle manie e dalle ossessioni dei grandi che aspiravano a farne docili esecutori in casa e nella società.
Il rispetto per i bambini, per la loro intelligenza, per la loro voglia di vedere il mondo con occhi curiosi e non velati da luoghi comuni erano per me e Giuseppe dei punti fermi sui quali ragionavamo con passione.
Sia lui, sia io sapevamo come fosse essenziale allargare gli orizzonti mentali dei bambini nutrendoli con vaste letture.
Le letture di Giuseppe ai suoi alunni erano per me sempre una sorpresa. Lui era molto audace nelle proposte che faceva alla sua classe. I libri che leggeva ai bambini erano quelli che parlavano di piccoli eroi assetati di conoscenze, di avventure, di libertà. Libri nei quali si mettevano alla prova senza paura, scontrandosi con adulti meschini, ma entusiasmandosi per altri con i quali potevano entrare in trepida complicità. Come L'isola del tesoro di Stevenson, per esempio, uno degli autori più amati da Giuseppe. Attraverso libri come questo, Giuseppe coltivava una infanzia inquieta, avida di futuro. Non mi ha mai parlato direttamente della sua infanzia, forse per pudore, per una riservatezza tipica del suo carattere. Ma per me era facile intuirla attraverso i suoi discorsi sull'infanzia altrui. Voleva per i suoi alunni e per i bambini ciò che aveva sicuramente desiderato per sé da piccolo: insofferenza di vincoli, di impacci mentali, capacità di sognare.
Silvio d'Arzo, Elsa Morante erano due dei suoi autori prediletti per la loro capacità di guardare lontano e di schierarsi dalla parte dei più deboli.
Giuseppe era uno che sapeva schierarsi, senza chiasso, ma con severità e rigore. E i suoi scritti, nati da un impegno quotidiano per capire come cambiava la società e come i cambiamenti influivano sull'infanzia, restano ancora oggi una preziosa testimonianza. Sono nello stesso tempo un'espressione di resistenza e di coraggio. Sui principi Giuseppe non transigeva, non era per gli accomodamenti di convenienza, che possono salvare se stessi ma finiscono sempre per danneggiare qualcuno.

Assumersi le proprie responsabilità

Gli scritti di Giuseppe erano sempre ben pensati e a lungo e meditati: la superficialità non è mai stata nelle sue corde e si adontava quando la vedeva praticata dagli altri. Le sue parole erano un invito a tutti ad assumersi le proprie responsabilità, a non rinchiudersi nel proprio guscio.
I testi usciti nella rubrica Gli anni verdi per rossoscuola si leggono ancora oggi con grande piacere.
Giuseppe conosceva la forza della scrittura, la capacità delle parole di cambiare prima se stessi e poi il mondo. Perciò la praticava costantemente in classe.
Ho letto molti dei testi creati dai suoi alunni. Giuseppe era orgoglioso di quei testi. I bambini non scrivevano per compiacere il maestro, come spesso accade, ma per dar voce alla loro irrequietezza interiore e al loro empito di libertà. Il suo compito di maestro era proprio questo: restituire i bambini a se stessi per farne un giorno adulti senza catene. Il lavoro diuturno del maestro, quello che gli altri non vedono, con i suoi gesti, le sue parole, i suoi comportamenti, contava tantissimo nella vita di Giuseppe.
Sapeva che sarebbe rimasto a lungo nella memoria dei piccoli, come traccia di giorni preziosi: quelli dell'incontro con un adulto che seppe accoglierti e rispettarti per come eri.
Giuseppe amava molto anche la poesia. Il giorno in cui mi fece leggere le poesie che scriveva, rimasi incantato dalla loro leggerezza, dalla loro ironica irriverenza, dalla lieve malinconia che sembrava riverberarsi sul senso profondo della vita.
Ne parlai con Gabriella Armando, che aveva pubblicato un paio dei miei libri, e fui felice quando decise di far uscire le poesie di Giuseppe nel volumetto Rabbia Birabbia, illustrate da Franco Matticchio, un illustratore che Giuseppe venerava.
Quante volte le ho lette e rilette ai miei alunni…Tra quelle poesie ce n'è una che è quasi il ritratto, per me, di Giuseppe: un uomo libero, franco, generoso. La poesia si intitola Canzonetta d'amore per il vento e le ultime due strofe dicono:

È libero e sorride
entra in ogni avventura
compie mille magie
non ha alcuna paura.

Fa parlare le foglie
porta voci e canzoni
non si cura del tempo
ed è senza padroni.

Angelo Petrosino




Quella passione di lettore straordinario

di Filippo Trasatti

Così il nostro collaboratore ricordava Giuseppe Pontremoli all'indomani della sua scomparsa.

