rivista anarchica
anno 45 n. 400
estate 2015




Diverso è il mondo

In piedi nel parco di Porta Venezia, a Milano, guardando dritto nella telecamera, Ziggy (al secolo, Tsegehans Weldeslassie) racconta sommariamente come è arrivato in Italia, cosa ha significato lasciare il suo paese e cosa si prova ad abbandonare la propria città sapendo che non vi si tornerà. Ziggy dice del viaggio, dell'attraversamento del deserto, della paura di ritrovarsi perduto per sempre, con una casa alle spalle e nessuna casa davanti. Della traversata per mare, che nessuno può volere né scegliere. Dell'arrivo in Italia, e di tutto il resto. Ziggy racconta, nel film Asmarina. Voci e volti di una eredità postcoloniale (A. Maglio e M. Paolos, 2015), la sua storia intermittente, alternandola a quella di altri personaggi, cittadini di questa città impegnata a dimostrare che sa fare l'EXPO, mentre si dimentica di essere già meticciata e inconsapevole, tollerante nel sonno e involontariamente accogliente. Voci diverse raccontano una cosa importante sulla Milano di oggi, nella comunità eritrea (che è il soggetto primario del film) e fuori di essa. E Asli Haddas, occhi grandi e diretti in una nuvola di capelli ricci, in tutto questo ricorda che si dovrebbe pensare, quando si ha davanti qualcuno, che questo qualcuno non è nero o bianco, ma, prima di tutto, una persona.
Non saprei dire perché Asmarina mi ha colpito tanto. È un bellissimo film, ma questo non basta. È una combinazione di voci, e questo è già più raro. È un mondo di persone, e questo si avvicina a essere unico. Ed è un film che si chiude dicendo di fatto allo spettatore: guarda quante differenze, e pensa quanto c'è da imparare.
Ci ho pensato, e mi sono resa conto che il punto è proprio questo. Facciamo molta filosofia sull'accoglienza, sulla necessità di immaginare politiche per i migranti, teorie nuove per spiegare il fenomeno dei flussi, magie per curare una eterogeneità crescente che ci preoccupa. E credo che la preoccupazione, alla fine, nasca essenzialmente da questo: non siamo capaci di pensarci diversi senza pensarci anche gerarchici. Tu sei differente da me, ma io sono meglio. La versione cattolico-populista è: io sono meglio, e ti curerò dalla tua differenza. È un processo mentale che qui sto applicando agli stranieri, ma che di fatto vale per ogni genere di anomalia: rimozione e normalizzazione. E se va proprio male, spersonalizzazione. Chi ci turba non è davvero una persona, ma un numero in una statistica.
Così arrivo alla seconda, necessaria differenza di cui volevo raccontarvi oggi
Dagmawi Yimer è arrivato coi barconi. Come altri, dei quali non sappiamo la storia e in verità neanche la vogliamo sapere, poiché è più comodo, più rapido – più meravigliosamente efficiente – pensare per luoghi comuni. Nella versione 2.0 dell'accoglienza, l'ultima generazione di intellettuali di sinistra svirgola allegramente verso la felice ambiguità dei numeri: siamo accoglienti, ma sovraffollati, perciò che fare?
“Che fare?”, col punto di domanda, è una delle espressioni-chiave della sinistra – ammesso che ve ne sia una – di questi tempi. Nell'in-between space tra la criminalità organizzata, che trae profitti economici dai garbugli di un'accoglienza impossibile, e la buona volontà della gente comune, che mette pezze su una situazione che nessuna istituzione europea pare disposta a risolvere, l'intellettuale di sinistra, o presunto tale, boccheggia e dice: “Che fare?”. Aspettandosi che qualcuno risponda, e fornendo numeri. Intanto, i barconi colano a picco dal 1996, e un programma di assistenza è stato sostituito da uno di protezione dei confini. Quindi i numeri aumenteranno.
Il fatto è, però, che i morti non son numeri, ma persone. Dagmawi Yimer, lo si diceva, è arrivato coi barconi. Ora fa il regista. Ha già lavorato con Andrea Segre in Come un uomo sulla terra (2008). Ora fa da solo e realizza Asmat – Nomi, che è dedicato al naufragio del 3 ottobre 2013, il più grave (circa 300 morti) prima di quello recente, che ha triplicato la posta. Dagmawi Yimer realizza un'opera poetica divisa in due parti. La prima è di uomini e mare, figure incappucciate e per metà immerse in acqua, col capo coperto da un lenzuolo per simulare la sensazione di soffocamento. C'è anche una parte di animazione, con colori intensi e profili accennati, come nei disegni di un bambino. La seconda parte è una recita di nomi. Tutti quanti. In lingua nativa e in italiano. Nomi. Uno per ogni singolo annegato. Uno per ogni singola persona che ha perduto la vita in quel viaggio. Un nome, una persona, un morto. Dovremmo cominciare a renderci conto di questo quando magari ci auguriamo, come ha fatto di recente a voce alta qualche improbabile politico, che li si lasci affogare tutti. Dovremmo forse anche capire che il mondo non più essere diviso in due, e che le molteplicità sono la norma, una norma vitale e colorata, con la quale è necessario, sebbene difficile, misurarsi.

Nicoletta Vallorani