rivista anarchica
anno 45 n. 399
giugno 2015


 


Ma la geografia
non è una scienza univoca

Può un romanzo esprimere istanze libertarie senza utilizzare i linguaggi della militanza e senza ambientare le vicende in contesti rivoltosi o tipici di una condizione sociale che favorisca il desiderio di emancipazione? La lettura de La mappa di Vittorio Giacopini (Il saggiatore, Milano, 2015, pp. 332, € 18,00) stimola una risposta affermativa, principalmente perché, da più punti di vista, l'autore rende omaggio a G. G. E. Reclus.
Come ogni sapere, la geografia non è una scienza univoca e immodificabile.
Serge Victor, protagonista dell'ultimo libro di Giacopini, imparerà a sue spese che il potere protegge sempre se stesso a discapito di ogni etica coerenza: gratifica la propria arroganza sfruttando qualsiasi opportunità, bruciando tutto ciò che reputa ingombrante, eliminando ogni riflessione che potrebbe creare “inciampo” ad eventi pianificati. A rendere più accattivanti i pensieri di Serge è il teatro entro il quale si evolve ogni sua esperienza: l'espansione e la decadenza dell'impero napoleonico. Scoprirà la beffa di un alibi ammantato da nobili intenzioni: “le armi di Francia” [...] porteranno “ideali di libertà e uguaglianza, di fratellanza”. Serge è un geografo arruolato nell'esercito, il suo compito è fondamentale alle strategie della conquista: “prima viene la mappa poi l'azione”. “Bisogna studiare per fare la guerra”, bisogna saper disegnare “come se si fosse per aria”. É da questi concetti che si dipanerà una spirale contraria: “l'emozione della guerra” non sarà vissuta sul palcoscenico bellico, ma dietro le quinte, tanto che percepirà il suo mestiere come se si svolgesse “alla rovescia” e senza godere mai di alcun merito.
Ecco allora che una mappa può essere delineata su sentimenti contrastanti; ecco l'esperienza che modifica gli entusiasmi giovanili; ecco quanto i mappamondi possano assumere “diverse proiezioni”. Serge avvierà un proprio percorso di conoscenza: nella metafora efficace proposta da Giacopini “un labirinto che esplica il sistema delle scienze e delle arti”. Nel metabolizzare che “non esistono certezze definitive”, Serge incarna pienamente le contraddizioni dell'età dei Lumi, ma non sarà la ragione, o meglio la pura razionalità, a fargli comprendere che il sapere non abita i sentieri delle soluzioni categoriche: approderà a percorsi di ricerca e a riflessioni in continua evoluzione. Serge disegnerà per tutta la vita: su carte in scala, su almanacchi, su tazze e piattini; esprimerà i propri dubbi attraverso papere parlanti, fra saltimbanchi, poeti, improbabili messaggeri e personaggi da favola.
Come l'acqua erode le spiagge, come il vento scalfisce le rocce, come la guerra modifica i paesaggi e i suoi abitanti... così Serge proporrà nuove interpretazioni agli eventi. Mentre la rivoluzione francese “scende a patti con il clero”, fra le tessere di un dettagliato gioco dell'oca saprà collocare l'epopea di un imperatore “sconfitto da un'assenza” e le tragiche conseguenze dell'ennesima e “invincibile” politica di espansione: stragi, violenze, povertà, epidemie, paesaggi bruciati e tesori artistici rubati.
Quando si colgono i particolari più nascosti, si scopre che il mare non esisterebbe senza il fiume, senza il ruscello, senza quella singola goccia d'acqua che, anziché evaporare, resiste alle cascate più irruenti. L'arte cartografica può essere molteplice, può ispirarsi all'Iliade, all'Odissea o al Don Chisciotte e cioè, essere sì al servizio della guerra e dell'odio, ma può essere una guida per viaggi avventurosi, come immedesimarsi nel sortilegio o in speranze ancora inespresse. Una geografia composta su utopie di giustizia sociale: non più la sintesi di calcoli esatti, ma strumento per cogliere i desideri degli individui e le esigenze di intere comunità. Sarà l'empatia fra tutti gli esseri viventi e la natura a disegnare i paesaggi.
Serge saprà declinare lessici rinnovati, darà forma ai dubbi dell'infanzia e ai propri aneliti di libertà dopo aver incontrato Zoraide: nuove prospettive, sguardi che ricolorano lo sconcerto creato da eventi inconsueti. Zoraide è tutto e il contrario di tutto: è donna, zigana, attrice, indipendente; è l'avventura e l'altrove; è “fuori da ogni mappa sino ad allora disegnata o immaginata”: maga, sirena, sibilla... mistero e fantasia. L'inganno svelato da una malìa? Superstizioni o false certezze?
Vittorio Giacopini, sicuramente affascinato dagli aspetti meno noti della storia, offre ai lettori una concreta possibilità per scardinare quei pregiudizi che una spinta intellettuale, tanto statica quanto inamovibile, impone al nostro vivere di oggi: sapremo confrontarci con “l'inciampo dell'esperienza”, con “la ruvida resistenza delle cose”? É una sfida: se si “traduce in geometria ogni apparenza” ci si preclude la strada della conoscenza. Quando le mappe illustrano “una terra dove i fiumi non bagnano o dissetano e gli alberi frondosi non danno ombra” saranno sterili pezzi di carta. Serge aveva incontrato fin dalla gioventù quei “mappamondi di diversa proiezione”, ma soltanto dopo averli vissuti ne percepisce i significati. I “labirinti” e i “cammini tortuosi” svelano rebus o imbrogli; la ricerca comincia quando si frantuma la rigida trasparenza.

Chiara Gazzola



Pagine anarchiche/
Un giornale, un uomo, una città

La casa editrice Biblion ha ultimamente pubblicato due volumi sulla storia dell'anarchismo negli anni precedenti alla prima guerra mondiale. Nel fosco fin del secolo morente. L'anarchismo italiano nella crisi di fine secolo, uscito nel 2013, raccoglieva gli atti di un convegno tenuto a Carrara il 29 ottobre del 2011 e dedicato alla “riflessione su significati, interpretazioni storiografiche e ruolo svolto dal movimento anarchico nel periodo della lunga transizione politica e culturale dell'Italia verso il Novecento”, come scriveva nell'introduzione Giorgio Sacchetti. Il secondo volume è invece fresco di pubblicazione: si tratta di Pagine anarchiche. Pëtr Kropotkin e il mensile “Freedom” (1886-1914) (Milano, 2015, pp. 212, € 16,00) di Selva Varengo, già autrice diversi anni fa di un bel libro sul pensiero di Murray Bookchin pubblicato dalla Zero in Condotta. Pagine anarchiche, frutto della rielaborazione della sua tesi di dottorato, sembra ruotare intorno a tre “poli”. Il primo è Freedom, mensile pubblicato a Londra dal 1886 (ha chiuso solo all'inizio del 2014) che ospitò importanti dibattiti per il movimento libertario tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, raccogliendo i contributi di un gran numero di collaboratori di primo piano. Il secondo è senza dubbio Kropotkin, il quale svolge un ruolo fondamentale nella redazione del giornale dalla sua fondazione alla prima guerra mondiale, un periodo che corrisponde con il momento più fecondo della riflessione teorica dell'anarchico russo. L'ultimo “polo” costituisce in un certo senso lo scenario delle vicende trattate nel libro: Londra infatti è in quel momento il luogo dove si rifugiano i sovversivi di mezza Europa, qui vive una comunità anarchica vivace, numerosa, variegata, caratterizzata dall'essere una sorta di assemblea permanente, aperta anche in direzione degli Stati Uniti. Pagine anarchiche si compone di tre capitoli. Il primo è quello più propriamente storico, dedicato alla ricostruzione della nascita e dello sviluppo dell'anarchismo inglese con i suoi periodici, tra i quali spicca Freedom. Gli altri due capitoli delineano e analizzano il ricco dibattito teorico che si sviluppò sulle pagine del mensile, in cui un ruolo di primo piano era giocato senza dubbio dal pensiero di Kropotkin. Il secondo capitolo ricostruisce il momento critico della riflessione promossa dalla rivista: dalla discussione sul concetto di rivoluzione alla critica radicale del carcere, passando per la questione del sindacalismo. Il capitolo si chiude ripercorrendo il dibattito sulla violenza e sull'antimilitarismo, giungendo così a quello sulla guerra ospitato sulle pagine di Freedom nel 1914, momento in cui Kropotkin si allontanò definitivamente dalla redazione. L'ultimo capitolo si concentra invece sul momento propositivo. Vengono così ripercorse le diverse posizioni sull'individualismo, sul comunismo e sulla connessa questione della proprietà, sulla questione della libertà delle donne, sull'educazione e sulla morale. Il volume è completato da un'antologia composta da una decina di articoli pubblicati sul giornale e qui tradotti in italiano. Pagine anarchiche è insomma lo spaccato di un momento importante della storia dell'anarchismo inglese (ma non solo in realtà), la sua lettura porta ad immergersi nei dibattiti politici e culturali dell'epoca, mostrando una grandissima ricchezza di progetti ed ideali e permettendo di incontrare donne e uomini fondamentali nella storia del movimento libertario. Freedom appare insomma come un giornale in grado di farsi luogo fisico di confronto, aperto e plurale, una sorta di crogiolo esistenziale e politico che si relaziona con il movimento anarchico internazionale. Questo per quanto riguarda l'argomento trattato dal volume di Varengo. Ma Pagine anarchiche ha due ulteriori meriti. Da una parte la chiarezza espositiva, dovuta non soltanto allo stile di scrittura ma anche alla scelta dell'autrice di strutturare la narrazione in base ad una scansione tematica la quale, pur dando origine a qualche ripetizione, risulta complessivamente chiara ed efficace. Dall'altra, il libro ha il merito di far dialogare ricostruzione storica e piano delle idee, inserendo la vicenda e la riflessione promossa da Freedom all'interno del contesto di quei tormentati anni che precedettero la prima guerra mondiale.

