rivista anarchica
anno 45 n. 400
estate 2015


esperienze concrete

Autonomia produttiva e vita comunitaria

Intervista di Michele Salsi alla Cascina delle Cingiallegre


Dal 2003 a Cingia de' Botti (Cremona) è presente una comune autogestita dove vita condivisa e autoproduzione agricola si incontrano.
L'esperienza comunitaria raccontata da chi la vive in prima persona.


Un po' per caso, circa un anno fa, sono venuto a conoscenza dell'esperienza delle Cingiallegre e sono andato a far visita a questa comune libertaria di Cingia de' Botti, un piccolo paese della bassa cremonese. Partecipando alle iniziative pubbliche, e legati da una promessa che avevo fatto loro (regalare una bicilavatrice, in segno di solidarietà per la loro lotta) è nata l'idea di un'intervista, e poi anche una bella amicizia. Sono andato alla cascina delle Cingiallegre con qualche domanda un po' improvvisata e ho registrato la chiacchierata che abbiamo fatto. Nella trascrizione questo non traspare molto, ma le risate non sono mancate e non è mancata una certa allegria (o cingiallegria!); come è invevitabile nei posti dove le persone respirano libertà.

m. s.


Michele: Come è nata l'idea di una comune?
Una Cingiallegra: L'idea inizia a partire agli inizi degli anni '90 quando gestivamo un centro sociale a Cremona, il Kavarna, con tutto quello che è la gestione di un centro sociale: spettacoli, iniziative e quant'altro. Durante questa gestione abbiamo iniziato a riflettere su quello che era il modo di usufruire di questi spazi. Cioè questi spazi proponevano tutta una serie di cose, però mentre alle iniziative goderecce c'era un sacco di gente, nelle iniziative a carattere più concreto e politico le file si assottigliavano di molto. Da lì il fatto di non vedere più in questo tipo di approccio una cosa che ci dava soddisfazione, e ci ripagava.
Un'altra Cingiallegra: Poi c'è da dire che il Kavarna veniva vissuto giornalmente, nel senso che c'era gente che ci viveva proprio.
Un'altra Cingiallegra: Sì, quando abbiamo interrotto questo periodo di iniziative e concerti, eccetera, abbiamo cominciato un altro tipo di percorso. Il Kavarna era uno spazio a disposizione di chiunque ne volesse usufruire, ma era anche uno spazio in cui si iniziavano a elaborare altre cose. Tra queste cose abbiamo iniziato a ragionare su tutta una serie di percorsi, partendo da un percorso che si è sviluppato qui vicino a Cremona, a Stagno Lombardo, che si chiama “la Cittadella”, e in questa cittadella a fine '800 è nata la prima cooperativa d'Italia fondata da Giovanni Rossi, un anarchico toscano. Lui qui in zona ha trovato un proprietario terriero che era comunque un politico socialista e con questo si sono messi d'accordo per una parte di quelle che erano le terre e la cascina che è chiamata Cittadella (che è molto grande, 3-4 volte questo posto) una parte è stata messa in gestione a questo esperimento che è andato avanti 2-3 anni, poi con l'avvento della tecnologia delle macchine agricole, ci sono state tutta una serie di discussioni tra i contadini e Giovanni Rossi piuttosto che altri che tenevano le fila della cosa, e ci fu questo grosso contrasto in cui si ritenne che l'avvento delle macchine non togliesse lavoro ai contadini, ma di fatto li metteva nella condizione di essere licenziati e messi da parte perché le macchine li sostituivano. L'esperienza fu molto interessante come tipo di esperimento nell'Italia dell'800. Poi da lì Giovanni Rossi proseguì e fondò una comune in Brasile, la comune Cecilia. Da un incontro su questa esperienza nacque un convegno a cui noi invitammo Urupia, che era appena nata, e altre realtà per cominciare a pensare cosa poteva essere una vita comunitaria.

M: La comune di Ovada c'era ancora?
C
: No... la comune di Ovada è negli anni 70, è stata uno dei primi insediamenti comunitari in Italia.

M: Voi da che anno avete fondato questo spazio?
C
: Noi siamo qui dal 2003.

M: E il convegno quando è stato?
C
: Il convegno è stato fatto nel '98.
C: Ci abbiamo messo quei 4-5 anni per trovare il posto, ma soprattutto anche tra di noi dedicavamo, mentre cercavamo il posto, giornate e giornate di elaborazione per capire che tipo di comune fondare, e come organizzarci. E nell'arco di questi 5 anni abbiamo cambiato tantissimo le nostre prospettive fino a che il posto poi lo abbiamo trovato e a quel punto chi c'era è partito con il progetto.

M: Nel frattempo stavate sempre lì al Kavarna?
C
: Sì, di fatto stavamo al Kavarna 24 ore su 24. Avevamo cominciato a fare l'orto occupato. L'idea della comune è nata come discorso di maturazione e devozione.
C: Anche quando poi abbiamo deciso come gruppo iniziale (che è bene o male quello presente qui stasera) di partire, non è che la cosa fosse a tutti ben chiara. La partenza è una partenza fatta per una serie di bisogni, necessità, sogni, che parte in una maniera e siamo arrivati adesso in tutt'altra maniera di come eravamo partiti. Dal 2003 ad adesso tutta una serie di cose sono cambiate.
C: Mi viene da pensare adesso che tutto quello che è stato il Kavarna è stato già una parte del progetto perché già da lì si sono sperimentate le convivenze. Ed è maturato il fatto di guardarci in faccia e dirci noi quello che volevamo fare, quali siano le sinergie che ci possono essere tra le persone, tra di noi, e insieme provare a sperimentarci e a vedere dove questo può portarci. L'esigenza era questa.