In ogni libro letto, c'è un libro da leggere che nessuno leggerà. Ogni morte è prematura. / Spiagge sono le pagine del libro. / L'oceano è stupore del vento. / Umidi sono i bordi dell'infinito
Edmond Jabès

Ho conosciuto Giuseppe Pontremoli molti anni fa, in occasione della preparazione di un numero di Volontà dedicato all'educazione, “Il bambino tra autorità e libertà”. A dimostrazione che le prime impressioni ingannano, al primo incontro mi è sembrato difficile, quasi scontroso, quasi come la sua scrittura irruente un po' scabrosa. Mi avevano colpito nell'articolo scritto allora, “Cattivi maestri”, l'attenzione per i bambini e l'amore per i libri che leggeva e citava come doni per il lettore. Non ci voleva poi molto a scoprire la sua generosità e la sua cura per le persone che incontrava.
Era allora nella redazione di Linea d'ombra, diretta da Fofi. Più tardi ci siamo rincontrati e mi ha invitato ad entrare nella redazione di école, dove siamo stati insieme per anni. Teneva una rubrica di libri, “Leggere negli anni verdi”, che era una miniera di tesori: trovavi scrittori classici, insieme a sconosciuti, tenuti insieme dalla sua passione di lettore straordinario.
Ma soprattutto Giuseppe era un maestro e in particolare un maestro di lettura. Girava per le scuole, e dovunque lo chiamassero, per mostrare, con la sua voce profonda e straordinaria, che leggere può diventare sempre di nuovo un'avventura, che le storie sono boe essenziali per la navigazione nella vita, e che cosa vuol dire veramente amare i libri, non come oggetti, ma mondi viventi.
Il 9 aprile del 2004 è morto a Milano, dopo una malattia che l'ha distrutto in pochi mesi. Era appena uscito il suo libro, Elogio delle azioni spregevoli, per le edizioni L'ancora del Mediterraneo, dove accanto a squarci autobiografici, ci sono tutte le sue passioni, il suo mondo, i libri, personaggi, bambini, maestri.

Filippo Trasatti
Originariamente apparso in “A” 300, giugno 2004




Il nuovo feticcio del bambino cognitivo

di Giuseppe Pontremoli

In questo scritto del 1989 Giuseppe Pontremoli destruttura una nuova moda psico-educativa.
E oppone il proprio approccio “dalla parte dei bambini”.

Ormai si chiude, il secolo. E ne ha visti cadere, di miti e di mode, di fasti e di gesti, di ruoli e di voci, che magari a loro tempo sembravano eterni. Eppure qualche cosa, e non delle migliori, sembra piuttosto intenzionata a sopravvivergli. Più d'una, ma qui voglio dirne una sola.
Proprio nel 1900, quando nasceva il secolo, Rilke scriveva le Storie del buon Dio (ripubblicate ora nella TEA, nella traduzione di Vincenzo Errante e con una bella introduzione di Fabrizia Ramondino), e in una aveva messo un maestro che “diceva, aggiustandosi di continuo gli occhiali sul naso: 'lo non so chi abbia raccontato questa storia ai bambini. Ma ha fatto, comunque, malissimo a sovraccaricare e a tendere la loro fantasia con simili mirabolanti invenzioni. Si tratta d'una specie di fiaba...' “Questo nel 1900. Oggi, quando il secolo chiude, è ancora così. Largamente. Certo, con vari distinguo e varie eccezioni, però largamente così. Tra i tanti di oggi che sono così alcuni lo sono per perfidia e paura; altri invece lo sono con un bell'animo lieto tutto impregnato dell'ultimo culto - ch'è un modo comunque di avere paura. Da riviste, convegni, università, IRRSAE, case editrici, sedi di partito, sindacati, si strilla con concitazione: “Basta con l'educazione! Primato dell'istruzione! Viva il bambino cognitivo!”. Qualcuno è solamente in buona fede, giusto perché s'è accorto che i vecchi programmi della scuola elementare parlavano di qualcosa che proprio non esiste: Il bambino tutto intuizione, fantasia, sentimento. Altri in fede non altrettanto buona. A mancare è invece, chi abbia il coraggio di dire che si tratta d'un altro prodotto del fertile ventre dell' impero, eppure non sono pochi coloro che dovrebbero sapere - ma forse aveva davvero ragione Pasolini nel suo Gennariello (in Lettere luterane, Einaudi, 1976) quando parlava della “invincibile ansia di conformismo”.

Trovare un rimedio vero

Il segno è lo stesso che caratterizzava l'idea del bambino tutto intuizione, fantasia, sentimento: schematizzazione riduttiva, nel migliore dei casi; ideologia, falsa coscienza, comunque. Ma i bambini, per loro fortuna - e per quella di tutti - sono un po' più variegati, e dentro questi schemi non ci stanno. Forse ci sta il Bambino, ma i bambini veri no, perché sono fatti anche di fantasia, ragione, riflessione, sentimento, corpo, passioni. E tutti in misura diversa, perché intervengono in loro - così è per tutti - mille cose. E ci sono quindi bambini ricchi e bambini poveri; bambini assediati e bambini abbandonati; quelli che hanno la colf e quelli che hanno l'assistente sociale; alcuni hanno dei fratelli, altri dei televisori, altri fame, altri la puzza sotto il naso. E così ci sono bambini tristi, allegri, noiosi, antipatici, saggi, saccenti, arguti, crudeli, teneri, costruiti, affettuosi, spontanei, ricci, estroversi, fantasiosi, appassionati, silenziosi, cocciuti, parolai, simpatici... - ognuno può proseguire, basta guardarsi intorno.
La rivendicazione “tecnicistica” a me pare una spia significativa d'una crisi e di un vuoto; ma la necessità di fare fronte a un vuoto non dovrebbe portare semplicemente a cercar di coprire il buco, quanto piuttosto a cercare di trovare un rimedio vero, di riempire il vuoto con il quanto di meglio - il meglio di sé, della propria storia. E quindi innanzitutto con le proprie passioni e le proprie storie. Succede invece che, in assenza di un progetto sociale ed esistenziale, si mettano pezze, e magari anche di raffinata eleganza, di suggestiva forbitezza, scientificamente (?) fondate. Allettanti, quindi, ma pezze, nient'altro che pezze; che puzzano, in ogni caso, d'ansia di conformismo, d'ansia di potere e consenso.
Nelle Storie del buon Dio la “dimensione pedagogica” è insistita: Rilke le dedicò alla pedagogista Ellen Key; contengono diversi bambini; riferiscono a più riprese del fatto che i bambini quelle stesse storie le hanno risapute, trasmesse, capite, apprezzate, cambiate, amate, vissute; avevano come sottotitolo “Ai grandi perché le raccontino ai bambini”. Fabrizia Ramondino, nell'introduzione, interrogandosi sul senso di quel sottotitolo, scrive: “Alla luce anche delle numerose critiche di Rilke alla scuola e alla pedagogia del suo tempo (e, a mio avviso, del nostro), io lo intendo così: solo i grandi che hanno mantenuta viva in sé la rivelazione di Dio, che come tutti i bambini hanno ricevuto nell'infanzia, anche se non sapevano che era lui, saranno in grado di raccontare storie ai bambini, cioè di aiutarli a crescere; e mantenere viva in sé questa rivelazione altro non significa che disseppellire il bambino che è in loro.” Raccontare storie ai bambini, cioè aiutarli a crescere, aiutarli a imparare a vivere - e che raccontare sia essenziale per vivere lo si impara per esempio anche da Shahrazàd, che, per mille e una notte, salva la propria vita raccontando.

