rivista anarchica
anno 45 n. 399
giugno 2015





“Abbasso lo stato, viva lo sfruttamento”: con questo sintetico ed efficace titolo Franco Melandri recensisce in “A” 67 (agosto/settembre 1978) il primo numero di Claustrofobia, la prima rivista “libertarian” o – usando un'espressione ossimorica ma chiarificatrice – “anarco-capitalista”. D'altra parte, come didascalia della sua copertina, la redazione di “A” (di allora) scrive: Ci mancavano solo loro, i “libertari” anarco-capitalisti. Ora hanno una rivista. Esaminiamola.” E giù tre colonne di forte critica, motivata.
Ci piace segnalarle all'inizio di questa presentazione di un numero di 37 anni fa, perchè 37 anni dopo – mutati mutandis – ci sono ancora incontri, documenti, prese di posizione che accomunano esponenti del Partito Radicale, seguaci del libertarianismo statunitense (nelle sue diverse tendenze e accentuazioni) e qualche anarchico particolarmente attratto dalla culura liberale e “di mercato”. E la nostra redazione, che cerca di essere – come proclama di voler essere – aperta alle molte sfumature dell'anarchismo e anche quelle tendenze che all'anarchismo fanno un riferimento (parziale) molto, ma molto diverso dal nostro, è contenta di ricollegarsi idealmente a quello scritto di Franco Melandri che, ben lo ricordiamo, era stato “concordato” con la redazione e di fatto apparve su “A” con la convinta adesione (non esplicitata, ma sostanziale) appunto del gruppo redazionale che sul finire degli anni '70 gestiva “A”.
Ecco questa è “A”, rivista in qualche modo “di frontiera”, nata tutta dentro il tronco dell'anarchismo socialista, militante, rivoluzionario e sviluppatasi poi negli anni, nei decenni a comprendere in varia misura una varietà sempre più composita e a volte contraddittoria di posizioni, opinioni, sguardi. Con una significativa presenza, ora, tra i propri collaboratori di persone che di sicuro hanno una formazione ideale e politica diversa, sicuramente estranea a quel tronco appena richiamato. Aperta, di sicuro, orgogliosamente aperta, ma... est modus in rebus dicevano i latini: ci sono paletti, limiti, non imposti da chissà chi, bensì liberamente e chiaramente posti da noi stessi, dalla nostra sensibilità, dalla volontà di restare comunque – seppure con un'apertura che infastidisce alcuni compagni/e – nel solco dell'anarchismo sopra descritto. Da questo difficile uso del termine si coglie tutta la difficoltà, ma anche a nostro avviso la “bellezza” di questa accentuazione del carattere non-dogmatico, sperimentale e sperimentalista dell'anarchismo. Un percorso certo rischioso, per chi come noi ha un concetto alto delle responsabilità e del ruolo essenziale che, nel magma di Internet, è nelle mani di chi di fatto gestisce una voce anarchica (e nemmeno una delle più giovani e “piccole”): ma un percorso che siamo determinati a seguire, navigando di sicuro a vista, senza spocchia, con la certezza che le “grandi idee” del passato siano sì una possibile bussola, ma certo parziale e non sempre sufficiente, per leggere questo nostro mondo che sta cambiando, quotidianamente, sotto i nostri piedi e davanti ai nostri occhi.
Ecco allora che la presentazione di questo numero, uscito circa 37 anni fa (come indica il titolo di questa rubrica), diventa l'occasione, più che di una puntuale rivisitazione di quel numero attraverso l'elenco ragionato degli scritti che specificamente vi apparvero, diventa l'occasione – dicevamo – per ragionare su analogie e dissonanze della concezione del ruolo di un foglio anarchico allora e oggi. Ed ecco che abbiamo pensato di riprodurre, nella pagina qui accanto, uno degli “editoriali” che in quel numero vi apparvero. Lo scritto, a firma di un componente della redazione di allora, esprime(va) con precisione quella che era la concezione del gruppo redazionale di allora, che su di una tematica importante come quella della “militanza” (in un periodo in cui questa parola era ampiamente usata e soprattutto praticata). Rileggendolo oggi, anche se tanta acqua è passata sotto i ponti e – come accennavamo prima – il mondo è davvero cambiato, per tanti aspetti, pensiamo che potremmo ripubblicarlo oggi senza alcuna modifica sostanziale. Certo, il linguaggio risente (e per fortuna!) dei tempi ormai lontani in cui fu scritto, ma la scelta etica ed esistenziale, prima ancora che politica, è quella che compimmo durante i lunghi mesi del 1970 nelle numerose ed estenuanti riunioni di concepimento di questa rivista e di preparazione del suo numero zero.
Guardandoci nello specchio di questo scritto, possiamo riconoscerci appieno. E, lo sapete anche voi, o almeno quelli di voi che hanno passato gli “anta”, non è cosa frequente. E ci strappa un bel sorriso.