M: Quindi il Kavarna era anche uno spazio abitativo?
C
: Sì, lo avevamo trasformato anche in uno spazio abitativo.
C: Ospitando anche migranti. Omar è un migrante che è arrivato con un progetto che abbiamo messo in piedi negli anni della guerra del Kosovo.

M: Anche Urupia è stato uno stimolo? È dopo Urupia che vi è venuta l'idea?
C
: Ma... già eravamo in un percorso. È chiaro che conoscere la loro realtà sicuramente ci ha dato stimoli in più di riflessione e anche un pò di convinzione in più rispetto al percorso che stavamo percorrendo e che ci è sembrato ancora più giusto. Dopo il convegno sull'autogestione siamo andati a Urupia.
C: Eravamo andati anche su dagli Elfi (Valle degli Elfi) a vedere come erano organizzati.

M: Siete stati anche ad Urupia?
C
: Si, dopo il convegno sull'autogestione. E tutti insieme dopo il G8 di Genova del 2001.

M: Anche voi come Urupia non eravate contadini?
C
: No. Avevamo solo un po' di conoscenze. Con il Kavarna avevamo incominciato a coltivare la terra, abbiamo occupato la terra lì accanto ed è da li che è nato il connubio terra-alimentazione che è stato uno dei motori trainanti che ci ha portato qua. Sovranità alimentare, indipendenza alimentare. Vedere le cose in una prospettiva più ampia. Era il periodo in cui si incominciava a parlare di OGM per cui si incominciava finalmente a riflettere sull'alimentazione. È stato un fatto abbastanza d'obbligo passare alla terra. Come fare ad uscire da quella logica? Sicuramente una risposta è l'autosufficienza alimentare.
C: È stato proprio un cambio di punti di vista, una visione che si è ampliata nel modo di vedere quello che era la conflittualità all'interno della città (che andava dal biglietto del tram alla casa occupata). Invece il riappropriarsi della terra, per come ci era apparso in Urupia, era un “aprire”: aprire molto a quello che si è sempre pensato sull'autogestione, ad essere sé stessi in prima persona.
C: Una nostra caratteristica è sempre stata quella di dare concretezza al nostro discorso. Un progetto comunitario ti pone in prima persona di fronte alle grandi parole come “niente delega”, “assunzione di responsabilità”, “solidarietà reciproca”: sono tutti concetti che una vita comunitaria ti porta a vivere sulla tua pelle, per capire se sono solo concetti astratti o possono essere concreti. Questa è stata la scommessa: vediamo se tutte queste parole possiamo tradurle in un concetto reale ed effettivo, e (perché no?) che possa esser con il tempo di stimolo per altre realtà. L'obbiettivo è quello di rendere un progetto un'occasione anche per altri. Non siamo mai stati dichiaratamente una comune aperta come invece è nei punti consensuali di Urupia. Anzi, a dir la verità, noi non abbiamo mai dichiarato nulla! Non abbiamo i punti consensuali. Questo ha fatto parte di una nostra discussione di 2 anni fa, ci siam chiesti se era giunto il momento di dichiarare i nostri “10 comandamenti”, ci siam guardati in faccia, ci abbiam provato e abbiam capito che non era affare nostro. Continuiamo a fare concretezza, poi c'è sempre occasione per parlare.

M: Mi sembra che ad Urupia fanno una riunione tutti i giorni
C
: No, la fanno una volta alla settimana. Ufficialmente a inizio settimana fanno una riunione tecnica tra le comunarde e gli ospiti, prettamente di organizzazione del lavoro della settimana. Poi le comunarde sì, si riuniscono, non credo a cadenza fissa ma a necessità, solo le comunarde per le scelte sostanziali da fare.

Cingia de' Botti (Cremona) - La cascina delle Cingiallegre
Come muovere i primi passi

M: Va beh, comunque volevo chiedere: voi come vi organizzate? Come prendete le decisioni?
C
: Sono riunioni settimanali anche le nostre, purtroppo serali (e invidiamo molto Urupia che le fa alla mattina!) per noi è impossibile farle alla mattina perché molti di noi lavorano fuori, e anche perché le nostre riunioni sono aperte ad una serie di persone che abitano fuori ma che hanno deciso di investire le loro energie qui dentro. Mettere insieme così tante persone con esigenze diverse, chi lavorative, chi di casa, ci risulta difficile. Ora è un periodo di fase riorganizzativa in cui stiamo analizzando un po' i percorsi tra di noi e ci prendiamo anche giornate tipo la domenica. Lo scorso inverno era tutte le domeniche, ma dipende dal lavoro.
C: Le decisioni sono consensuali, se ci sono dubbi o non siamo tutti pienamente d'accordo si rimanda a ulteriori approfondimenti.