David Bernardini



Pinelli a teatro/
Ovvero io non sono Stato

Il 7 gennaio 2015 è stato l'11 settembre della satira; a Milano il Teatro della Cooperativa cerca però di esorcizzare e anzi rilancia: ospita infatti Il Matto – Ovvero io non sono Stato, spettacolo dei Mercanti di Storie. Un monologo a nove voci scritto e interpretato da Massimiliano Lozzi che porta in scena, in salsa tragicomica e grottesca, la morte di Giuseppe Pinelli, il processo che ne seguì e, di riflesso, le morti di Stato che hanno seguito quella del ferroviere anarchico: Aldrovandi, Cucchi eccetera eccetera eccetera.
Lozzi si lascia ispirare da “Morte accidentale di un anarchico” per quel che riguarda la figura stessa del matto e per l'incedere dirompente dello spettacolo; nel ritmo del parlato e in certe battute sarcastiche, ma taglienti e profonde, c'è l'eco di Ascanio Celestini: Lozzi, come il narratore romano, riesce a far ridere il pubblico di una realtà tragica e incredibile, presentandola in una veste quasi carnevalesca: il meccanismo narrativo suggerisce una maggior consapevolezza di ciò che ci circonda; suggerisce, in definitiva, di indagare che cosa si nasconde dietro il riso. Il nostro, seppur convincente e con la stoffa del mattatore cucita addosso, non disdegna panni gigioneschi quando forza l'applauso, a volte anche sfoderando battute che poco o nulla hanno a che fare con la satira.
Il maggior merito dello spettacolo, che si conclude con un Cristo politico tornato sulla Terra per scuotere le masse dall'apatia in cui sono sprofondate da troppo tempo, è di aver smascherato i torti e gli errori dello Stato servendosi dello sberleffo e della realtà dei fatti e di aver accostato tutto questo all'innocenza di un uomo, di un anarchico: lo Stato ne esce male, malissimo nell'implicito confronto con chi non crede e non si riconosce in quest'ultimo.
Resta il ricordo di Giuseppe Pinelli che sale sul palco per testimoniare nel processo in cui si discute e si cerca in ogni modo di occultare la verità, quindi la giustizia, sulla sua morte. Resta il ricordo di Pino, della sua “Antologia di Spoon Rover”, di Licia, Silvia e Claudia e nel suono delle risate che si alzano dalla platea c'è il riverbero, discreto, di un pianto silenzioso.

Matteo Pedrazzini



Memoria dalla casa
del nulla

Il senso del libro è tutto lì, dichiarato senza mezzi termini nel sottotitolo: “Vademecum di resistenza” (Cos'è il carcere, Derive Approdi, Roma, 2015, pp. 128, € 12,00).
Rivolto a chi in carcere, per un motivo o per l'altro, è finito. Ma rivolto anche a chi, per un motivo o per l'altro, vi potrebbe entrare. E siccome, da quando qualcuno in carcere frequento e qualcosa del carcere conosco, sono sempre più convinta che riguardi i consumatori finali di una giustizia che è giustizia di classe, suggerisco di cominciare col chiederci da che parte stiamo (nel senso di classe, appunto). Per capire intanto se questo “manuale” potrebbe prima o poi tornarci utile. Se invece siamo sicuri di appartenere a quell'altra classe, quella che le leggi le fa, tranquillamente disponendo e pensando che “mai ci riguarderanno”, questo libro dovrebbe interessarci lo stesso. Per avere chiaro, senza far finta di non sapere, a cosa davvero condanniamo le persone quando le imprigioniamo nella “casa del nulla”. Che nel lessico dei prigionieri, apprendiamo, è il nome più in uso per indicare il carcere.
L'autore, Salvatore Ricciardi, ha fatto parte dell'Autonomia operaia e poi delle Brigate Rosse. Arrestato nel 1980, è stato condannato all'ergastolo. Oggi è in libertà. Ci racconta il carcere come solo chi viene da una lunga detenzione può fare. Rispondendo, posso immaginare, a un impulso ineludibile. E non per sputarne fuori da sé il ricordo. Perché dal carcere, e ce lo spiega bene, non si va mai via. Non si esce mai soprattutto da quella prigione che ci si porta dentro, anche dopo che se ne è usciti fuori (scusate il bisticcio delle parole...). Sempre ci torni in galera, spiega Ricciardi, “perché devi cercare qualcosa che hai lasciato lì dentro, qualcosa di molto importante per poter vivere fuori”. Qualcosa che si è perso nel tempo fermo, nel dolore, nel degrado, nella solitudine, nelle mutilazioni, nella violazione dei diritti, nel rumore della luce...
“Cos'è il carcere” ci precipita in tutto quello che del carcere è inimmaginabile. E Ricciardi lo narra con parole lucide, sempre sull'orlo dell'orrore. Sempre sull'orlo dell'assurdo, e ad ogni capoverso sembra tirare il fiato e chiedersi fra sé e sé: ma è possibile? Pur conoscendo bene la risposta.
Leggendo, ce lo chiediamo anche noi: ma è possibile? Eppure è proprio così. Da quando conosco qualcosa del carcere, non è l'alto numero dei suicidi a stupirmi. Perché se tutto spinge all'annullamento del sé, il suicidio è l'unica cosa che si possa liberamente fare senza riempire il modulo della “domandina”. A stupirmi è invece la forza di chi non diventa il fascicolo che la struttura vorrebbe, e attimo dopo attimo trova in sé le ragioni di vita, pur in un sistema che la vita tutta vuole negare. Questo vademecum, “preparando” all'impensabile, dà in qualche modo regole di resistenza.
Svelando anche l'ipocrisia di propositi come quello che di tanto in tanto si ascolta: “umanizziamo le pene”! Suona un po' come un ossimoro, “ti facciamo un po' meno male”, che fa appena, amaramente, sorridere... In filigrana, anche, attraverso lettere e richiami alle rivolte degli anni passati, il racconto di cosa nel tempo è cambiato, e cosa nel tempo è rimasto uguale. Dalle lotte collettive che si affacciano dalle cronache di un tempo, a quelle sommesse dell'oggi, al curvarsi sul proprio dolore, all'individuale sforzo per fare del proprio corpo territorio di resistenza. Termina, questo vademecum, con un piccolo vocabolario delle “parole dentro”. Una sorta di lessico familiare al carcere che, come tutti i linguaggi, è fondamentale luogo di coesione e di resistenza.
Memoria, dunque, dalla casa del nulla. Da leggere, pensando a uno spazio-tempo prigioniero, che rimanda anche alla prigione di percorsi spesso obbligati del prima e del dopo. Questo carcere, insomma, così funzionale alla società che abbiamo costruito. Per chiederci ancora: ma come è possibile?
Ma forse la domanda più utile, che come scrive nella prefazione Erri De Luca, “come un mal di denti torna nelle pagine di questo libro”, è: a che serve? Domanda che ognuno di noi ha l'obbligo di porsi, per provare a trovare da sé la risposta. Che non è poi così difficile. Il carcere serve a tutto quello che potete immaginare possa negare quell'idea di recupero, di reinserimento che la Costituzione chiede. Perché è l'ultima cosa che a noi (fuori) importa, e sono lontani anni luce, dai politici dell'oggi, gli uomini che scrissero la Costituzione... altra storia, altra levatura, altro senso dell'Uomo. E, a proposito del senso di carcerazioni e dintorni, per un semplice motivo: molti, il carcere, l'avevano conosciuto.
In un articolo di Liberation sulla Svezia, ripreso da uno degli ultimi numeri di Internazionale, si parla di un efficace sistema di pene alternative, dove fra l'altro chi esce dal carcere non viene rigettato nel nulla, ma accolto da un programma di reinserimento. Lì, nel “paese delle carceri vuote”, in un momento in cui alcune voci chiedono un inasprimento di pene, il criminologo Henri Tham ha dimostrato con un suo studio che il sistema giudiziario svedese non è affatto lassista, come crede una parte dell'opinione pubblica. La maggioranza delle persone intervistate alle quali ha chiesto di mettersi nei panni dei giudici, e pronunciare una condanna dopo aver seguito un processo, “non solo hanno scelto pene meno severe di quelle realmente stabilite dai giudici, ma spesso ne hanno criticato la severità”.
A proposito di conoscenza e immedesimazione...
Ben venga, questo libro, a lanciare un macigno contro il muro della nostra colpevole ignorante indifferenza. E ad affiancare il pensiero di chi, dati alla mano sul fallimento del carcere “persino” come “garanzia della nostra sicurezza”, con lucidità cerca percorsi di giustizia dove la pena abbia un senso altro dalla punizione fisica e mentale che è la costante dell'attuale sistema, dove tutto tende ad annullare l'individuo, chiudendolo al mondo, rendendolo cosa, rendendolo nulla. Perché tutto rimanga fermo, nella società, così com'è.
Intanto, vademecum alla mano, si attrezzi chi può...

Francesca de Carolis



Dal Valdarno alla Siberia
(senza ritorno)

Esce, a distanza di ventitré anni dalla prima edizione, notevolmente arricchita di testimonianze e documenti, una nuova biografia dedicata all'anarchico toscano (Giorgio Sacchetti, Otello Gaggi. Vittima del fascismo e dello stalinismo, BFS, Pisa, 2015, nuova edizione riveduta e aumentata, pp. 104, 12,00). Ne pubblichiamo una breve scheda editoriale curata dall'autore.