école, la rivista dell'associazione Idee per l'educazione, è uno spazio telematico
che si apre con A scuola di libertà, un breve testo per presentare la nostra idea di scuola.
Vi sono riportate le “parole” su cui converge la redazione di un'impresa culturale
“senza linea”, di voci plurali, che coltiva il dubbio come modalità di approccio ai saperi.
L'indirizzo dello spazio telematico, strutturato in una trentina di blog tematici, è
www.ecolenet.it.
La produzione editoriale di école è a disposizione di tutti in forma
completamente gratuita. I lettori possono aderire all'associazione Idee per l'educazione
che è proprietaria della testata. L'indirizzo della redazione è via Magenta 13, Como,
tel. 339.1377430, mail coecole@tin.it.
Ma i bambini sono bambini

Vivere, crescere. Non: sopravvivere; non: trascinarsi; non: adagiarsi all'esserci consentendo comunque. Vivere e crescere - cambiare, quindi; magari guardando e prendendo in mano il Qui, per progettare un Altrove che non si trovi altrove ma sia qui, che sia il Qui trasformato. Allora però è necessario che dietro il raccontare, prima del raccontare, ci sia qualcosa di enorme, come il senso stesso della propria esistenza. Una passione vera, almeno, che muova ed accompagni - che perseguiti, forse; che non lasci respiro al respiro affannoso, all'arrancare, e che aliti invece il proprio respiro ampio. Si può chiamare amore, dolore, Dio - ognuno ha la propria storia -; non è il nome che conta, quel che è essenziale è che la rivelazione ci sia e sia mantenuta viva e alimentata: con passione, con disponibilità a stupirsi e a rinnovare lo stupore.
Si oscilla spesso - maestri, genitori - tra due modi di porsi in rapporto ai bambini. Da una parte sta la schiera dei burrosi che, in un' orgia di diminutivi e leziosaggini, bamboleggiano tristamente e ridicolmente e comprimono i bambini in un preteso “mondo dell'infanzia” intollerabilmente falso; dall'altra sta l'armata dei seriosi pontefici, torrenziali e cupi elargitori di sentenze che non sanno vedere altro che sé - un sé imperiale, invasore, cui l'altro deve solo assoggettarsi. Eppure l'infanzia è un tempo non eludibile della vita di ogni uomo e dovrebbe essere considerata come tale. E si dovrebbe acquisire come qualcosa ben provvista di senso quella che solo apparentemente è una sciocca tautologia: i bambini sono bambini. Questo, però, avviene soltanto raramente: tra i due blocchi valoriali e comportamentali costituiti da pigrizia-cinismo-razzismo da una parte e conoscenza-solidarietà-apertura dall'altra, è oggi sempre il primo a prevalere. Eppure, davvero, i bambini sono bambini e nient'altro. Non sono adulti; non sono piccoli adulti; sono solo (solo?) esseri umani che percorrono un tempo specifico del loro essere, camminando camminando, esseri umani. E questo loro tempo specifico è un tempo in cui i confini tra quel che si vuole e quel che si respinge sono davvero netti, e maggiori che in ogni altro tempo sono la permeabilità e la disponibilità, grandi almeno quanto lo è la severità nel giudicare. Chi fosse disposto a accantonare pregiudizi, cecità e intenti colonialistici vedrebbe che i bambini sono tutt'altro che impermeabili e impenetrabili; si potrebbe anzi dire che siano in generale piuttosto spalancati e spugnosi, pronti a lasciarsi riempire e impregnare - con ingordigia, anche, avidi di tutto. Per le “rivelazioni” è un tempo in cui la luna è nella fase giusta. È dopo, è dopo aver avuto che rigettano, che espellono il superfluo e il flaccido, l'informe; è dopo che lasciano cadere le aperture, che la spugna rinsecchisce e s'aggrinza.
“Vivere è una faccenda molto pericolosa”, dice ripetutamente il narratore di Grande sertao di Guimaraes Rosa; e lo si scopre tutti” e non solo per gli inevitabili inciampi nelle insidie, nei trappoloni biologici e storici, più e più volte. Anche i bambini. Malattie, sbucciature, ferite, schiaffi, sgridate, maniglie irraggiungibili, silenzi; e poi il buio, la pioggia, l'arrivo di un fratello che si ruba la mamma, e la biglia caduta nella grata, l'amico che non viene, le figurine perse, la paura, le strade impraticabili, minacce di vicini, amici che ti “staccano la pace”, parole inascoltate, solitudini, complicità negate. La congiura di natura e cultura comincia molto presto e non si ferma più. E non c'è solo questo. Anche il “bene”, il gioioso del vivere, il “pieno” del sentire e del godere, contiene i suoi bei rischi, le sue insidie: l'immane difficoltà di capire e sapere come vivere. Dal ripetuto, insistito richiamo sull'imparare a vivere, non è difficile essere storditi e sentirsi spossati; si cerca allora un'ombra, ci si mette a sedere, e si sente più nulla.