M: Invece per quanto riguarda la gestione economica dello spazio e tra di voi?
C
: La gestione economica è in via di sviluppo. Proprio in questo periodo stiamo pensando a quello che è effettivamente mettere in pratica una cassa comune. Abbiamo cominciato a parlarne, anche se di fatto una cassa comune c'è già. In cui ognuno mette un tot all'interno di questa cassa comune e con quello che mettiamo dentro andiamo a pagare tutto quanto riguarda la casa e (purtroppo) il mutuo che abbiamo sulla testa.
C: Ora stiamo sviluppando la parte migliore della comune che è quella di fare cassa comune dove tutto quello che abbiamo lo mettiamo all'interno di questo posto in modo tale che possa vivere e che possiamo vivere anche noi.
C: Tieni conto che all'inizio, dodici anni fa, lavoravamo tutti fuori ad eccezione di Stefano, per cui è stato abbastanza automatico il pensare che ognuno mettesse una quota uguale perché tutti avevamo un'indipendenza economica; e con quei soldi affrontare le spese comuni, mentre il resto dello stipendio ognuno lo spendeva per i fatti suoi. Questo ha funzionato fino ad un certo punto, fino a che non ci sono state persone che il lavoro non ce lo avevano più. A quel punto come fai a gestire una cosa partita da certi presupposti e che poi è diventato tutt'altro? È per quello che oggi abbiamo fatto questo passo evolutivo cioè di fare cassa comune definitiva. Chi lavora fuori mette lo stipendio, le attività che facciamo qui vanno tutte in cassa comune e quello che stiamo cercando di elaborare è come gestire poi la cassa comune. Cioè ognuno prende quello che gli serve, oppure decidiamo che c'è un tot a testa al mese per le spese personali, dichiariamo quali sono le spese personali? Queste sono le riflessioni, e Urupia anche qui ci insegna molto, ma quello che ci interessa è mettere in piedi un sistema che sia nostro che vada bene per noi e che ci rifletta. È inutile prendere un esempio e calarlo sulla nostra testa, ce lo possiamo tranquillamente inventare e sperimentarlo. Ci si dà un tot di tempo e poi si valuta se è la strada giusta o c'è qualcosa da cambiare.
C: È stata un po' la nostra caratteristica negli anni: quella di ascoltare le esperienze degli altri ma di farci poi noi la nostra. Non prendere modelli già fatti. Appunto Urupia si era costituita da poco avremmo potuto prendere il loro modello e fare uguale, mentre invece noi avevamo bisogno di fare i nostri percorsi e stiamo arrivandoci adesso a delle altre considerazioni, e chissà cosa ne verrà fuori.
C: Anche perché le individualità sono diverse, i luoghi sono diversi, per cui... è un po' come il detto “prendi i consigli da tutti poi fai come ti pare”, devi sapere te quello che è giusto per te.

Sogni, difficoltà, determinazione

M: Vi volevo chiedere una cosa che potrebbe essere utile se qualcun altro volesse imitarvi, intraprendere un'esperienza simile alla vostra. Vorrei sapere sotto l'aspetto amministrativo e legale come risulta la vostra comune?
C: Innanzitutto dovremmo far capire l'idea che non è una cosa bucolica, non è tutto rose e fiori. Vista dall'esterno può sembrare una cosa tutta rose e fiori. I fiori ci sono - per carità! - ma comunque ci sono anche le spine. Detto questo se qualcuno si vuole approcciarsi ad un'esperienza del genere, da parte nostra saremmo ben felici se qualcuno iniziasse a pensare che tanti fanno la differenza piuttosto che uno fa la differenza. Sicuramente farei lo stesso discorso che abbiam fatto noi con Urupia cioè prendi, ma non prendere tutto per oro colato, nel senso che l'esperienza te la devi fare te. Per di più non so che consigli darti su una gestione che ancora noi stiamo discutendo...