Otello Gaggi (1896-1945) è un operaio della ferriera di San Giovanni Valdarno che, per sfuggire alle persecuzioni fasciste e ad una condanna a 30 anni inflittagli dal tribunale, ripara in modo avventuroso in Russia. Qui però è arrestato nel dicembre 1934 e inviato, in quanto “controrivoluzionario”, nel Gulag, luogo nel quale troverà la morte dopo anni di sofferenze. Dalla natia Toscana all'Ucraina, da Mosca al Kazakistan, alla Siberia: la narrazione – utilizzando fonti epistolari familiari e carte degli archivi sovietici – si dipana in un viaggio lungo quasi un quarto di secolo ed esteso a due continenti. “Parto per ignoti lidi...” scriveva l'esule valdarnese alla sorella nel 1930. C'è, a tutta prima, una dimensione psicologica di quel suo peregrinare angosciato nell'universo concentrazionario del comunismo. E sono le pagine stesse di questo agile volume a raccontarci gli orizzonti mentali e le speranze che muovono il protagonista. La sua è una generazione di braccati e di perseguitati, che ha visto la “grande Storia” irrompere con violenza nell'intimo della propria vita. Così al trauma dell'esperienza in trincea e alle conseguenze tragiche della guerra europea, si sono sommate quelle dei totalitarismi novecenteschi. La sua vicenda individuale, divenuta caso internazionale, lascia qui spazio per un'attenzione all'immaginario, alle motivazioni ideologiche delle sue fughe, alle speranze fideistiche nella Russia bolscevica, nonché alla sua disillusione ed al desiderio incontenibile di tornare in Italia. Aspirazione che si manifesta con un palese rifiuto della cittadinanza sovietica che pagherà molto caro.
Il protagonista diventa il “bersaglio” di un regime di terrore che, nella sequenza parossistica ben analizzata da Hannah Arendt, colpisce insieme ai nemici reali, quelli ritenuti potenziali, oggettivi, e poi gli “autori di delitti possibili”, non risparmiando la cerchia degli amici, dei seguaci e neppure gli “innocenti cittadini senza opinioni”. Queste pagine costituiscono il punto di arrivo sia dei contributi di testimonianza sedimentatisi a partire dal secondo dopoguerra attraverso l'impegno encomiabile dei piccoli gruppi della sinistra dissidente, sia dell'impegno preso dai promotori di questa contro-memoria operaia nel lontano 1992: “restituire l'onore politico e morale a Otello Gaggi, antimilitarista e disertore nella guerra mondiale, antifascista ed esule, ribelle e dissidente perseguitato dalla alleanza oggettiva di OVRA e OGPU”.
Operaio assassinato da uno Stato sedicente proletario: crimine tra milioni di crimini, la sua vita generosa commuove e suscita simpatie. La ribellione di Gaggi, esule antifascista e ormai “quasi” cittadino sovietico, finisce nei sotterranei della Lubianka. La sua è rabbia dell'amante tradito, ripulsa di un “comunismo” che gli appare nelle vesti del poliziotto inquisitore e non dissimile da quel fascismo che ha sperimentato sulla sua pelle all'epoca dei violenti prodromi in Italia.
Questa ricerca, condotta sulla base di una documentazione nuova e del tutto inedita, esce oggi in forma bibliograficamente aggiornata e con ulteriori importanti contributi. Così il profilo già tracciato, anche psicologico, della vita di un uomo libero, vissuta da oppositore strenuo dei fascismi di ogni colore, si delinea con ulteriore nitidezza. Le testimonianze della famiglia hanno consentito il disvelamento di uno scrigno di ricordi gelosamente conservati, hanno permesso di illuminare a pieno preziose informazioni sulla sua personalità, sulla famiglia d'origine e su quella che si era formata in URSS.
Il volume è anche una documentata denuncia contro le omertà, i silenzi e le connivenze del partito togliattiano individuando in particolare le gravi e precise responsabilità di due importanti personaggi come Antonio Roasio e Dina Ermini (alias Miranda Boffa), funzionaria del Komintern e compaesana del Gaggi, definita dall'autore “prototipo della dirigente comunista senza scrupoli”. Sì perché, rientrati in Italia, i persecutori si dimenticano delle vittime.
Non risponde Togliatti “ministro del governo antifascista” ad una lettera circostanziata di Victor Serge nel 1944. Non rispondono gli altri.
Roasio, intervistato da Miriam Mafai, esprime dalle pagine di “Repubblica” (27 ottobre 1982) tutto il suo rimorso e fa una tardiva pubblica ammissione dei suoi errori e delle sue complicità, che però passa quasi inosservata: “[...] La nostra colpa è di averli abbandonati, pur sapendo che erano innocenti. La nostra colpa è di non essere intervenuti dopo, nel 1945. Molti di loro erano ancora vivi, nei campi di concentramento”.
Queste pagine sono il risultato di una ricerca collettiva in progress, condotta con metodo scientifico ma soprattutto guidata da passione civile.
Richieste a: info_bfsedizioni@bfs.it, tel. +39 050 9711432.

Giorgio Sacchetti



Le persone bambine:
da ascoltare

Alla scuola de L'albero delle farfalle. I mondi della porta accanto (Edizioni Piagge, Firenze, 2014, pp. 64, € 11,00) si parla di cose da grandi. In questa scuola speciale popolata da farfalle aquilone danzanti trasportate da papà vento, e da “persone bambine” viaggiatrici con la mente, la realtà infarcita da pregiudizi e stereotipi irrompe a pungolare i pensieri di grandi e piccini.
Il libro di Giovanna Panigadi, nato dalla sua esperienza di insegnante in una scuola pubblica dell'infanzia in provincia di Reggio Emilia, propone un percorso corale di esplorazione dei mondi invisibili “della porta accanto”. Lo sguardo sul mondo è diretto, senza panegirici né macchinose costruzioni fantastiche. Così si scopre che il lupo non è cattivo, se ti vede non ti assale, anzi, ti guarda e scappa! Come è successo davvero di recente sulle colline di Montecavolo, Quattro Castella, Vezzano e Salvarano. All' “Albero delle farfalle” si impara a discutere dei fatti della vita, in un'assemblea “che è quella cosa che fanno tutti insieme, al mattino, su dei sedioloni grossi e tutti uniti che chiamano gradoni”. Si impara a conoscere che quelli chiamati “zingari” non rubano i bambini. Si impara che il mondo è fatto di tante diversità. Si scopre che a volte le persone adulte dovrebbero ascoltare di più le persone bambine, e lasciarsi pizzicare per non sprofondare nel torpore dell'indifferenza.-
Alla scuola dell' “Albero” si assapora la curiosità, si impara a non rassegnarsi, a non diventare impassibili alle ingiustizie.
Ricco di illustrazioni, ben curato nella grafica di Cecilia Stefani, il piccolo libro agile e profondo accompagna nel viaggio entusiasmante verso la bellezza della conoscenza, e sa rendersi utile guida esploratrice di altri mondi possibili. Si tratta della prima opera illustrata pubblicata nella Collana “Pungoli” dalle Edizioni Piagge, nate all'interno della Comunità delle Piagge. Come sottolinea Romano Giuffrida nella presentazione, la scelta è proprio in sintonia con la precisa intenzionalità dichiarata dalla stessa casa editrice: “Creare cultura significa per noi raccontare esperienze di vita e di pensiero, nate all'interno della comunità o in qualunque altra realtà del mondo, con l'obiettivo di far emergere un nuovo modo di intendere le relazioni tra persone, i rapporti fra i cittadini e la città, l'economia, le dinamiche sociali di partecipazione e di esclusione”.
Giuffrida valorizza altresì il lavoro appassionato di ricerca dell'autrice poiché instilla “la curiosità di non fermarsi a ciò che viene dato come indiscutibile, proponendo un proprio atto di impegno e di amore che lanci gli sguardi oltre il muro dell'ovvietà omologata e immobile”.

Claudia Piccinelli



Per una storia
dell'anarchismo italiano

Per la casa editrice Elèuthera è stato recentemente pubblicato il volume di Antonio Senta Utopia e azione. Per una storia dell'anarchismo in Italia (1848-1984) di cui pubblichiamo la prefazione di Claudio Venza.

Antonio Senta, ricercatore all'Università di Trieste, si è assunto l'arduo compito di disegnare un profilo storico dell'anarchismo italiano. È senz'altro un impegno affascinante e difficile. L'attrazione deriva dalla molteplicità di aspetti di questo movimento e del suo pensiero sviluppatisi in circa centocinquant'anni di storia del “Belpaese”. La complessità del tema ha finora bloccato i tentativi di scrivere una sintesi soddisfacente come quella presente.
Si tratta infatti di un movimento per più aspetti molto originale. Una delle sue particolari caratteristiche si può trovare nella capacità di far convivere, quasi sempre, tendenze tra loro assai diversificate e perfino conflittuali. È frequente incontrare la coesistenza di anime e ispirazioni divergenti all'interno del variegato universo libertario: dal comunismo all'individualismo, dal sindacalismo al pacifismo, dall'antimilitarismo all'educazionismo. In certi casi si riscontra una convergenza di sostenitori di opposte visioni della questione organizzativa: gli antiorganizzatori, diffidenti verso ogni struttura stabile interpretata quale anticamera della burocrazia e del centralismo, si possono ritrovare a fianco dei loro compagni antagonisti di fronte alle emergenze repressive o alle prospettive di possibili sfide rivoluzionarie.
La lettura attenta di queste pagine potrà verificare che l'affresco complessivo è ben articolato con la necessaria attenzione dedicata alle diverse tendenze antiautoritarie mentre l'efficace contestualizzazione permette al lettore, anche non specialista, di entrare in un mondo pieno di sorprese. Alle spalle di ogni ottica libertaria, pur se ipercritica, si intravede l'esistenza di una visione del mondo che ha, nel rifiuto di un'ideologia rigida, una grande vivacità e spesso delle intuizioni per così dire “profetiche”. Tuttavia il libro è uno spezzato della storia effettiva del movimento più che una presentazione del dibattito teorico.
Da recenti studi analitici, come l'indispensabile Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani, risulta che tra i militanti storici sono in netta prevalenza i lavoratori salariati e, in seconda fila, quelli autonomi. In diversi casi si tratta di agitatori sindacali talvolta con responsabilità organizzative in strutture diverse da quelle controllate dai socialisti. Dai cavatori e minatori di Carrara e del Valdarno ai portuali di Livorno e di Ancona, dai tipografi di Milano ai muratori di Firenze e di Roma, il ventaglio del popolo libertario comprende categorie produttive che appartengono a pieno titolo al movimento operaio e proletario.