Le antenne dei bambini

Spesso, quando un bambino piccolo cade, succede che da terra guardi verso la madre restando un po' come in sospensione, quasi a cercare in lei qualche indizio - di serenità o di ansia - sul quale modulare il proprio andare oltre oppure soffermarsi, la ripresa o lo sfogo, qualche spia che indichi se è il caso di chiedere attenzione e conforto. E dopo questa esplorazione che decide di rialzarsi e riprendere il gioco, la corsa, oppure di piangere per chiedere così alla madre di andare ad aiutarlo. Molte volte, per fargli riprendere forza e fiducia, è sufficiente uno sguardo, qualche parola quieta, un fiato di rassicurazione; per avere efficacia, però, sguardo parola e fiato devono essere mossi, non dati una volta per sempre e ripetentisi in un manifestarsi prevedibile quanto lontano. Soprattutto devono essere come modellati sulla situazione - non sulla condizione generalissima e quindi astratta di “bambino caduto”, bensì su quella lì, di quel momento e in questo modellarsi alla situazione di un bambino specifico è necessario che si metta nel conto anche l'eventuale inespresso, desiderio o paura che sia. Insomma, quel che conta è che sguardo parola e fiato siano dentro la vicenda, appartenenti davvero al rapporto di quel momento - tra il bambino e la madre, tra bisogno e risposta al bisogno, tra disponibilità e disponibilità, tra sfida e abbandono.
I bambini non hanno solo orecchie o solo occhi; hanno anche antenne, e possono anche essere prodigiose, che usano per captare e filtrare, fagocitare o respingere quel che gli ronza intorno. E se il bambino piccolo caduto osserva e spesso agisce proprio in conseguenza di quello che ha potuto captare con gli occhi e con le antenne, il bambino più grande non è che sia da meno - le antenne si perdono più tardi, quando ci si comincia a ritenere “grandi”. E in tutto il tempo dell'infanzia che le antenne funzionano, e questa è una delle peculiarità; una tra le preziose, perché consente di fare un pieno ben denso di memoria, dotarsi di uno scrigno cui attingere poi anche in futuro. Ma qualora il captabile altro non sia che il calcolo meschino, l'indifferenza cieca e preventiva, il trascinarsi snervato tra malumori muti e strilli isterici, l'attingere allo scrigno sarà poi solo una pena rinnovata, e sarà ingurgitata magari contrabbandandosela come beatitudine. Dice un bambino di una delle Storie di Rilke: “E i nostri genitori, come si comportano invece? Guardateli! Vanno intorno coi visi arcigni e imbronciati. Nulla va loro bene. Urlano. Strapazzano. E, nonostante ciò, eccoli lì, indifferenti a tutto.”.

Serve una piattaforma (per spiccare il volo)