M: Io so che ad Urupia hanno fatto un'associazione culturale, poi hanno fatto la cooperativa...
C
: Il loro percorso è stato diverso dal nostro, loro hanno iniziato con un approccio politico. Mentre noi ci conoscevamo da un sacco di tempo, Urupia è nata da un progetto politico tra persone che non si conoscevano o si conoscevano poco. Noi abbiamo fatto un percorso esattamente contrario, noi ci conoscevamo da un sacco di tempo e avevamo fatto un sacco di cose insieme e siamo approdati a questa realtà come evoluzione naturale del nostro percorso collettivo. Quindi loro si sono dati necessariamente un'organizzazione fin dall'inizio, noi no. Per noi è stato è più un approccio naturale, ci si conosce già, quindi che organizzazione bisogna darsi? Poi pian piano vivendo insieme ci si è resi conto che la quotidianità va un minimo organizzata perché se no diventa un problema la convivenza.
C: Ma a livello “legale”, la proprietà della cascina attualmente - fino all'estinzione del debito con la banca - è dei cinque di noi intestatari che figurano anche come proprietari. Era l'unica forma in quel momento per poter accedere ad un mutuo. Non avevamo i soldi per poterla comprare, per cui abbiamo fatto un sacco di riunioni e ci siamo detti che questa era una cosa che la banca voleva che fosse così... allora bene, però all'interno non ci sono 5 proprietari, i proprietari sono tutti quelli che ci vivono. La banca avrebbe voluto uno solo e noi abbiamo detto 5 o niente. Per quanto riguarda le associazioni ci stiamo pensando anche se noi già con il Kavarna abbiamo fatto il percorso inverso. Al Kavarna prima siamo stati una cooperativa, poi un'associazione con tanto di presidente e consiglio, eccetera... fino ad arrivare ad una associazione ugualitaria che non aveva presidenti né niente. Poi quando siamo arrivati qui non ci siamo posti subito l'obbiettivo dell'associazione, cioè ci avevamo pensato ma con il mutuo non riuscivamo a farlo. Sarà una cosa che noi affronteremo cioè quella di trovare una soluzione a livello giuridico.
C: Ritornando a quello che avevi chiesto, se qualcuno volesse intraprendere la nostra strada, quello di cui ci siamo resi conto è che c'è una mancanza di possibilità. Perché chiunque voglia provare a sperimentare qualsiasi nuovo tipo di forma, di modo di vivere, si deve incasinare o deve avere dei soldi o deve avere delle terre o deve indebitarsi. Secondo me il problema sta lì, nelle possibilità, perché tantissime persone secondo me potrebbero benissimo mettersi in gioco e sperimentare nuovi modi di vivere, però frena il fatto di doversi andare a mettere in situazioni di debiti, casini, eccetera. Ci siamo chiesti appunto anche se questo posto poteva diventare una possibilità per chi vuole mettersi in gioco senza dover render conto a nessuno.
C: Sì, perché la sperimentazione “pura” potrebbe avvenire solo in quelle circostanze. Quando sei pronto e decidi che effettivamente è questa la strada in cui ti vuoi mettere in gioco, ti devi effettivamente mettere in gioco, devi aver voglia di confrontarti quotidianamente e costantemente.
C: Un'altra cosa da aggiungere al riguardo - e non a caso l'estate scorsa abbiamo organizzato un incontro con la fattoria delle patate in Germania - perché parlando con delle ex comunarde che sono berlinesi e sono tornate a Berlino e ci hanno parlato di questa esperienza a un centinaio di km da Berlino. Ci raccontavano: in Germania, come in Francia, esistono queste realtà gigantesche che investono in terreni e lo fanno raccogliendo denaro (si vede che in Francia e Germania ci sono un sacco di ricchi illuminati!). Raccolgono tanto denaro e acquistano terreni e fabbricati. Poi li danno in gestione a progetti, ma non in affitto, semplicemente li danno in gestione a progetti. Se il progetto funziona: bene. Se non funziona chi ci ha investito piglia e se ne va e quella terra e quei locali restano a disposizione per chiunque altro voglia provare. Questa dimensione ti libera da tutta una serie di vincoli e ti permette di sperimentare fino in fondo, in modo libero da qualsiasi gabbia economica e soprattutto ti permette di concentrarti sui veri problemi che sono i problemi relazionali, organizzativi, senza l'assillo del dover per forza guadagnare per pagare un affitto o un mutuo... Questa logica che in Italia manca completamente, cioè questi strumenti non esistono, e secondo me farebbe molto la differenza per chi parte, riuscire a partire senza debiti. Secondo noi partire senza debiti significa poter davvero sperimentare in piena libertà.

M: Apro una parentesi: sul mensile Terra Nuova di qualche mese fa c'era un appello di un fondatore di Torri Superiore, l'eco-villaggio, in cui dice che ci sono due aree bellissime abbandonate, di cui una era già stata comprata da loro credo in Toscana e per un'altra in Piemonte chiedevano l'appoggio per comprarla e quindi salvarla da speculazioni, ecc. Per cui mi è venuto in mente che per esempio tutte le cascine anche solo venendo qui da Parma se ne vedono di bellissime abbandonate. Dico magari il proprietario ci deve anche pagare delle tasse e varie spese per niente. Se ci fosse, appunto un'associazione che le prende in gestione per darle poi gratis a persone interessate sarebbe davvero utile e vantaggioso per tutti.
C
: Noi non abbiamo trovato nessuno disposto a darci un posto in comodato, la mentalità intorno a noi è veramente grama.
C: Anche noi alla fine pensiamo: questo spazio a chi rimane? Ci piacerebbe l'idea che restasse poi a disposizione di chi ne vuole fare uso. Che non deve esser per forza agricolo, potrebbe essere anche una scuola di circo! Ma se non c'è un circuito che si fa carico di queste proprietà questo spazio poi a chi rimane? Sarebbe bello poterlo proporre a gruppi che vogliono sperimentare nuove forme di stare insieme o di progettazione, stare insieme per progettare.
C: In Italia la mentalità è molto legata alla Chiesa, parecchia gente fa i lasciti alla Chiesa, magari in Germania o Francia c'è meno questa roba.
C: La proprietà privata comunque è assolutamente intoccabile per l'italiano: è mia proprietà e faccio quel che voglio io.