Piombino (Li), Camera del Lavoro, anni Venti
Foto di gruppo dell'Unione Sindacale Italiana
L'aspirazione alla libertà

La storia dell'anarchismo italiano, saldamente legata a quella più ampia delle classi popolari e della loro autonomia dalle istituzioni (di cui le ricorrenti rivolte e insubordinazioni, esplose dall'Unità in poi, sono un fenomeno eclatante), non si potrebbe capire senza prendere in considerazione l'orizzonte teorico e i valori morali di riferimento. L'immaginario rivoluzionario dei libertari si ritrova nello sforzo di dare una prospettiva di liberazione totale, non solo dallo sfruttamento economico e dall'oppressione statale, ma da ogni forma di autoritarismo e di inganno del potere. O meglio dei molteplici poteri, talora in conflitto, ma considerati uniti nella ferrea logica del controllo e della manipolazione. L'aspirazione alla libertà integrale emerge quindi come una cifra specifica dell'arcipelago libertario che lo differenzia da altri movimenti rivendicativi, quelli di tipo marxista in primis, diretti alla conquista e gestione dello Stato. In ultima analisi la dimensione etica, come appare in molte pagine offerte da Senta, ha avuto un ruolo decisivo nella scelta, espressa da una parte non trascurabile degli oppressi, di aderire alla componente antiautoritaria. Tale componente del più ampio movimento di emancipazione, diversa nel tempo e con forza alterna, ha offerto ai ceti subalterni concrete proposte di azione e di lettura della società, per quanto provenienti da molteplici realtà individuali e collettive del mondo libertario.
La seduzione di un'analisi dell'anarchismo, in Italia come altrove, risiede nel fatto di non esaurirsi nella cruda realtà materiale, ma di rivelarsi sensibile alle attese e alle pulsioni morali che trapelano al di là delle lotte e delle mobilitazioni. Al tempo stesso, occorre ricordare che il movimento anarchico è stato un soggetto così poco catalogabile secondo i canoni tradizionali delle miopi accademie che sono rimaste interdette dalla scarsa consequenzialità tra le decisioni di congressi e convegni e la pratica quotidiana di gruppi e individui. Per questo carattere apparentemente dispersivo, l'anarchismo è stato trattato in modo schematico e insoddisfacente dalla storiografia italiana. Almeno fino a pochi anni fa.
Per decenni l'effervescente passato antiautoritario è stato considerato poco e male dalle principali scuole storiografiche fondate su pretese scientifiche. Così la forte corrente di studi elaborati con un'ottica marxista, che pure negli anni Settanta ha prodotto analisi interessanti e importanti, si è dedicata a offrire un'immagine stereotipata e distorta del movimento. Questo indirizzo ideologico, a tratti dominante nel panorama editoriale, ha inteso ridurne il peso nelle vicende italiane e lo ha collocato in un angolo oscuro, se non del tutto buio, della ricerca. Istituzioni dotate di non poche strutture e forze economiche, quali l'Istituto Gramsci, la rivista “Studi Storici” e gli Editori Riuniti, hanno sfornato decine di saggi e di volumi consacrati a valorizzare piuttosto la vittoria organizzativa e culturale, dalla Prima Internazionale in avanti, del socialismo moderato e poi del comunismo togliattiano su una galassia libertaria giudicata alquanto evanescente. Si ricordi, comunque, che questo clima di conformismo e appiattimento non ha impedito la pubblicazione di lavori pregevoli di alcuni storici marxisti seri, quali Franco Della Peruta ed Enzo Santarelli, che sono andati ben al di là delle comode stroncature ideologiche.

Milano, piazzale Loreto, circa 1946 - Foto ricordo di vecchi
antifascisti davanti al distributore di benzina dove erano stati
appesi il 29 aprile 1945 i cadaveri di Mussolini, Petacci e altri
esponenti del regime fascista. Nell'immagine commentata da
Armando Borghi per riconoscere le persone presenti, si legge:
“Mio cugino, Turroni, Io me. Fedeli. Gli altri non li conosco
di nome”. Fonte Archivio A. Borghi, Castel Bolognese
Giudizi superficiali

Negli anni Sessanta e Settanta, studiosi affermati nel mondo universitario, come Gian Mario Bravo e Aldo Romano, hanno rivelato pregiudizi e superficialità, quasi rispondendo a una disposizione dei vertici politici. In questo ambiente il modo di studiare l'anarchismo di ieri rivelava l'obiettivo di svuotare di ogni credibilità una tendenza storica che, in forme nuove, sembrava riproporsi sullo scenario politico e sociale. Il “trionfante” marxismo accademico post 1968, organizzato in efficienti reti di fiancheggiamento della politica culturale del PCI, era rafforzato da opere più divulgative e schematiche nelle quali la dimostrazione del fallimento libertario risultava inattaccabile. Così un film tecnicamente curato e avvincente, come San Michele aveva un gallo dei fratelli Taviani, apparso nei primi anni Settanta, rappresentava l'intento esplicito di ribadire il declino dell'internazionalismo libertario superato dalle nuove generazioni saldamente ancorate al socialismo scientifico. Il suicidio del protagonista che, dopo molti anni di carcere, incontra un gruppo di giovani decisamente marxisti è una scena pensata per disperdere equivoci e illusioni antiautoritarie presenti nelle agitazioni giovanili del periodo.
Su un piano assai simile, l'antropologo Carlo Tullio Altan sosteneva che l'anarchismo estremistico di piccoli gruppi dell'élite borghese e l'arretratezza sociale e culturale dell'Italia, dall'Unità in poi, sarebbero strettamente collegati e, citando Gian Mario Bravo, costituirebbero una pesante remora alla modernizzazione e allo sviluppo democratico. La complementarietà tra estremismo anarchizzante e l'ancestrale ritardo italiano sarebbe la chiave di lettura per spiegare anche l'Italia degli anni Settanta del Novecento in bilico tra uno sfondo anarcoide e un tentativo razionale di superamento dell'insostenibile arretratezza nazionale.

