rivista anarchica
anno 45 n. 399
giugno 2015




Mille e mille volte

La notizia, in bella evidenza su La Repubblica online del 14 aprile, ha rubato la mia attenzione.
Io non ne volevo parlare, colpevolmente, per dimenticarmi che una vicenda come quella della Diaz sia successa in Italia. E non volevo parlarne perché non mi piace ragionare per categorie: se un poliziotto di 42 anni dice oggi che rifarebbe mille e mille volte quello che si è trovato a fare alla Diaz, questo qualifica – deve qualificare – solo lui, non una intera categoria, sebbene sia difficile – e spesso impossibile – mantenere comportamenti che si vorrebbero istituzionali su un piano personale.
Io non ne volevo parlare, per viltà, però eccomi qui che ne parlo, e mi chiedo come possa succedere che – con qualunque, per me inimmaginabile, spiegazione si intenda autorizzare quel che è stato fatto ai malmenati, arrestati, picchiati manifestanti che dormivano alla Diaz – dopo tanti anni, e dopo la condanna espressa appena due giorni prima dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, un poliziotto dica: “Quello che volevamo era contrapporci con forza, con giovane vigoria, con entusiasmo cameratesco a chi aveva, impunemente, dichiarato guerra all'Italia”.
“Entusiasmo cameratesco”. Non lo sapevo che si chiamasse così. Interessante locuzione che evoca alcuni errori storici, ormai conclamati, eppure mai usciti da un immaginario tutto maschile di muscoli, esibizione di forza bruta, sopraffazione che stolidamente passa per applicazione della legge. A volte. Troppe volte.
L'errore fattuale, quello che spesso si compie ogni volta che si affrontano questi argomenti, sta nell'intendere posizioni come quella che dichiaro io in questa sede come ideologiche, contraffatte dall'aver sposato – in un modo o nell'altro – uno specifico schieramento politico. È un errore di sostanza e di prassi. Quel che è in gioco qui non è l'appartenenza ideologica, ma una elementare questione di civiltà, di rispetto della vita umana, di gestione di un potere che malauguratamente è capitato nelle mani sbagliate (sebbene il potere non “capiti” e non sia conseguenza di un'assegnazione determinata dal fato). Non c'entra cioè il fatto che io, per parte mia e in modo assolutamente individuale, consideri il potere comunque un portato negativo del nostro vivere. Dovremmo, io credo, sforzarci di pensare che, in una prospettiva semplicemente umana, la vittima non è chi picchia, sentendosi autorizzato a farlo, ma chi è picchiato. La vittima è chi muore. Possiamo discutere, civilmente, se chi muore sia un eroe, e avere opinioni diverse su questo. Ma l'esistenza di un morto - e mi si perdoni la grevità - implica l'esistenza di qualcuno che ha ucciso. E per quel che mi concerne, nulla, proprio nulla, autorizza l'uccisione di un essere umano (ho problemi persino con l'uccisione di animali: pensate un po').
Quindi, quel che penso io è che le storie come quella del G8 di Genova dovrebbero essere raccontate a prescindere: per quel che sono, cioè, senza troppi fronzoli. Per questo ho amato moltissimo, e ritenuto immensamente necessario, un film come quello di Danilo Monte. Ottopunti (2013) racconta, in modo sommesso e dal punto di vista del tutto personale di chi ha vissuto la vicenda (Genova, l'omicidio di Carlo Giuliani, i fatti della Diaz), attraverso la voce del regista – scampato per caso al macello – e di Timothy Ormezzano, una delle vittime. Ci sono voluti 11 anni perché i protagonisti di questa storia, all'apparenza straniera e tuttavia irrevocabilmente italiana, trovassero l'energia, la cifra giusta e la voce per raccontare. Questo fa del documentario un testo necessario: uno dei quei testi che occorre conoscere per capire di più. Non vi è nessun gioco su un facile sensazionalismo, non si vede alcuna immagine, ad esempio, della Diaz nel momento dell'irruzione, non vi sono proclami né dichiarazioni di principio astratte. Ci sono due storie: una, soprattutto, quella di Tim, mediata dal legame profondo tra i due amici. Tim, come molti altri, è stato picchiato, arrestato e trattato da malfattore dai praticanti del dell'“entusiasmo cameratesco” di cui sopra. E qui c'è la sua storia e quella di Danilo Monte. Ci sono le voci, soprattutto attraverso la radiocronaca di Radiopopolare. C'è la cifra familiare, la sensazione di perdita, la paura, lo smarrimento di capitare in una realtà inconcepibile. C'è il racconto di come ci si è trovati nudi, alla lettera, nelle mani di un potere insensato. Ci sono alcuni fatti. Certo, si sceglie un punto di vista, e tuttavia i fatti restano, e sono difficilmente controvertibili.
Dunque, per parte mia, penso questo: è sbagliato, mille volte sbagliato, per noi come paese e come esseri umani, negare i fatti. I corpi feriti ci sono.
Il corpo di Carlo Giuliani – un eroe? Uno spostato? Ognuno la pensi come meglio crede: ma Carlo Giuliani è morto, e questo è tragico, e fa di lui, comunque, una vittima – è un fatto.
Gli otto punti sulla pelle di Timothy Ormezzano sono un fatto.
Faremmo bene, per una volta, a prendere atto dell'irrevocabile realtà di questo.

Nicoletta Vallorani