M: Mi raccontava un amico di Bologna che in un paese di montagna voleva installarsi in una casa abbandonata, poi lui è muratore per cui l'avrebbe aggiustata senza volere niente in cambio. Il contadino anziano proprietario gli ha detto “No, non mi fido perché sicuramente c'è un inganno!”.
C
: Ma è vero, ti può capitare molto più facilmente al Sud, perché anche tante altre persone che conosciamo e ci si sente ogni tanto, il comodato d'uso e il lascito sono più comuni al Sud. Qui è proprio difficile. Le terre non vengono tenute incolte, per cui qui è un territorio davvero difficile.
C: Infatti quando siamo andati alla presentazione a Bologna del libro Genuino Clandestino c'erano i ragazzi siciliani di Terre di Palike che spiegavano che quello che hanno fatto è di iniziare a coltivare terre incolte, ettari e ettari di terreni abbandonati. Qui vanne a trovare! Ormai mettono giù il mais anche negli spartitraffico, vale troppo qui la terra. La pianura padana purtroppo è troppo interessante per il business per poterci fare una riflessione di questo genere, devi muoverti in collina, devi andare in montagna o piuttosto appunto verso Sud dove la terra non la lavora quasi più nessuno.

Piccole produzioni dal basso

M: Voi fate anche attività produttiva agricola?
C
: Sì, noi abbiamo un ettaro e mezzo in affitto, perché quando abbiamo fatto il contratto di acquisto avevamo condizionato l'acquisto alla possibilità di affittare, dallo stesso proprietario dal quale stavamo comprando la cascina, anche l'ettaro e mezzo che stava intorno. Vuoi per mantenere la distanza con chi in pianura fa le schifezze più incredibili. Vuoi perché nella nostra testa c'era anche questo pensiero che non è arrivato subito. Noi per qualche anno le terre le abbiamo semplicemente lasciate a riposo, se ne son state lì buone buone a riprendersi dalla schifezza che per anni e anni è stata data. Poi si è sviluppato il progetto agricolo partendo da chi sostanzialmente aveva perso il lavoro o non lo aveva. Già coltivavamo per la cascina, poi abbiamo iniziato l'azienda agricola, abbiamo frutta e verdura, poi il forno per le panificazioni. Stefano legalmente è imprenditore agricolo e figura come una persona sola, cioè coltivatore diretto.
C: L'azienda è in regola, tutto il resto è clandestino. I prodotti da forno e i trasformati che facciamo con l'esuberanza dei campi è tutto clandestino.

M: Questo posso scriverlo?
C
: Secondo me sì, anche perché alla fine è inevitabile che realtà come queste arrivino a pensare a modalità diverse di gestione economica delle attività, al di fuori delle regole del sistema. È inevitabile dal punto di vista delle scelte politiche ma è soprattutto necessario perché se no sarebbe impraticabile. Se vuoi applicarti davvero sulle attività che preferisci e desideri fare, la clandestinità è un presupposto da perseguire. E dal punto di vista politico a maggior ragione la clandestinità è da perseguire.
C: Le nostre produzioni, come quelle di tantissime altre realtà, non muovono numeri giganti, quindi è impensabile doverlo fare seguendo alla lettera le normative vigenti. Perché per poter fare qui tot chili di pane che servono alla cascina e a chi ce li chiede perché gli piace il pane fatto così.. non è certamente il panificio che ti sforna quintalate di pane tutti i giorni. Quindi le produzioni dal basso e le piccole produzioni vanno tutelate. Per la legge dovresti seguire le stesse regole dei grandi panifici... è impensabile.
C: Quello che secondo me è saltato fuori negli incontri che abbiamo fatto con i Gas o le altre realtà in giro, è che chi fa mercato di prodotti non riconosciuti ufficialmente da quella che è l'Asl o altri tipi di enti, l'accusa che viene rivolta più spesso è che è una maniera per evadere le tasse. Noi non lo facciamo per evadere le tasse, ma per mangiare bene e in maniera più sana. Per mangiare sano non importa avere un impianto iper tecnologico o super sterilizzato, generazioni di persone sono campate mangiando marmellate fatte in casa e non si capisce perché adesso queste cose debbano essere demonizzate e considerate appannaggio solo dell'industria alimentare.
C: Anche il fatto che ci siam levati dalla certificazione biologica anche qui è stato un percorso voluto. Abbiamo cominciato perché avendo a che fare con i gruppi d'acquisto, il mercato, eccetera, dato che non ti conoscono c'era bisogno di questa certificazione, per cui l'abbiamo fatta e tenuta per 4 anni. Poi ci siamo chiesti “chi ce lo fa fare?” di alimentare un qualcosa di anche mafioso. Più che altro per fare capire che le certificazioni devono avvenire in maniera diversa con la consapevolezza della persona.
C: Secondo me è l'ennesima forma di delega anche, delego l'ente certificatore a dirti che tu sei biologico. Basta con queste deleghe! Vai a conoscere chi ti fa la verdura! È chiaro che se la prendi sempre all'Esselunga sarà difficile che tu venga a sapere chi è che fa la verdura e se effettivamente è biologica o meno, indipendentemente dal marchio che c'è sopra. Siccome non siamo molto lontani da dove andiamo a vendere, ci puoi venire a trovare, vedere e conoscere in qualsiasi momento, così non c'è bisogno di delega. Almeno riesci a capire che il pomodoro in dicembre non ha senso che tu me lo chieda.
C: Non bisogna neanche fidarsi di chi gestisce la salute in Italia, anche perché poi è un percorso difficile in cui devi andare a recuperare tutta una serie di saperi e conoscenze che sono perse nel tempo. Anche il più vecchio dei contadini qui intorno nel suo orto usa il diserbo, cioè fa un uso dell'orto in piccolo uguale al quello del campo di mais di fianco. Perciò andare a recuperare tutta una serie di conoscenze che sono andate perse è un lavoro non da poco. Nelle cose che facciamo, come lo scambio di semi, c'è anche la volontà di recuperare questi saperi andati scomparsi, come trasformare, recuperare, essiccare, mettere sott'aceto piuttosto che sott'olio, capire come conservare ciò che può servire durante l'inverno.
C: C'è proprio un gap di generazioni. Siamo nati nel boom economico e di fatto siamo stati più “ricchi” da una parte, ma ci siamo impoveriti dall'altra. Ci siamo impoveriti di tutti i saperi che ti potevano fare autogestire all'interno della tua casa oppure della tua comunità. Per cui siamo stati costretti sempre a delegare fino a che ci siamo abituati a delegare tutto, qualsiasi cosa. Non siamo più protagonisti in prima persona, andare a recuperare tutti quei saperi e l'impoverimento che è avvenuto è un'impresa, però ancora c'è l'occasione di riprendere le fila di tutto questo.
C: È come fare un percorso a ritroso andando avanti. Perché poi ti riallacci a tutti questi saperi che però li devi rendere attuabili e disponibili ora in questo periodo, perché i tempi cambiano.
C: Volevo aggiungere anche un'altra cosa che secondo me ci caratterizza rispetto alle scelte che abbiamo fatto. Noi crediamo molto nelle tante e piccole realtà, molto poco nelle grandi realtà rivoluzionarie. Ti faccio un esempio: noi siamo una realtà di 10 anime e io credo che sul territorio, in tutta la provincia di Cremona, possano avere più incidenza 10 realtà di 10 anime piuttosto che una grande realtà che fa biologico, che ti fa delle cose megagalattiche, quelle grandi aziende che ti propongono tutta una serie di garanzie dal punto di vista qualitativo, dell'alimentazione, eccetera... ma dal punto di vista della progettualità politica, pur partendo magari da una progettualità politica molto importante, poi si perdono perché fagocitati dal mercato e perché costretti ad approcciarsi al sistema in modo integrativo, non alternativo. Realtà piccole possono avere molte più possibilità nel piccolo perché si muovono su una rete molto più sfuggente, più underground, per cui riescono a sottrarsi a tutta una serie di scelte legate al dover e volere stare sul mercato, se no la tua azienda non ha più senso di esistere. Diventano più importanti 100 persone di 10 realtà diverse che si mettono insieme, ti creano un sottofondo decisamente più animato e dal punto di vista progettuale più interessante, rispetto ad una mega azienda biologica.