Presenze poco tollerate

Come mostra anche il libro di Senta, l'attiva presenza nei movimenti extraistituzionali e radicalizzati di organizzazioni e individui libertari risultava poco tollerabile per un grosso gruppo di pressione, quello comunista istituzionale nelle sue ramificazioni. Il PCI infatti, dopo decenni di involontaria opposizione, si accingeva a entrare in pieno nell'area governativa e voleva rimarcare i propri meriti nella difesa delle istituzioni concretizzata nella lotta al pericolo antiautoritario, passato e presente.
Da parte loro i tentativi di militanti libertari con intenzioni storiche avevano esemplificato la debolezza, sul piano delle analisi complessive, degli ambienti formati per lo più da autodidatti pieni di buona volontà e di motivazioni ideali. Fanno eccezione due casi tra loro molto diversi: Pier Carlo Masini e Gino Cerrito. Il primo aveva dato vita, dopo aver attraversato il contesto militante negli anni Cinquanta, a un'istituzione molto qualificata come la Biblioteca Max Nettlau; il secondo figurava, per molti anni, come l'unico docente anarchico dichiarato che lavorava all'interno dell'Università. Masini riuscì a pubblicare diversi volumi di notevole rilievo editoriale che partivano dalla Prima Internazionale per arrestarsi però ai primi anni del Novecento. Cerrito si impegnò specialmente nel promuovere qualificate ricerche tra i giovani storici che ruotavano attorno al suo insegnamento nell'ateneo fiorentino.
Per alcuni decenni dopo la ricostruzione postbellica il panorama degli studi storici non era certo confortante per le organizzazioni libertarie. Tuttavia risuonava il noto consiglio di Gaetano Salvemini: “Se gli anarchici non se ne curano, la storia la faranno i loro nemici”. Forse gli esempi migliori di impegno storico vicino all'universo libertario venivano dall'estero. Ad Amsterdam, dagli anni Trenta, era attivo l'International Institute of Social History che aveva già raccolto fondamentali archivi di organizzazioni, soprattutto spagnole, e di militanti di mezza Europa. A Losanna, il Centre International de Recherches Anarchistes, meno dotato di strutture ma più interno all'anarchismo, si rafforzava quale ente archivistico e promotore di nuovi studi mettendo a disposizione di giovani ricercatori sia strumenti di lavoro sia appoggi logistici.
A ben vedere, quanto qui scritto da Senta si colloca all'interno di una situazione molto più consistente e stimolante di tempo fa. Con questo testo egli apporta un valido contributo nel tracciare un convincente percorso conduttore, per quanto inevitabilmente incompleto, delle lunghe esperienze accumulate in circa un secolo e mezzo. Un criterio per identificare il filo, o meglio i fili, delle intense pagine che seguono può essere quello di seguire l'evoluzione di alcuni nodi tematici che si sono riproposti periodicamente con più o meno virulenza.
Ad esempio, fin dalla Prima Internazionale si è aperto un dibattito tra la tendenza di chi privilegiava la lotta frontale al sistema autoritario fondato su capitalismo e Stato, cioè l'azione diretta intesa nel modo più ampio e radicale, e chi spingeva piuttosto verso un'emancipazione educativa dotando gli sfruttati di conoscenze e di valori alternativi a quelli dei privilegiati. Sullo sfondo si può avvertire la persistenza di un sogno che permetta di coniugare ideali e pratica, principi e lotte: la coerenza tra mezzi e fini. L'etica prevedeva che l'anarchismo si distinguesse dagli altri “ismi” per questa preoccupazione che i politici di ogni colore, anche quelli di origini popolari, consideravano irreale e inopportuna. Anzi assai poco conveniente per il loro fine principale: impossessarsi delle leve di comando. Un ricco ventaglio di indirizzi operativi, dal sindacalismo rivoluzionario agli atti esemplari, giustizieri ad esempio, ha contrassegnato la prima tendenza che vedeva nella dura contesa con il dominio il senso principale dell'identità anarchica. La seconda corrente si è piuttosto riconosciuta nella lenta, quotidiana, graduale costruzione di una cultura antagonista attraverso la diffusione capillare della propaganda fino a giungere all'edificazione di apposite scuole, o non-scuole, antiautoritarie, oltre a diffondere una massa straordinaria di libri e opuscoli, riviste e giornali.
Molto spesso si è manifestato un altro confronto interno, legato al precedente, sul rapporto tra l'uso della forza materiale per opporsi alla violenza autoritaria e le conseguenze che tale atteggiamento comportava sul messaggio inviato ai propri interlocutori. Il modello violento di conflitto provocava condizionamenti e distorsioni del progetto di liberazione e rivoluzione globale e non solo economica e di classe. Il presente studio ci conferma che l'indirizzo pacifista tra gli anarchici è risultato comunque minoritario, spesso ritenuto troppo debole come risposta agli attacchi del potere costituito. In effetti questo contrasto rinvia alla questione, molto delicata e in qualche modo affine al tema violenza/non violenza, dei contenuti essenziali del movimento e dei singoli individui: si cerca la liberazione dell'intera umanità o ci si concentra sull'emancipazione delle classi oppresse? Da tale opzione derivano conseguenze determinanti nella pratica della lotta e nelle sue prospettive. Ad esempio, fino a che punto le proposte libertarie vanno in una direzione classista e quando, e come, entrano in gioco la sensibilità e l'apertura più ampia verso l'intero genere umano?
La polemica sull'organizzazione e sul significato ultimo del movimento si è riproposta ripetutamente a partire dal famoso “equivoco” della Prima Internazionale. Questa organizzazione era formata da una “minoranza agente” che avrebbe dovuto semplicemente accendere il fuoco della rivolta popolare, la quale si sarebbe poi sviluppata secondo forme spontanee? Oppure i militanti specifici, appunto gli internazionalisti che avevano dedicato la vita alla rivoluzione autentica, avrebbero dovuto controllare, anche con la forza, che la nuova società non riproducesse le vecchie gerarchie? Di tanto in tanto, perfino nei primi anni Settanta del Novecento, l'ipotesi iperorganizzativa si è riproposta con una piattaforma programmatica ripresa da Pëtr Aršinov, un pensatore e militante machhnovista che aveva riflettuto sulle ragioni della sconfitta del movimento in Russia, secondo lui caratterizzato da pluralismo eccessivo.
Anche la cruciale questione del ruolo femminile nel movimento in Italia è collegabile da un lato all'universalità del discorso antiautoritario e dall'altro alle esigenze, spesso urgenti, di raggiungere obiettivi concreti forzando i tempi storici. In sostanza, il problema di genere è stato oggetto di un'attenzione ridotta da parte dell'anarchismo italiano che solo negli anni Settanta ha conosciuto da vicino le opere “anarcofemministe” di Emma Goldman.

Venezia, Università IUAV, 26-29 settembre 1984 - Sezione
del convegno “Tendenze autoritarie e tensioni libertarie
nelle società contemporanee” con (da sinistra a destra):
Nico Berti, Amedeo Bertolo, Colin Ward, Murray Bookchin,
Rudolf De Jong, Ruben Prieto (in piedi)

A sua volta l'attività concreta, che spesso si è trovata a fare i conti con vere e proprie emergenze incombenti, ha fatto ricorso alla scorciatoia di una dirigenza, oltretutto non istituzionalizzata, che permetteva di prendere decisioni immediate e incisive. Ma il ruolo di questi “compagni influenti” non riproduceva, in forma subdola o plateale, quanto l'anarchismo criticava nelle altre organizzazioni fondate su delega e gerarchia? Su questo piano, Senta analizza il ruolo “dirigente” dei leader, indubbiamente esistenti in un secolo e mezzo di mobilitazioni e resistenze. Al di là di esplicite critiche alla personalizzazione delle tendenze politiche e delle agitazioni popolari, non si può negare che personalità quali Carlo Cafiero e Francesco Saverio Merlino, Pietro Gori e Luigi Fabbri, oppure Armando Borghi e Camillo Berneri, per non citare ovviamente Errico Malatesta, abbiano inciso in modo sostanziale, nei rispettivi periodi, sulle prese di posizione teoriche e pratiche.
Altre questioni hanno caratterizzato i tratti essenziali della corrente libertaria. Una riguarda proprio il rapporto con gli altri orientamenti che hanno assunto, e rappresentato parzialmente, il desiderio di libertà e uguaglianza sia pure diversamente coniugato e organizzato. Si tratta di riservarsi una completa autonomia e differenziazione da altri settori, in parte simili, per difendere un'identità continuamente in pericolo oppure merita tentare forme di intesa e collaborazione per compiere dei passi avanti sul cammino degli obiettivi parziali e temporanei ma promettenti per l'attività futura? A proposito delle alleanze, Senta ci ricorda che nel 1909, nel fuoco delle vaste proteste anticlericali, si creò una transitoria collaborazione con appartenenti alla massoneria, oltre che con fette di socialisti e molti repubblicani. Pochi anni dopo, nella Settimana Rossa del giugno 1914, si realizza un'insurrezione antimilitarista, soprattutto romagnola, in cui si ritrovano fianco a fianco gli alleati di pochi anni prima (meno i massoni). Cambiato tutto il contesto europeo, nell'esilio francese si stabiliscono dei robusti ponti con i liberalsocialisti di Giustizia e Libertà di Carlo Rosselli tra confronti teorici e intese operative.
L'analisi del passato dovrebbe fare i conti con le reciproche influenze che gli indirizzi, più o meno rivoluzionari, hanno avuto con l'ipotesi libertaria. Ad esempio, cos'è rimasto dopo la rottura con i socialisti nel 1892 della comune esperienza di opposizione alla borghesia e, non va dimenticato, alla Chiesa? Oppure, quanta attrazione verso l'invocata rivoluzione, che aveva trovato la realizzazione nell'Unione Sovietica, è sopravvissuta al crollo delle illusioni degli anni successivi al 1917?
Tutti questi, e molti altri, sono i punti che nel racconto di Senta appaiono e riappaiano a fasi alterne. Nelle sue pagine si può toccare con mano il succedersi fisiologico di periodi favorevoli (non molti) e sfavorevoli (frequenti) alla speranza e all'attività libertaria considerata dall'autorità e dai nemici un protagonista ormai defunto, ma sempre sorprendentemente risorto. Forse la constatazione di Carlo Cafiero secondo cui l'«utopia si è fatta storia» nella vita dell'anarchismo, si conferma nella resistenza testarda degli attivisti di fronte alle sconfitte e spesso alla clandestinità forzata. Non a caso uno degli ultimi fogli prima del consolidarsi della dittatura fascista mostrava il titolo esplicito di “Fede!”.
Se la repressione statale è stata indubbiamente una causa delle crisi del movimento, giunto quasi alla scomparsa nell'Italia fascista, altri fattori interni ed esterni, come le difficoltà di interpretare le trasformazioni economiche e sociali, hanno pesato nel corso del tempo. Un problema rilevante ancora da illuminare riguarda, a livello italiano ma anche mondiale, il drastico ridimensionamento verificatosi tra il primo e il secondo dopoguerra.
Lo studio qui presentato ci permette, fatto piuttosto raro, di entrare in modo sintetico nei meandri tormentati ed esaltanti di un movimento tuttora da scoprire in molti aspetti e che ripropone, al giorno d'oggi in forme e modalità diverse, propri valori di riferimento e proprie aspirazioni ideali.