Indifferenti a tutto, privi di passioni profonde, non sono soltanto molti genitori; per esempio nelle scuole, d'ogni ordine e grado, insegnanti così ce n'è quanti si vuole. E questo è un dato piuttosto disperante, perché quello dell'insegnante è un mestiere che offre molti spazi per le “rivelazioni” - e questo non ha nulla a che fare con la “missione”, ha molto a che fare invece con il fatto che sono in ballo persone, persone vive, che hanno voglia di vivere davvero e lo dicono forte tutti i giorni. A questo riguardo c'è invece molta reticenza. Ragioni, e responsabilità, ce ne sono diverse: dello Stato, del sindacato, dell'istituzione, della categoria, delle persone: tagli economici, formazione inesistente, stipendi sconfortanti, boicottaggi morali e professionali, parole vuote, dolori privati, burocrazia mortale, ingerenze concordatarie, mentalità meschine, frustrazioni sistematiche, opportunismi, campagne elettorali, falsi nemici, bambini di plastica, misconoscimenti, latitanza dell'inventiva, “sociale” asociale, assenza di progetti, genitori miasmatici, pavidità di generi svariati... Già questo non è poco, e non è tutto. E certo, pur non essendo tutto, è più che sufficiente a scoraggiare; ma siamo qui, e questo essere qui dovrà pur darsi un senso, sennò sarà insensato anche il fatto di esserci. E allora direi che qualcosa si potrebbe cercare di farla fin da subito: oltre che respirare sul collo di qualunque ministro, e magari piantarci anche i denti, darsi una piattaforma - nel senso sindacale e nel senso dello spazio da cui spiccare il volo -; una piattaforma donchisciottesca, da perseguire e praticare donchisciottescamente, che si ricava dal Gennariello di Pasolini: “negli insegnamenti che ti impartirò (...) io ti sospingerò a tutte le sconsacrazioni possibili, alla mancanza di ogni rispetto per ogni sentimento istitutivo. Tuttavia il fondo del mio insegnamento consisterà nel convincerti a non temere la sacralità e i sentimenti, di cui laicismo consumistico ha privato gli uomini trasformandoli in brutti e stupidi automi adoratori di feticci”.
Non sono qui a strillare reattivamente, o missionariamente, “per l'educazione, contro l'istruzione”; voglio solo dire che il “bambino cognitivo”rischia di non essere altro che un nuovo feticcio. Adorarlo? No, grazie, non è il caso, abbiamo già dato. Istruzione ce ne vuole tanta, ai bambini è giusto far apprendere molto, e facendolo si risponde positivamente a un loro bisogno, a una loro richiesta; ma è necessario assumerli interi, perché possano cominciare ad essere sapienti e non saccenti, perché possano cominciare ad essere artefici appassionati del proprio stare nel vasto mondo e non artifici appassiti ancor prima di fiorire, perché possano capire e sentire il proprio sentire e il proprio capire, perché possano cominciare a capire e sentire che il proprio sapere può portare non soltanto a consentire ma anche a divergere.
Però, ancora una volta, come il bambino piccolo caduto, i bambini si guardano attorno. Si guardano attorno e imparano, dai loro modelli. E possono imparare che si può ascoltare; che si può parlare; che si può leggere; che si può scrivere; che si possono avere e comunicare sensazioni convincimenti e dubbi; che si può spaccare in quattro un capello ma si può anche - ed è più divertente - essere almeno in due o, meglio ancora, in quattro, ognuno con almeno quattro diversi capelli da spaccare - in quattro, e poi in quattro - e poi da intrecciare insieme; che un punto di vista non è mai un punto ma almeno una montagna; che si può capitare a Lilliput ma anche a Brondingnag; che il vasto mondo è “grande. Ma tutto era ancora più grande quando si ascoltava una cosa raccontata” (Guimaraes Rosa, Una storia d'amore, Feltrinelli, 1989); che immaginare e cambiare appartengono alle possibilità umane e sono cose magiche proprio perché possono avvenire davvero; che... mille e una altra cosa. L'essenziale è che possano vedere qualcuno che ascolta, parla, legge, scrive, dubita, riflette, si emoziona, scava e non si accontenta e non si basta, e scruta e scruta, e racconta e racconta, e cammina e cammina. E tutto dentro la situazione, quella lì, con tenerezza e furia, con passione.

Un nuovo entusiasmo

Bisogna fare qualcosa, contro il maestro di cui parlava Rilke, contro le sue tante reincarnazioni dei nostri tempi - perfide o paurose che siano. Bisogna contrastare, contrapporre. E si può contrapporgli, per esempio, una donna della Storia d'amore di Guimarães Rosa: “Gianna Xaviel si entusiasmava tutta. Una capacità, che nessuno regolava, s'impadroniva di lei, in certi momenti. Il re, il vecchio re, si teneva la barba, le mani piene di brillanti di oro di anelli; il principe amava la fanciulla, recitava affettuosità, esclamava e sospirava; la regina filava alla rocca e diceva il rosario; il taf-e-zaf delle spade dei guerrieri indiavolava nell'aria lì davanti: la gente vedeva il brandire delle spade, che tintnivano, sfavillavano; sentiva tutti cantare le loro battute, il suono quella voce dell'uno e dell'altro. Gianna Xaviel diventava un'altra. Al chiarore della lanterna, c'erano momenti in cui lei era vestita con abiti sontuosi, il volto mutava, ingentiliva i lineamenti, anticipava le bellezze, diventava sembiante. Uno si distraeva, aereo dal contenibile della figura di lei, di quella - che era una bifolca di riva di fiume, grossa, scura, con una salienza di gozio nel collo, donna piazzata nei suoi quarant'anni, nessuno di meno, senza educazione. Ma che ardeva ardore, si trasformava. Gli occhi prendevano di più, emettevano lucori cupi, aggredivano. (...) Gianna Xaviel dimostrava una forza per dentro, un'inclinazione selvaggia. Quando lei cominciava a raccontare le storie, al chiarore della lucerna, la gente riceveva un imbalordimento di illusione, quella ringiovanendosi in bellezza, di colpo, una diavoleria di bellezza. (...) Cominciava a raccontare storie - produceva uno strano incanto. Uno arrivava ad eccitarsi, a sentir calore di andare con lei, di abbracciarla.”
A fronte di questo appassionarsi, forse, si può trarre energia per un nuovo entusiasmo, un nuovo appassionarsi, per dare vita e nutrimento adeguato alle urgenze interiori. Diceva qualcuno che la forza di un uomo (e di una società) consiste tanto nella capacità di inventare e progettare quanto in quella di coltivarsi la memoria: e le storie altro non sono che un crogiuolo di questa forza, perché in esse il prefigurato e il sedimentato si saldano e si fondono, lasciando spazi ampi tanto ai bisogni quanto ai desideri e operando fra questi e quelli commistioni e scambi ben più che significativi. E sono così, al tempo stesso, il percorso e la meta, utili per attraversare tutto e arrivare dovunque. “Anche questa è una storia?”, chiede ad un certo punto un personaggio di Rilke. “No”, risposi. “È un sentimento”. “E si potrebbe comunicarlo, in qualche modo, ai bambini?”. Riflettei. “Forse...”. “Ma come?” “Per mezzo di un'altra storia”.
Quale storia? E quali storie, in generale, per i bambini nostri? C'è molto da dire, in merito, ma - come direbbe il Kipling “senza trombe” delle Storie proprio così e di Puck delle colline, e questo è già un riferimento, seppur parziale e tendenzioso - ... ma, appunto, questa è un'altra storia.