Politicamente contadini

M: Come legate la ricerca delle tradizioni antiche e i saperi della civiltà contadina con l'essere politicizzati? Cioè questo voler essere “contadini” ma in una dimensione politica.
C
: Adesso il significato della parola politica ha perso un po' di significato, politica può voler dire anche fare il pane, prendere il pacchetto di sigarette... anche la vita quotidiana è politica.
C: Riappropriarsi di un'autonomia produttiva ti garantisce sempre di più. Penso alle prime macchine che sono entrate nei campi: riappropriarsi di certe competenze, capacità e conoscenze ti pone in una condizione di autonomia che ti permette di dare una valenza politica a tutto quello che fai, perché ti togli dall'ennesima forma di ricatto rispetto al sistema. Per cui se devo arare e riesco a farlo senza usare il gasolio piuttosto che il Fiat o il trattore o la motozzappa perché ho scoperto che lo può fare anche un cavallo, questo mi pone nelle condizione di inquinare meno, di non pagare più la compagnia petrolifera di turno che uso per far andare il trattore, così come se c'è un guasto lo aggiusto io e non devo tutte le volte correre alla Fiat a farmi mettere a posto... Anche qui è un percorso di ricerca sempre più raffinata. Dobbiamo cercare di portarci a casa meno dipendenza possibile dal sistema.
C: Io penso che sia una scelta politica, ad esempio per quanto riguarda noi, anche il fatto di non arare la terra. È una scelta. Si fa alla svelta: “ci sono troppe erbacce, allora giro la terra”. Perché non lo faccio? Perché grazie all'esperienza e ai saperi che ci siamo fatti fin ad adesso sappiamo che il buono rimane tutto sopra e se io la giro non faccio altro che denutrire, per cui è una scelta politica. Il ragazzo che fa i formaggi, che viene a fare il mercato con noi, non usa mungere le sue capre con i macchinari perché se poi usa i macchinari deve usare delle sostanze disinfettanti che vanno ad inquinare, per cui preferisce mungere a mano. Sono scelte politiche, anche rivoluzionarie... Sono scelte forti, perché se io mungo a mano non ho la velocità di una macchina, quindi non posso tenere tanti capi. È tutta una scelta che si ripercuote a catena, a cascata sulle altre. Poi anche l'incontro con la gente quando hai occasione, con i mercati o con i GAS o robe del genere, le relazioni dirette sono una cosa molto importante e hanno tantissime valenze, l'abbiamo visto anche nell'arco del tempo, vedere persone che hanno l'abitudine di venire tutti i sabati a fare la spesa al mercato, come si sono incuriosiste e trasformate nell'arco del tempo. Li stimoliamo, li invitiamo, facciamo delle cose proprio per instillare un senso critico nelle persone, sono cose che a livello di energia costano tantissimo ma danno anche dei buoni risultati. Se su cento persone che vengono al mercato, cinquanta ci vengono perché sono motivati, non solamente perché è la verdura fresca e che non viene da molto lontano ma perché la facciamo noi e ti conoscono e ti sostengono perché gli piaci, eccetera... Questo ha una valenza completamente diversa.
C: Alla fine si parla di terra, di campi, di cibo, ma quello che si cerca secondo me (e che ogni realtà tenta di fare) è cercare di realizzare uno stile di vita alternativo. Un modo diverso di stare insieme agli altri nel rispetto di se stessi, dei beni comuni e della totalità delle persone. Alla fine questo lo puoi fare facendo il falegname e il meccanico, l'agricoltore o lo scrittore piuttosto che l'editore: provare a sperimentare una via alternativa per togliere potere a questo sistema. Per quanto ci riguarda i nostri percorsi politici di lotta “urbana” sono superati. Nelle parole: “Meglio sabotare che fare un corteo”, mi ci ritrovo abbastanza.
C: Tornare a ritrovare i sapori antichi, come si diceva prima, tra politica e no, vuol dire “sabotare” il sistema, perché io non vado più ad alimentarlo perché riesco ad autogestirmi. La parola politica assume varie sfumature, oggi è difficile dire: “La mia vita è politica”, nel senso che quello che faccio ogni giorno lo faccio con etica morale, di condivisione e tutto il resto.
C: Noi abbiamo fatto un periodo a fare in città cortei, manifestazioni, eccetera... e nello stesso tempo non avevamo la capacità di capire che finito il corteo, la manifestazione, l'evento, finita l'iniziativa noi ci guardavamo in faccia e stavamo foraggiando il sistema. In qualsiasi scelta noi si andasse a fare nel quotidiano, andavamo a foraggiare il sistema che combattevamo per le strade. Ecco questa è un'incoerenza di base, ma grossa! Le incoerenze ci sono sempre, siamo umani e cerchiamo anche di restarlo, ma il problema è che non può essere un'incoerenza così forte. Per cui abbiamo cercato di trasformare la vita quotidiana in una pratica rivoluzionaria perché se no questa incoerenza pesava troppo. Però allora lo si faceva, io l'ho fatto per un sacco di anni ma tutto il mondo era così, forse gli hippy o i fricchettoni non erano così. Ma in fondo neanche loro...