Claudio Venza



Il potere senza dominio
nelle società senza stato

Qual è il significato del potere? E quello di debito e lavoro? Nel suo nuovo libro I senza Stato (Bebert edizioni, Bologna, 2015, pp. 107, € 10,00) Andrea Staid si occupa di dare una risposta a questi quesiti, proprio a partire dall'analisi antropologica delle società “senza Stato”, quelle che non sono state raggiunte dal fenomeno della formazione degli Stati nazionali e in cui non sono presenti gerarchie o gruppi dominanti detentori di potere politico, economico e sociale.
L'autore sottolinea come negli ultimi decenni sia possibile riscontrare un generale incremento del dissenso e un aumento di movimenti di resistenza che mettono in discussione e combattono apertamente le istituzioni politiche del mondo occidentale. Sono sempre di più le persone che non si riconoscono nelle decisioni e nelle azioni di governi e singoli governanti, e si fanno sempre più forti e decise le richieste di una maggior autogestione dei territori.
La loro resistenza, la loro lotta e le proposte alternative da loro avanzate mettono in discussione l'esistenza di un solo modo di “pensare la società”, le relazioni che operano al suo interno e i principi su cui si fonda. L'importanza della presenza di questi movimenti risiede nella loro capacità accessoria di sfatare il mito della naturalità dell'organizzazione sociale entro cui agiamo, la quale, lungi dall'essere espressione del migliore dei mondi possibili, altro non è che una sola delle possibili organizzazioni sociali che l'essere umano può scegliere di fondare.
La società gerarchica occidentale, basata sull'autorità e sul monopolio del potere da parte di alcuni membri della comunità, non è infatti né naturale né la sola possibile, ma frutto di una scelta ponderata tra diversi modelli ugualmente realizzabili.
Anche lo studio delle società altre ci permette di arrivare a questa conclusione, mettendo in discussione il determinismo con il quale solitamente si guarda alle nostre istituzioni politiche, economiche e sociali; e proprio le differenze riscontrabili tra diverse organizzazioni sociali ci permettono di dare vita ad un'analisi sul significato del potere e sulle sue possibili coniugazioni. Come afferma l'autore: “Studiare, capire la gestione del potere nelle società senza Stato può essere una possibilità per comprendere meglio la crisi dello spazio politico contemporaneo e uno spunto per combattere il dominio e lo sfruttamento sempre più presenti nella nostra società”. Sarebbe proprio questo il compito dell'antropologia: osservare l'altro per capire meglio noi stessi.
E proprio volgendo lo sguardo altrove, notiamo che non in tutte le società sono presenti gerarchie, potentati o maggioranze legiferanti; esistono comunità in cui è riscontrabile una diffusione di potere tra tutti i membri e nelle quali non è presente la “relazione di comando-obbedienza”. Quest'ultima, assolutamente vigente all'interno delle società occidentali moderne, è l'atomo del dominio, fondamento dell'autorità e delle gerarchie. Non è possibile ritrovarla tra le modalità di interazione possibili all'interno di una società senza Stato; al contrario, si tratta della relazione che più caratterizza le società stratificate e piramidali moderne.
Ma come possono, le società senza stato, mantenere l'ordine non avvalendosi di comandi e obbedienza? L'autore fa luce sui meccanismi interni a comunità non regolate da un potere statale, come quelle degli amerindi, spiegando in che modo la dinamica del consenso di tutti i membri consenta al gruppo di autoregolarsi, senza che siano necessarie imposizioni dall'alto. Esistono, all'interno di queste comunità, norme redatte e accettate da tutti i suoi membri; la mancanza di un'autorità legiferante livella di fatto le disuguaglianze, preservando la società dalla divisione tra decisori e pedissequi esecutori. In questo modo, l'obiettivo della regolazione della vita sociale è raggiunto senza il ricorso alla minaccia della violenza e alla coercizione.
L'autore dirige la propria analisi anche alla sfera del lavoro, evidenziando le differenze che intercorrono tra le attività umane dei membri delle società senza Stato e il lavoro salariato. Se le prime erano volte al soddisfacimento dei bisogni umani, il secondo è invece proteso verso il profitto. Alla mancanza di accumulazione che caratterizza le attività dei “primitivi”, come alla divisione del lavoro secondo capacità e possibilità fisiche, si contrappone una stratificazione sociale delle mansioni, presente nelle società occidentali moderne, generatrice di disuguaglianze. L'autore sottolinea come la “relazione comando-obbedienza” si manifesti maggiormente proprio nel campo del lavoro salariato, rivelandosi la primaria fonte di potere coercitivo.
L'ultimo capitolo del volumetto è poi dedicato alla mutazione del debito e al significato che quest'ultimo assume all'interno di una società senza Stato e di una società con lo Stato. L'autore ci rivela che il legame tra debito e dominio è molto forte; la prima ratifica di potere da parte di un élite è infatti l'imposizione e la relativa riscossione di tributi. All'interno delle società egualitarie, è il capo ad essere costantemente in debito con la propria comunità e mai il contrario; è il leader a dover “pagare” per potersi dire “capo” ed il dono spontaneo e non calcolato tra i membri della comunità è fondamento delle relazioni economiche e sociali basate sull'uguaglianza. Anche nel caso del debito, abbiamo un diverso significato a seconda che si guardi alle comunità caratterizzate da uguaglianza o da disuguaglianza interna.
Anche a fronte di quest'ultima distinzione, va precisato che l'obiettivo del volume non è quello di decretare un vincitore in una gara tra società giuste e meno giuste; al contrario si tratta di riuscire a capire meglio i meccanismi che regolano la nostra vita, avendo presente l'esistenza di altre modalità, di diverse possibilità.
L'analisi delle differenze fra i meccanismi di potere operanti in diverse società permette di vanificare la pretesa universalità delle nostre istituzioni politiche ed economico-sociali. Grazie all'osservazione di comunità altre, sappiamo non solo che esistono modalità diverse di vivere in comunità, ma che queste sono effettive ed efficaci e che governi e gerarchie sono solo alcune delle scelte possibili nel campo della vita in società.

Carlotta Pedrazzini



A proposito
di vita e di morte

Uno dei titoli più geniali che mi siano capitati sotto il naso. C'è una vita prima della morte? (Erickson, Trento, 2014, pp. 136, € 15,00) suona beffardo, con un fondo di tristezza neo-realista, ma quel punto interrogativo non è consolatorio, lascia aperta una speranza.
Il bello del libro di Miguel Benasayag e Riccardo Mazzeo è anche nella struttura del dialogo. Temi densi ma trattati con leggerezza. I rimandi a Spinoza si accompagnano alle storie dell'oggi. Colonna sonora consigliata per il sesto capitolo è Father and Son di Cat Stevens.
Si parte da come è cambiata in Occidente l'età anziana per passare ai giovani incatenati in un eterno presente, senza futuro (e i potenti glielo dicono pure) e senza passato (i Palazzi si vantano della loro ignoranza storica e vorrebbero renderla obbligatoria) nel mondo piallato dal neoliberismo. Ci vorrebbero far vivere nell'orribile «Tina» cioè «There Is No Alternative» della Thatcher, lady di ferro fuori e dentro di nebbia. Fortunatamente non è tutto deserto. Il conflitto r/esiste anche se i rapporti di forza appaiono in questa fase storica a favore del capitale. Rubando i versi a Nazim Hikmet: puoi spezzare la catena al tuo piede ma è più difficile liberarsi di quella – un mix di ignoranza, paura e pessimismo – che blocca il cervello.
Va in questo senso l'analisi dei due dialoganti (soprattutto nel capitolo 11) su come è cambiato il potere, sul «coltivare» la triste fantasia di massa «di essere liberi mentre siamo sempre più schiavi». Benasayag e Mazzeo non hanno dubbi sull'inesistenza e/o asservimento delle sinistre al pensiero unico ma anche sulla tragica assenza di una coscienza del limite, intendendo la non onnipotenza degli esseri umani che vivono dentro l'ecosistema, «misura di tutte le cose». Dentro un'attenzione costante di Mazzeo e Benasayag alla realtà dei rapporti di forza, delle classi e delle migrazioni (con scomode verità del tipo: la cosiddetta autonomia delle persone vecchie nel mondo «ricco» viene garantita dalla disponibilità di «schiavi» stranieri) non ho trovato altrettanto approfondimento sulle questioni di genere. Ma in un solo libro (di 130 pagine) forse non può esserci tutto. Di certo non ci sono le risposte... perché quelle dipendono da ognuna/o di noi e dal più grande «noi» che bisogna ricostruire nella prassi, nel pensiero, nell'organizzazione.
Anni fa avevo molto amato L'epoca delle passioni tristi» (che ora è disponibile in edizione economica, evviva) di Miguel Benasayag e Gerard Schmit. Anche lì – dentro un sostanziale accordo – avevo dubbi e minimi disaccordi. Rispetto a C'è una vita prima della morte? ho poche perplessità (e non perdo tempo a raccontarle) e una incazzatura. Eccola. Benasayag che è un uomo di sinistra – ex guerrigliero in Argentina – può ovviamente pensare tutto il male possibile di Fidel Castro o di Toni Negri; a me pare invece che non dovrebbe esprimersi così: «Fidel tradisce il Che consegnandolo agli americani». Quando è successo? Di quali prove dispone Benasayag per buttar lì un'affermazione così grave? Liberatomi di questa incazzatura, volentieri torno a lodare questo testo a 4 mani anzi a 2 voci. «È raro che un libro nasca da un dialogo» osserva Riccardo Mazzeo. Vero. E sarebbe bello se queste parole servissero a nuovi dialoghi, cioè fossero collettivamente discusse – come accade in certe biblioteche o in gruppi di lettura – rompendo il tabù dell'egocentrismo.
Ci sono libri che non andrebbero letti in solitudine. Secondo me «C'è una vita prima della morte?» è fra questi.