Militanti perché

Tempi difficili, i nostri. Difficili ed anche un po' strani. Dopo la vampata del '68, che ha in varia misura alimentato le lotte sociali e fatto crescere i movimenti di estrema sinistra, è subentrata da tempo la disillusione. Non solo la Rivoluzione non s'è vista, nemmeno da lontano, ma anche la sensazione (se non proprio la certezza) di esserci vicini è progressivamente venuta meno. La Vittoria con la “v” maiuscola si dimostra ogni giorno più lontana, tanto lontana che molti di quelli che ci credevano non riescono più nemmeno ad intravederla.
La disillusione è stata così forte, per molti anche così repentina, da trasformarsi amaramente in derisione: quanti compagni, disposti qualche anno fa ad alzarsi alle cinque del mattino per andare a volantinare agli operai del primo turno, ricordano oggi quelle levatacce con vergogna ed ironia, accomunando oggi nel medesimo acre giudizio chi continua a fare ciò che loro facevano ieri.
In questo senso, noi non siamo cambiati: siamo compagni che ancora continuano a credere nella militanza e, oggi come dieci anni fa, cercano di farla al meglio delle loro possibilità. Già sentiamo le critiche, i sorrisini ironici, le stroncature, ecc. di quei compagni - non pochi, purtroppo - che della critica ai militanti/militonti sembrano fare la loro attività preferita. Cerchiamo di spiegarci.
Noi non ci siamo mai fatti soverchie illusioni: la formuletta, ormai stracitata, “il pessimismo della ragione, l'ottimismo della volontà” ci calza a pennello. Sappiamo, anche per quel po' di esperienza che abbiamo accumulato in dieci/quindici anni di esperienza militante, quanto lavoro, quanta dedizione, quanta umile metodicità siano necessari nella vita quotidiana, in campo sociale soprattutto, per ottenere un qualche risultato. Le ventate rivoluzionarie vengono sempre quando meno ce le si aspetta: gonfiano le nostre bandiere nei cortei, galvanizzano la combattività delle masse, sembrano confermare per un momento la facile realizzabilità di tutti i nostri progetti. Poi, però, la marea si ritira e molte delle cose (non tutte) che sembravano ormai assodate, irreversibili, ritornano in discussione; ci si conta e ci si ritrova in meno, molti meno, a volte. Chi ha vissuto, per esempio, le grandi speranze ed anche le grandi illusioni dell'immediato dopoguerra, nel '19/'20 come nel '45/'46, sa quanto tutto ciò sia drammaticamente vero. E poi oggi basta guardarsi attorno, leggere i giornali, le lettere dei compagni e delle compagne, respirare un po' l'aria del “movimento” per vedere quante cose siano cambiate rispetto a solo uno o due anni fa. Cambiate in meglio, forse, ma certo anche in peggio.
E fra il “peggio”, al primo posto, mettiamo la sfiducia ed anche il rifiuto generalizzato (non senza eccezioni, per fortuna) dello studio sistematico e dell'azione diretta quali unici strumenti per incidere nella realtà sociale. Noi crediamo invece che solo lo studio sistematico, critico e mai definitivo, insieme con l'operare metodico, quotidiano, umile (ma non per questo rassegnato, anzi) possano contribuire ad avvicinarsi alla realizzazione dei nostri ideali.
I grandi cambiamenti, le grandi rivoluzioni, infatti, sembrano ai più l'effetto unico ed immediato degli avvenimenti precedenti: noi sappiamo che non è solo così. Senza l'operare costante, tenace, spesso silenzioso e sconosciuto di molti compagni, i grandi fenomeni sociali non sarebbero avvenuti, oppure non avrebbero avuto quelle caratteristiche che ce li rendono particolarmente vicini ed interessanti: pensiamo alla Comune di Parigi come alla rivoluzione russa, alla rivoluzione spagnola come al maggio '68.
Se per militanza si intende appunto questa disponibilità a lavorare con gioia, ma anche - se necessario - con spirito di sacrificio, per la realizzazione dei nostri ideali, se per militanza si intende (e per gli anarchici, come potrebbe essere diversamente?) volontà di unire costantemente il “personale” ed il “politico”, cercando di vivere già oggi il più coerentemente possibile con i nostri ideali di libertà ed uguaglianza, allora non possiamo che riconfermare - in quest'epoca di diffuso disorientamento, di incertezza ed anche di confusione - la nostra quotidiana scelta militante che sola dà un senso pieno alla nostra vita in questa società.
Altre alternative positive non ne vediamo: le due che oggi sembrano andare per la maggiore - il ripiegarsi sul “personale”, nel tentativo di risolvere così i propri problemi da una parte, il lanciarsi in un donchisciottesco attacco armato dall'altra - non possono convincere chi come noi non vuole certo nascondersi le difficoltà del momento storico ma nemmeno è disposto a farsene scudo per giustificare l'abbandono dello scontro sociale.

p.f.

originariamente apparso in “A” 67 (agosto/settembre 1978)