M: Al di là della vostra realtà: come vedete la situazione in generale dei movimenti, quali strade possibili da percorrere? Voi vi proponete in un certo senso come esempio.
C
: Secondo me creando un'altra economia, un'economia completamente nostra non necessariamente contadina, in modo che non si foraggi più questa economia in nessun tipo di forma e incominciare invece a pensare a quello che potrebbe essere un modo nostro di gestire l'economia.

M: Sarebbe l'autogestione generalizzata...
C
: Noi mangiamo, ci vestiamo, usiamo utensili, strumenti, attrezzature, ci curiamo, tutto ciò necessita di conoscenze, competenze e capacità per cui se qui oltre che produrre cibo si dovesse produrre lavatrici, utensili, martelli, seghe, trapani, vestiti, scarpe, tavoli, mobili... se tutto ciò dovesse uscire da questa realtà parallela noi andremmo a costruire un sistema realmente alternativo, ma fatto da persone che fanno le cose politicamente perché hanno un'etica, perché hanno un obiettivo: quello di combattere il sistema.

M: Ma produrre questi prodotti in modo industriale?
C
: Io non sono primitivista, se ho bisogno della macchina difficilmente prenderò un cavallo. Mi devo per forza confrontare con una cosa tecnica e meccanica di un certo tipo... Se tutte queste cose dovessero uscire da una fabbrica autogestita dagli operai, io comprerei quella macchina e eviterei di comprarmi una Fiat di Marchionne. Oggi non c'è una macchina che esce da una fabbrica autogestita. In Grecia, in Argentina cominciano ad esserci (perché la crisi li ha portati a quel livello) iniziative di autogestione e anche di cicli di produzione. Proprio per un discorso di coerenza, non nego che su tante cose bisogna lavorare perché a volte l'uso della strumentazione è veramente solo un abitudine e non una necessità. Però ci sono quelle cose che vivere nel duemila ti porta necessariamente ad utilizzare, allora sarebbe meglio che quello esca da una forma di organizzazione della produzione completamente diversa.
C: Poi bisogna considerare un sacco di cose, cioè che quello che costruisco non sia una cosa che alla fine inquina. A livello economico, che tutto venga gestito dal basso in modo tale che il denaro vada solo dove serve. Adesso per esempio diamo i soldi per tantissime cose ma non abbiamo i soldi per il dentista, perché non c'è nessun dentista che fa baratto... Forme alternative, monete complementari, bisogna farlo funzionare differente questo mondo.
C: Ritornando alla domanda, secondo me questo mondo è veramente vicino al collasso: non credo durerà ancora per molto. E secondo me in questo momento noi dobbiamo essere organizzati per il collasso.
M: Ti riferisci al pianeta o alla società?
C
: Al sistema. Il sistema è talmente vorace che si sta mangiando il pianeta. Anche la terra sta collassando, non c'è più un angolo di cui posso dire: “Vado lì che è tutto puro”. Non esiste, un posto così non esiste.
C: Qualche zona, qualche gruppo ancora c'è, ma davvero poco.