Daniele Barbieri



Prima del '68/
Le esperienze che hanno “fatto” il movimento

Il libro scritto da Pasquale Iuso (Gli anarchici nell'età repubblicana. Dalla Resistenza agli anni della Contestazione 1943-1968, BFS edizioni, Pisa, pp. 240, € 18,00) può essere letto su diversi piani, dal documentale strettamente storiografico al memorialistico, dal biografico al piano dell'analisi politica.
Di certo il libro rappresenta l'importante tentativo, pienamente riuscito, di fare il punto sullo stato delle ricerche pregresse e recenti in Italia sulla storia del movimento anarchico, dal secondo dopoguerra agli inizi del '68. L'opera di Pasquale Iuso sviluppa anche un proprio autonomo e specifico punto di vista sulle ragioni della perdurante crisi organizzativa del movimento, in quegli anni, in Italia. L'autore attribuisce a varie ragioni le difficoltà, che il movimento ha affrontato, della traduzione in pratica dell'idea, in un contesto radicalmente mutato rispetto all'epoca prefascista.
Iuso argomenta che le difficoltà consistono nel venir meno delle speranze nate dalla Resistenza, si accrescono con il progressivo irrigidimento politico determinatosi di seguito all'instaurarsi della guerra fredda tra blocchi contrapposti con la collocazione dell'Italia in uno dei due blocchi, si aggravano con la progressiva perdita di fiducia in se stesse delle minoranze popolari artefici della riscossa del Paese dal giogo nazifascista, si appesantiscono con la imponente egemonizzazione della vita politica e sindacale, a sinistra, da parte del PCI e della CGIL, e si complicano a causa del tormentato ed insoluto rapporto del movimento con l'attività sindacale. Inoltre, se ciò non bastasse, le diverse anime dell'anarchismo italiano, grossolanamente riassumibili in una corrente legata in maniera fideistica all'autosufficienza dell'idea, (della quale esponente carismatica fu la coraggiosa e lungimirante Giovanna Caleffi Berneri) ed in un'altra, tentata da forti esigenze di svecchiamento dell'anarchismo e di integrazione con il movimento operaio e con i raggruppamenti e partiti di estrema sinistra e di sinistra marxista- libertaria, confliggono continuativamente tra di loro. Per tutto il periodo considerato, le due principali posizioni ideologiche, articolate in realtà molto complesse, non riescono ad integrarsi e pervengono, tra Convegni e Congressi, a scissioni ed incomprensioni reciproche. Dell'autore del libro è tutto il merito di avere dipanato il filo logico-cronologico di queste vicende con obiettività e rigorosa aderenza alle fonti.
Attraverso un rigoroso lavoro di scavo nella documentazione dell'epoca, mediante l'esibizione delle risultanze storiografiche alle quali sono pervenuti gli autori che lo hanno preceduto nella storia del movimento anarchico italiano, Pasquale Iuso perviene a fornire un quadro circostanziato delle vicende del periodo considerato.
Sulle strada intrapresa dal compianto Gino Cerrito con il suo “Il ruolo dell'Organizzazione anarchica”, pietra miliare in questo genere di studi, percorsa da Adriana Dadà, da Paola Feri, da Italino Rossi e Giorgio Sacchetti, tutti con diversa sensibilità e vivacità storiografica, l'autore ha scritto circa 240 pagine difficili ma esaustive, traendo dall'oblio vicende essenziali per la storia dell'anarchismo novecentesco in Italia.
Si comprende la complessità e la completezza con la quale l'autore ha trattato il periodo, senza nulla e nessuno dei protagonisti escludere dalla narrazione, anche solo leggendo le descrizioni di alcuni dei momenti fondamentali che “fanno” il movimento, prima del '68, come la Rivista Volontà, i campeggi anarchici, l'esperienza dei GAAP, la solidarietà alla Spagna antifranchista, la scissione del '65, la nascita dei GAF, dal cui fervore innovativo sarebbe nata la Rivista “A”, e dei GIA.
Sono esaminate le singole prese di posizione dei compagni che hanno animato quegli anni e che hanno cercato, secondo diversi punti di vista, l'organizzazione antiautoritaria migliore.
Di ciascuno dei militanti, sia compagni conosciutissimi, come, soltanto per citarne alcuni, Armando Borghi, Pier Carlo Masini, Umberto Marzocchi, Luigi Carlizza, Ugo Scattoni, Virgilio Galassi, Aurelio Chessa, Mario Mantovani, Antonio Ruju, Alfonso Failla, Ugo Fedeli, sia meno conosciuti o sconosciuti alle generazioni successive, si riscontra nelle pagine del libro la presenza reale.
Aspetto, questo, assolutamente essenziale di un libro che tratta di un movimento dove ciascun militante esprime la propria personalità e la propria libertà di pensiero. In definitiva un libro nel quale si respira l'aria di famiglia.

Enrico Calandri

Del volume di Pasquale Iuso Gli anarchici nell'età repubblicana. Dalla Resistenza agli anni della Contestazione 1943-1968 abbiamo pubblicato l'introduzione in “A” 391 (estate 2014).