Giuseppe Pontremoli
Da “Linea d'ombra” n. 43, novembre 1989




Una vita tra i libri

Giuseppe Pontremoli nasce a Parma il 24 novembre del 1955, ma cresce nel paese di Varsi. Dopo una giovanile vicinanza, progressivamente critica, all'area del PdUP (testimoniata da un lungo carteggio con il filologo, saggista e critico Sebastiano Timpanaro, conservato presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, in cui emergono anche le ragioni biografiche e letterarie), ed una generale attività politico-culturale in Emilia, dagli anni '80 è insegnante in una scuola elementare di Milano, svolge una attività di lettura ad alta voce per bambini, e collabora con alcune riviste (fra cui rossoscuola, école, Linea d'ombra) per le quali si occupa di educazione, di infanzia, di letteratura, e di letteratura per l'infanzia. A Milano vive con la compagna Lia Sacerdote e il figlio Giacomo, nato nel 1992.
Nel 1991, per le Nuove Edizioni Romane di Gabriella Armando, pubblica il suo primo libro, la raccolta di filastrocche Rabbia birabbia, cui seguiranno la curatela con Cesare Pianciola della raccolta di autori italiani Leggere gli anni verdi (e/o 1992), il romanzo per ragazzi Il mistero della collina (Giunti 1994), la cura de Le bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina e altre storie di Elsa Morante (Einaudi Ragazzi 1995), e i versi della Ballata per tutto l'anno e altri canti (Nuove Edizioni Romane 2004).
Nel gennaio del 2004 pubblica presso la casa editrice napoletana di Stefano De Matteis, L'ancora del Mediterraneo, il saggio Elogio delle azioni spregevoli, apprezzato da Alfonso Berardinelli, Francesco M. Cataluccio, Antonella Tarpino, Paolo Lagazzi e Luigi Monti, e divenuto poi nel corso del tempo un testo di riferimento per una particolare area del pensiero pedagogico e culturale italiano.
Muore a Milano, per malattia, il 9 aprile dello stesso anno, a quarantanove anni. Giocando parole, seconda parte dell'Elogio delle azioni spregevoli, esce postumo l'anno successivo, con una introduzione di Roberto Denti, ancora per L'ancora del Mediterraneo. Sussiste oggi la volontà di una ripubblicazione di entrambi i titoli in un unico volume.

Giacomo Pontremoli




Elogio delle azioni spregevoli, ovvero cinque anni di storie

di Giuseppe Pontremoli

Raccontare il raccontare.
E poi: le levatrici del paese, il libro più bello e tante altre cose.