Addio Lugano bella/
Anarchia tra storia e arte

“Au temps de l'Anarchie, l'age d'or n'est pas dans le passé, il est dans l'avenir”: questo il titolo originale che Paul Signac, anarchico e componente del gruppo dei neo-impressionisti diede originariamente alla sua opera forse più rappresentativa realizzata nel 1895 - poi ribattezzata più prudentemente “Au temps d'harmonie” - nel corso dei suoi soggiorni insieme agli altri esponenti della sua corrente nei pressi di Saint Tropez. La visione di un futuro liberato dallo sfruttamento, un tempo di armonia in cui coltivare le arti e godere del tempo libero, l'utopia anarchica di una società futura fu la base del programma pittorico neo-impressionista.
Come ci ricorda Aurora Scotti Tosini nel suo bel saggio “Intrecci di arte e anarchia”, presente nel ricco catalogo della mostra, “Elisée Reclus ritrovava nei villaggi della Francia meridionale le tracce di un tempo in cui dominava l'armonia e quindi i valori che il pensiero anarchico pensava di far rivivere”.
Fortemente influenzati dalle teorie di Petr Kropotkin e dallo stesso Reclus i neo-impressionisti furono uno dei gruppi più coerentemente orientati in modo anarchico, affiancati anche dal vecchio nume tutelare di Camille Pissarro, fervente kropotkiniano ed amico di Jean Grave, che per un periodo, soprattutto per affinità ideale, si staccò dagli impressionisti.
Forse Pissarro può essere considerato l'archetipo dell'artista anarchico nella sua accezione più alta ed anche il più coerente e longevo degli impressionisti. Inizia la sua carriera con influenze realiste, sopratutto nel suo soggiorno in Venezuela, e sin dall'inizio si interessa del mondo degli esclusi e degli oppressi. Nato nelle Antille proseguirà gli studi in Francia dove si stabilirà poi definitivamente tranne che nel periodo della guerra Franco-Prussiana quando emigra provvisoriamente in Inghilterra. Espone sin dai primi tempi con gli impressionisti e diventa il cuore anarchico ed il legante del gruppo composto da artisti di vario orientamento politico e provenienza sociale, in qualche modo il vecchio saggio a cui rivolgersi per un consiglio o un supporto materiale in qualsiasi momento. È anarchico il connotato fondamentale del gruppo impressionista: la creazione di un'insieme di individui, legati da un progetto comune di affinità artistica e contemporaneamente storie individuali che prenderanno nel tempo vie diverse, senza la presenza di leader o una struttura gerarchica definita. Progetto che Pissarro difenderà sino all'ultimo, anche dopo lo scioglimento degli Impressionisti. Trasmetterà le tecniche e le idee impressioniste anche a Van Gogh al suo arrivo a Parigi e seguirà il percorso pittorico di Gauguin, da buon anarchico non trasmettendo ricette ma aiutando i due artisti ad esprimere la propria individualità. Anche spesso con grandi delusioni, come l'allontanamento di Gauguin, suo discepolo preferito, dal realismo per approdare al simbolismo ed allo spiritualismo, molto in voga all'epoca. Sarà l'unico amico di tutta una vita del solitario Paul Cezanne con il quale scambierà sino all'ultimo esperienze e tecniche e spesso anche il pennello sullo stesso quadro. Crederà di vedere rivivere le sue idee nel movimento neo-impressionista, politicamente orientato in senso anarchico, ma alla fine si allontanerà anche da questo, troppo scientifico ed in qualche modo accademico per i suoi gusti. Darà, tutta la vita, collaborando con tutti e contemporaneamente mantenendo la sua precisa individualità.
Nell'esposizione compaiono alcune delle sue opere più rappresentative, tra le quali notevoli le incisioni per le “Turpitudes sociales”, per educare le nipotine Esther ed Alice agli orrori della moderna società capitalista. Forse Pissarro mantenne nella sfera privata queste sue incisioni che davano un netto segno delle sue idee anarchiche anche per evitare denunce e ritorsioni delle quali era stato oggetto più volte insieme ai suoi figli in quanto anarchico prima e poi ebreo in una delle tante epoche di montante anti-semitismo ricorrenti in Francia. È sporadico l'impegno politico diretto nelle opere di Pissarro, così come negli altri esponenti impressionisti e neo-impressionisti che spesso, chiamati ad illustrare le riviste satiriche ed anarchiche, oppongono la motivazione che l'arte non debba essere strumento di pura propaganda, ma essere un mezzo di liberazione in sé e ricerca di armonia. Pissarro spesso rifiuta di produrre tavole illustrative anche all'amico Jean Grave che lo sollecita per la sua rivista militante La Révolte.
Ma la nascita organica di un forte rapporto tra l'arte ed il pensiero anarchico nasce nel fecondo rapporto tra Goustave Courbet, l'artista ribelle autodidatta, capostipite del Realismo in pittura ed il filosofo anarchico Pierre-Joseph Proudhon. Entusiasta delle prime opere realiste di Courbet, in primis “Gli spaccapietre” del 1849, Proudhon si propone di scrivere un breve pamphlet sul lavoro dell'artista che finirà per coinvolgerlo per diversi anni sino a divenire un tomo di quasi cinquecento pagine e finire per essere editato, quasi completato, solo pochi mesi dopo la sua morte nel 1865 con il titolo “Du principe de l'art et de sa destination sociale”. In quest'opera Proudhon sostanzialmente sostiene che l'opera d'arte debba essere strumento di denuncia sociale e possa collaborare alla costruzione di una nuova società più libera. Abolire ogni accademia e descrivere la società in cui si vive con uno schietto realismo e senza preconcetti idealistici o classici sarà l'intento di Courbet e degli artisti che aderiranno al movimento. Courbet parteciperà attivamente ai moti che culmineranno nella Comune di Parigi durante la quale sarà il responsabile della politica artistica, ruolo che gli procurerà in seguito il carcere e poi l'esilio.
Di questa amicizia la mostra di Mendrisio ci da un'ottima testimonianza nel ritratto di Proudhon eseguito da Courbet nel 1865 a poca distanza della morte del filosofo.
Dal realismo in poi i legami tra il mondo dell'arte e le teorie e le pratiche anarchiche non verranno mai meno ed arrivano sino ad oggi con alterne fortune ed attraverso mille rivoli che in maniera carsica scompaiono improvvisamente per riapparire nei modi più insospettati.
Mi piace ricordare che il tentativo di ricostruire questi profondi ed intricati rapporti tra il pensiero anarchico e il mondo dell'arte nasce verso la fine degli anni Settanta grazie ad alcuni compagni tra i quali vorrei ricordare almeno Fabio Santin, Dario Bernardi e il sottoscritto. Il nostro interesse poi sfociò nell'allestimento della mostra “Arte e Anarchia” in occasione del Convegno internazionale del settembre del 1984 a Venezia promosso dal Centro Pinelli, tempi in cui accostare i due mondi sembrava un'opera velleitaria e di mera propaganda che lasciava perplessi molti militanti. Ricordo i contributi importanti di Arturo Schwarz e di Pietro Ferrua a quell'esposizione ed in seguito anche di Enrico Baj.
La Mostra di Mendrisio e quella di Lecco in questo panorama sono una bella sorpresa. Mi aspettavo qualcosa di più sotto-tono o una presentazione folkloristica della presenza anarchica, come spesso succede, sono invece rimasto piacevolmente sorpreso dalla quantità e dalla qualità delle opere esposte e dal rigore dell'esposizione e delle ricerche storiche testimoniate in un catalogo, assolutamente necessario per chiunque si interessi dell'argomento, a cura di un comitato scientifico di grande qualità composto da: Aurora Scotti, Chiara Gatti, Maurizio Antonioli, Maurizio Binaghi e Simone Soldini. Della imparzialità storica dà fede la presenza nel gruppo dei curatori di Maurizio Antonioli, storico dell'anarchismo, e di Gianluigi Bellei, artista e storico dell'arte, nonchè nostro collaboratore, che ha curato le schede delle opere del catalogo.
Non mi soffermo sui dettagli espositivi e le informazioni sulle mostre e gli eventi collegati e vi rimando all'efficace comunicato stampa di Chiara Besana che abbiamo pubblicato sul numero precedente della rivista.
Solo alcune considerazioni sulla struttura dell'evento. La “Addio Lugano bella. Anarchia fra arte e storia” è legata all'iniziativa «Viavai. Contrabbando culturale Svizzera-Lombardia» promossa dalla Fondazione svizzera per la cultura Pro Helvetia, il Dicastero Museo e Cultura di Mendrisio è allestita contemporaneamente, fra Italia e Svizzera, in due spazi prestigiosi: il Museo d'arte di Mendrisio e il Palazzo delle Paure di Lecco.
Il percorso espositivo nella sede di Mendrisio si articola in tredici sezioni: i simboli dell'anarchia, la Comune parigina, città e campagna, lavoro e miseria, la figura emblematica del vagabondo, sciopero rivolta e repressione, la lotta contro i poteri, satira e denuncia, l'utopia di una nuova società, giusta e armoniosa.
La mostra si racchiude temporalmente tra gli ultimi trent'anni dell'Ottocento e il primo ventennio del Novecento: dal soggiorno di Bakunin a Locarno e Lugano all'insediamento della Comunità naturista del Monte Verità nei primi anni del secolo scorso e da testimonianza della presenza nel Ticino di grandi personalità dell'Anarchia quali Michel Bakunin, Elisée Reclus, Carlo Cafiero, Andrea Costa, Errico Malatesta, Pietro Gori, Luigi Fabbri, Eric Mühsam, Raphael Friedeberg, Max Nettlau e tanti altri.
Una serie di capolavori dell'arte, fra verismo e avanguardie storiche, accompagna lo spettatore attraverso i temi scelti. Un centinaio di opere – dipinti, sculture e grafiche – provenienti da istituti e collezionisti italiani svizzeri e francesi, tra cui spiccano il “Ritratto di Proudhon” di Gustave Courbet dal Musée d'Orsay di Parigi, la “Louise Michel sur les barricades” di Théophile Alexandre Steinlen dal Musée du Petit Palais di Ginevra, i grandi studi preparatori per “Il quarto Stato” di Giuseppe Pellizza da Volpedo in arrivo dalle collezioni piemontesi, il capolavoro di Angelo Morbelli “Per ottanta centesimi!” dal Museo Borgogna di Vercelli, il celebre “Bagno Penale a Portoferraio” di Telemaco Signorini dalle raccolte di Palazzo Pitti a Firenze, oltre a “L'oratore dello sciopero” di Emilio Longoni, e una sequenza di opere grafiche straordinarie dei maestri francesi del puntinismo, da Seurat a Vallotton, da Pissarro a Signac. La mostra è corredata da un ricchissimo materiale storico: lettere, documenti, libri, foto, filmati, in dialogo continuo con la parte artistica.
All'affascinante capitolo della denuncia e della satira, attraverso una miriade di pubblicazioni, è interamente dedicata la mostra in programma al Palazzo delle Paure di Lecco. Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, in tutta Europa si conosce infatti una grandiosa fioritura di giornali e riviste, mezzi di diffusione per eccellenza delle idee anarchiche. Il disegno di denuncia e di satira diviene così una formidabile arma di lotta nelle mani di grandi illustratori come Vallotton, Steinlen, Kupka, Grandjuan, Jossot, Scalarini, Galantara, de Camara, Masereel, Schrimpf, che pubblicano i loro disegni su testate divenute leggendarie: Le Père Peinard, l'Assiette au beurre, La Feuille, La Sciarpa nera, L'Asino, Mother Earth, Die Aktion, Die freie Strasse.
L'unico punto un po' fragile dell'esposizione è l'ultima parte dedicata al movimento Dada ed a Monte Verità che richiederebbero un'esposizione ben più ampia ed una riflessione approfondita sui i loro legami con le idee anarchiche. Per Monte Verità quasi tutto è stato detto dalla grande mostra realizzata a suo tempo dall'anarchico Harald Szeeman di cui rimane un accurato catalogo.
La qualità e la quantità del materiale che emergeva nel corso dell'allestimento ha sorpreso anche alcuni dei curatori della mostra, ma i legami accertati tra il pensiero anarchico e il mondo dell'arte, per lungo tempo trascurati, sono solo la punta di un iceberg di una relazione profonda ancora attualmente operante. Il lavoro rimane aperto.
Per finire ricordo le date espositive nelle due sedi:
Addio Lugano bella. Anarchia tra storia e arte. Da Bakunin al Monte Verità, da Courbet ai dada Mendrisio, Museo d'arte, 22 marzo-5 luglio 2015
Disegno e dinamite. Le riviste illustrate tra satira e denuncia Lecco, Palazzo delle Paure, 1 marzo-31 maggio 2015

Franco Bunc¨uga



Anche la sobrietà
ha i suoi effetti collaterali

Diario di un alcolista appassionato (Edizioni Senza Dimora, Torino, 2014, pp. 167, € 12,00). Mai casa editrice e collana hanno avuto nomi più appropriati: appartengono entrambe a Stefano Bruccoleri, che a cercarlo sul web (ma anche a conoscerlo dal vivo) è lo “scrittore senzatetto”, “il primo barbone tecnologico d'Italia”, il “blogger nomade” e tante altre definizioni ancora. Tutte parzialmente appropriate, perchè Stefano naturalmente è molto di più.
Dimenticatevi di Bukowski, dei poeti maledetti, delle atmosfere bohémien: il diario è un viaggio coraggioso e sincero lungo un mese in una struttura di recupero per alcolisti. Stefano racconta con tristezza ferocia e allegria il disagio e gli amori, i punti di vista e le amarezze di chi si trova, nel contesto di una vita in cui ciò che poteva andare storto lo ha fatto, a scegliere consapevolmente un percorso di redenzione - senza per questo farsi redimere.
Stefano esce dall'alcol con la determinazione di un equilibrista; sta sulla corda, vuole starci e ne è capace, però sa perfettamente che in ogni momento potrebbe cadere ancora.
Quel che è più chiaro, a fine lettura, è che su quella stessa corda stiamo noi tutti; eternamente sospesi tra sogni e concretezza ma spesso incapaci, nella nostra tranquillizzante normalità, di essere “appassionati” come lui. Perchè – ahimè – anche la sobrietà ha i suoi effetti collaterali... non sempre migliori di quelli provocati dall'alcol.
Nel diario non ci sono velleità moralizzatrici; l'autore scrive per se stesso, per solleticare il proprio narcisismo, per prendere le distanze dai problemi. Lo dichiara con una sincerità spiazzante, la stessa con cui nei due libri precedenti “L'allevatore di farfalle” e “Via della casa comunale n.1” raccontava del suo passato da eroinomane e del suo nomadismo tradotto in un viaggio di 27.000 km. Tutti rigorosamente in bicicletta.
Non so dire se, anche involontariamente, Stefano abbia aiutato qualche alcolista o meno; mi risulta che molti gli scrivano per confidargli che dopo aver letto il suo diario hanno iniziato a pensare che fosse ora di farla finita con l'alcol.
So però che questa storia e la sua vita in generale valgono la pena di essere incontrate, lette e ascoltate. Arrivano dritte come un pugno, capaci di scavalcare pregiudizi e indifferenza.
Capaci di appassionare, come il suo diario.
Se volete conoscere Stefano, andate a trovarlo nella sua nuova “Ciclofficina Letteraria” di Torino (via Musinè angolo via Corio). Lo troverete lì, temporaneamente stanziale, tra le sue biciclette i suoi libri e i suoi pezzetti di cielo.
Il libro è ordinabile agli indirizzi mail:
edera007@gmail.com - pecora.francesca@libero.it.

Claudia Ceretto