Vorrei, senza fare tante storie, raccontare una storia. «Vorrei» nel senso che mi piacerebbe farlo, ma non la racconterò. Non la racconterò perché, trattandosi della mia storia di lettore forsennato, sarebbe troppo lunga. Infatti essa dovrebbe necessariamente partire da alcune incantevolmente stregonesche narratrici che ho avuto la ventura di ascoltare nella mia infanzia. Inoltre dovrebbe includere la spregevole azione che ho cominciato a compiere a sei anni. E dovrebbe altresì articolarsi nel dire diffusamente dell' altrettanto spregevole azione iniziata a vent'anni e poi dai vent'anni in avanti ribadita con pervicacia crescente: crescente fino al punto di farmene un vanto. Eviterò allora di raccontare quella mia lunga storia e -giusto in nome del vanto - dirò solo, e di corsa, di quelle due azioni spregevoli; poi racconterò un' altra storia.
Per dire delle mie azioni spregevoli mi servirò però delle parole d'un altro: il direttore del «Premiato Collegio Minerva», il signor Tobia Corcoran. Questi, come racconta Silvio D'Arzo in Una storia così, racconto risalente alla fine degli anni Quaranta e pubblicato ora, per la prima volta, in appendice a un importante libretto di saggi di Paolo Lagazzi (Comparoni e l'«altro». Sulle tracce di Silvio D'Arzo, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia), dirigeva appunto il «Premiato Collegio Minerva»e non aveva nulla di strano se non questo fatto: «aveva in testa soltanto un'idea. (E non una alla volta, intendiamoci: no, il signor Tobia Corcoran sotto il suo vecchio cappello aveva quella e poi quella soltanto. [...]) Ed ecco qui la sua idea: «Uno studente dai sei anni in avanti non può compiere azione più immorale, malvagia, spregevole, pericolosa, allarmante che leggere libri che non siano i tre libri di testo. E a sua volta un maestro dai vent'anni in avanti non può compiere azione più infamante, allarmante, pericolosa, spregevole, malvagia, immorale che far leggere libri che non siano i tre libri di testo».
Sì, dai sei anni in poi ho letto ben altro che i libri di testo. E poi, dai vent' anni in avanti - giacché è da allora che ho cominciato a insegnare - ho fatto leggere libri che non erano proprio i libri di testo.
È così. E così innesto qui l'altra storia. Quella che non è poi neanche una storia, ma soltanto un frammento di essa, di quella stessa storia: per la precisione quel suo capitolo che si intitola Come e perché un lettore forsennato cerchi di far coesistere questa propria essenza libertaria con il proprio essere un normale insegnante di normali bambini di normale scuola elementare.
Racconterò questo capitolo perché esso esiste, e si snoda nel mio andare a scuola ogni giorno sempre tenendo ben presente il convincimento che - poche storie - quel che più conta per me sono le storie. Con tanti saluti al signor Corcoran.
Certo, un ruolo decisivo nel formarsi di questo mio convincimento l'hanno svolto quelle stregonesche narratrici - soprattutto la levatrice del paese - ma poi si è via via consolidato, ed è arrivato alla misura attuale anche per gli apporti di altri, illetterati e non, raccontastorie. Da alcuni di essi, oltre al grande piacere che ne ho preso per le vicende e le voci, ho anche ricavato fondamenti, per così dire, teorici. Uno di questi, per esempio, riguarda il quotidiano di ognuno, in ogni tempo e paese, e proviene da un racconto di Isaac Bashevis Singer, Naftali il narratore e il Suo cavallo Sus (Salani 1992). Dice infatti Reb Zebulun: «Quando un giorno è passato, non c'è più. Che cosa ne rimane? Niente più che una storia». Ma poi ce n'è un altro, e riguarda qualcosa come la storia dell'umanità, e ne parla Ursula K. Le Guin ne Linguaggio della notte (Editori Riuniti 1986), là dove afferma che «ci sono state grandi culture che non usavano la ruota, ma non ci sono state culture che non narrassero storie» .
Ma non ce n'è solo per l'umanità e i suoi giorni: ce n'è anche per Dio. Dice infatti il commissario de La tempesta di Emilio Tadini (Einaudi 1993): «Io credo che Dio abbia creato gli uomini perché lui adora i racconti. Che cosa se ne farebbe, siamo sinceri, Dio, non dico delle formule di un fisico, ma anche dei discorsi di un professore che venisse a parlargli dell'ente o addirittura dell'essere? Ma se qualcuno gli si alzasse da vanti dall'abisso della propria miseria incominciasse a dire con un filo di voce «C'era una volta», io credo che persino lui, l'Onnipotente, si metterebbe comodo, e si disporrebbe ad ascoltare.»
Mille e mille potrebbero essere le testimonianze a riprova del fatto che quello che più conta sono le storie, ma in fondo forse potrebbe anche bastare il pensare a Sheherazad, che salva la propria vita raccontando. E poi a me sembra che - Misteri della Pedagogia - avendo a che fare con bambini si impari più che mai che i c onti veri e profondi vanno fatti, anzitutto e dopotutto, con la paura e la gioia. E dentro il mio cuore pedagogico è il continuo pulsare di una frase di Heine (”Da ragazzo lessi tanto che non ebbi più paura di nulla”) e una di Elias Canetti: “Senza libri le gioie marciscono”. Inoltre sono venuto a sapere da Henrich Boll (Terreno minato. Saggi - Bompiani 1990) che “leggere fa pensare, può farti libero e ribelle”, e solo questo a me potrebbe bastare.
Racconterò allora una cosa che ho fatto a scuola negli ultimi cinque anni, coi bambini della mia classe, limitandomi a parlare delle narrazioni che si sono lette insieme. «Narrazioni che si sono lette insieme» significa qualcosa di molto preciso e definito: significa libri di racconti e romanzi, soprattutto. Libri che io, insegnante, ho letto ad alta voce ai miei alunni; non includo, quindi, tutto quel che si è letto in classe né tutto quello che ognuno ha letto per proprio conto, di propria iniziativa o dietro suggerimento, mio o di altri.

Sconfinata complicità

E dunque noi a scuola si leggeva. E siamo stati bene, molto bene. Si rosicchiava il tempo qui e là, ci si sedeva in circolo e io leggevo la storia. (Uso il tempo passato perché parlo degli anni trascorsi, ma potrei usare il presente perché anche con il nuovo ciclo si sta ripetendo l'attività.) Io leggevo la storia, inevitabilmente a puntate, sussurrando e gridando, emettendo rantoli di moribondo e grida incontenibili di gioia, singhiozzi e risate, balbettando e cantando: infilavo la voce nelle innumerevoli pieghe dei personaggi e degli eventi.
Alla fine dei cinque anni ci siamo così ritorvati ad avere letto un certo numero di libri (ottantatre), ai quali andrebbero aggiunte le poesie e filastrocche pescate da moltissimi libri, nonché un'infinità di singole fiabe popolari, favole, leggende, narrazioni di miti.
Quali siano i libri si può leggere nell'elenco qui a fianco, e potrebbe forse bastare, ma voglio aggiungere anche qualche altra parola. E stata un'attività di sconfinata complicità, un'iniziativa appassionata contro la solitudine e contro la noia. È vero, ho sicuramente imposto le mie scelte, ma devo anche dire che se è vero che i bambini erano molto fiduciosi e disponibili fin dall'inizio, è altrattanto vero che la fiducia è andata sempre costantemente crescendo, ed è cresciuta non su basi fideistiche ma a partire dall'accumulo di «buone esperienze». Inoltre, spesso, le letture sono state fatte in conseguenza dell'emergere di interessi specifici scaturiti per le più diverse ragioni. E dirò anche di avere proposto diverse letture pensando (paternalisticamente? colonialisticamente?) che non avrebbero potuto affrontarle da soli in quel momento, e magari non avrebbero più avuto l'occasione di farlo. È ovvio che a questo proposito mi rimangano degli interrogativi, anche se accompagnati dal rasserenamento derivante dalle «risposte» dei bambini.
Una cosa invece potrei dire di essere «orgoglioso» di non avere mai fatto: usare quei libri per attivare qualsivoglia esercitazione scolare. Se ne è però parlato tantissimo, nei momenti più disparati, e mi sembra che i bambini abbiano sempre dimostrato di capire molto. E non ho dubbi che se avessi organizzato un qualunque lavoro con tutte le sue brave articolazioni avrei potuto assistere a esiti molto più banali di quelli cui ho assistito, per non fare che un esempio, nella discussione seguìta all'affermazione molto estemporanea di una bambina che un giorno interruppe il proprio lavoro e mi venne vicino dicendomi che la sera precedente, prima di addormentarsi, aveva pensato, con piacere e paura, che Silver, il pirata de L'isola del tesoro, le piaceva molto, e si arrovellava, perché secondo lei era contemporaneamente un rappresentante del Male e del Bene, e aveva il sospetto che proprio questa fosse la ragione per cui le piaceva tanto.
Dire che questa attività è piaciuta è affermazione abbondantemente eufemistica. Per rendere davvero pienamente l'idea avrei bisogno di molte pagine, e dovrei dire degli sguardi, delle suppliche a non interrompere, delle richieste di replica, delle richieste di - «almeno una volta, ti prego, almeno oggi» -leggere per tutto il giorno. Non tutto, ovviamente, è piaciuto in eguale misura; ognuno ha avuto precise preferenze che ha caparbiamente sostenuto a fronte delle allettanti preferenze altrui.

Il più-più bello

Se dovessi dire un titolo che più di altri ha ottenuto la definizione di «più bello di tutti» sarei abbastanza in difficoltà, ben sapendo quanti - e con quanta forza - si siano innamorati de L'isola del tesoro, di Harun e il Mar delle Storie, di Ronja, di Tom Sawyer; e ben sapendo anche quanti abbiano ripetutamente insignito Cion Cion Blu della propria «menzione d'onore» con la motivazione struggente che «è stato il primo». Sì, sarei in difficoltà, però potrei forse dire che il «Più-più bello» sia stato quel capolavoro piuttosto misconosciuto che è il libro di Frances H.Bumett, Il giardino segreto.
Mi preme sottolineare che i miei alunni erano tutti bambini senza particolari stranezze: amavano i giochi, i fumetti, la televisione, andare al parco e quan t'altro.
Voglio solo aggiungere, in conclusione, che ogni tanto mi arriva una lettera, una telefonata: mi si racconta della scuola media, di un braccio rotto, di una vacanza, mi si chiede un consiglio di lettura. E qualche sera fa, marzo novantaquattro, cioè a due anni di distanza dalla lettura del libro di Rushdie, uno di loro mi ha telefonato e m'ha detto fra l'altro: «Domani vado a comprare Harun: ho convinto mia mamma a farmi un regalo».

Giuseppe Pontremoli
Da “école”, aprile 1994




Leggere Giuseppe Pontremoli
a cura di Celeste Grossi

libri
Rabbia birabbia, Nuove Edizioni Romane, Roma 1991.
Leggere gli anni verdi. Racconti di letture sull'infanzia e l'adolescenza di Arlorio, Bellocchio, Berardinelli, Bettin, Cases, Ceserani, Cherchi, Consolo, De Federicis, Fofi, Giudici, Grimaldi, Lamarque, Masi, Ramondino, Sereni, Starnone, Turchetta, e/o, Roma 1992 (a cura di; con Cesare Pianciola).
“Storie per bambini”, in Per Elsa Morante, Edizioni Linea d'ombra, Milano 1993 (AA. VV.).
Il mistero della collina, Giunti, Firenze 1994.
“Le bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina e altre storie” di Elsa Morante, Einaudi Ragazzi, Torino 1995 (a cura di).
“Silvio D'Arzo e la cosiddetta letteratura per l'infanzia”, in Silvio D'Arzo scrittore del nostro tempo, Aliberti, 2004.
Ballata per tutto l'anno e altri canti, Nuove Edizioni Romane, Roma 2004.
Elogio delle azioni spregevoli, L'ancora del mediterraneo, Napoli 2004.
Giocando parole (introduzione di Roberto Denti), L'ancora del mediterraneo, Napoli 2005.

riviste
Giuseppe Pontremoli è stato redattore di rossoscuola (dal 1987 al 1991); di “Linea d'ombra”, dal 1988 al 1997; di école per la quale dal 1991 al 2004 ha tenuto la rubrica “Leggere gli anni verdi”.
Ha scritto articoli per: La terra vista dalla luna. Educatori e diseducatori (1991 e 1992); Volontà (1992); Primapersona 2002, ecoinformazioni (2003); “La vista della cicogna”, in n. 9, Archivio diaristico nazionale, Provincia di Arezzo.

siti
Molti scritti di Giuseppe Pontremoli si trovano nel sito a cura di Alberto Melis http://www.giuseppepontremoli.it/pergiuseppe2.htm. Sul sito di école (www.ecolenet.it) si possono trovare gli articoli scritti da Giuseppe Pontremoli dal 2001 al 2004.

...e un e-book
All'indirizzo web https://ecoleedit.wordpress.com/2014/11/24/giuseppe-pontremoli-maestro/ si può trovare Giuseppe Pontremoli, maestro, l'e-book a cura di Celeste Grossi, Cesare Pianciola, Giacomo Pontremoli, Andrea Rosso, Gianpaolo Rosso, Stefano Vitale, pubblicato da Idee per l'educazione/école, novembre 2014, che contiene molti scritti di Giuseppe Pontremoli.