M: Secondo me ormai più che di parlare di rivoluzione bisogna parlare di evoluzione. La rivoluzione che si pensava una volta, quella della classe operaia eccetera, probabilmente non ci sarà mai... però si può parlare di evoluzione.
C
: Secondo me il sistema produttivo collasserà perché non ci saranno più soldi per produrre cose che la gente non può comprare per cui si ritornerà a un economia diversa non basata sulla mega produttività, ma sulla micro produttività.

Cingia de' Botti (Cremona) - La cascina delle Cingiallegre
Il cibo riscoperto

M: Per tornare all'agricoltura per esempio Masanobu Fukuoka ha detto che “l'agricoltura commerciale fallirà”. Coltivare per fare soldi è una cosa destinata a fallire.
C
: È vero anche io sono d'accordo, perché l'agricoltura intensiva, come qualsiasi cosa sforzata, è talmente “innaturale” che riesce a sopravvivere solo perché tu a quella terra gli dai A, B, C, D... Se tu non gliele dai, lei non è più in grado di poterlo dare. La famosa desertificazione è questa. Se tu non metti giù quintalate di sterco o non dai acqua costantemente la terra non sarebbe più in grado. In più è stata ridotta tantissimo per l'urbanizzazione, o tanta terra ormai viene usata non per scopi alimentari. Aveva ragione Masanobu Fukuoka.
C: I produttori di latte sono già un bell'esempio: centinaia di bestie ma il latte non glielo pagano!

M: Dato che si è parlato anche un po' degli OGM prima, dato che l'Expo è cominciato, volevo dirvi: voi in un certo senso siete all'opposto di Expo, però pensando al suo motto “Nutrire il pianeta, energie per la vita”, sono parole che sono rappresentate solamente da posti come questo, non certo dalla vetrina che è stata fatta.
C: Infatti è una guerra di vocabolario ormai, rubano le parole, rubano i concetti, e sostanzialmente è tutta facciata e tutta immagine. Il problema è che in questo gioco ci stanno cadendo persone di un certo rilievo che per un certo movimento hanno avuto un significato importante. Penso a Vandana Shiva e mi sorprende molto che una persona come quella si sia prestata a un gioco così becero e così falso. Però molto probabilmente anche lei sta facendo il suo percorso... e vabè.

M: Secondo me quella per Expo sarà anche una battaglia “culturale”. Voi magari avete ricordi anche degli anni della rivoluzione culturale, credo che anche negli anni '80 c'era un'idea di cultura molto diversa. Oggi un cittadino medio può identificare la cultura con figure discutibili che fanno riferimento a istituzioni varie, che sono tra le promotrici o le affiliate ad Expo. Mentre in netta contrapposizione a tutto ciò ci sono persone, scrittori, studiosi, attivisti, che fanno riferimento a tutta un'altra cultura. Solo per esempio senza andar lontano, soltanto perché è stato qua poco tempo fa, Stefano Boni (come tutta la rete culturale di cui può fare parte), che di certo non è una figura che arriva a un cittadino medio, visitatore di Expo. C'è un tale disinteresse e una tale passività generalizzata che qualsiasi ente, o qualsiasi politico che ha letto due libri può spacciarsi come “cultura” e usare questa prevaricazione per scopi anche subdoli o comunque di tornaconto privato, settario, ecc. Lo spettacolo di Expo è anche questo.
C
: Sì, manca l'approccio critico con le cose. Non credo che manchi la capacità o l'informazione, mancano la voglia e il coraggio di porsi in modo critico rispetto alle cose che ti vengono propinate. Perché l'Expo basta essere minimamente critici per capire che sotto è una grande presa per il culo, è una grande manovra economica per foraggiare i soliti noti. Non c'è bisogno di essere nel movimento per capire queste cose, le informazioni ci sono tutte, basta seguire il telegiornale una settimana per avere almeno il dubbio che qualcosa non sta andando come ti dicono, ma manca la voglia di porsi in questo modo, e quindi la cultura. Quindi è l'homo comfort che preferisce credere che va bene così e rimane tutto come ti fa comodo che sia. Non c'è voglia di mettersi in gioco.
C: Sono cambiati proprio gli ideali. Gli ideali che potevano esserci nelle piazze, nelle osterie, nelle case del popolo e nei centri sociali, che potevano essere: “Assaltiamo il palazzo” piuttosto che: “Bruciamo la fabbrica” sono cambiati completamente. Adesso ci siamo accorti che quello che è stato fatto in quel periodo non è servito a noi ma è servito a qualcun altro, e le cose non possono continuare in questa maniera, non possiamo continuare a fare cose che poi servono agli altri, bisogna fare cose che servono anche a noi. Per riflettere su questo abbiamo dovuto fare un percorso che mette la persona al centro della questione, se io voglio cambiare, se voglio che le cose vadano in una maniera differente, devo essere io a muovermi in maniera differente. Non è più la piazza che conquista il palazzo, ma è la gente che conquista la piazza, perché torna a riappropriarsi, insieme agli altri, mettendo la propria capacità personale di mettersi in discussione. Se non succede questo, non si va avanti, perché le maniere per poterci reprimere sono svariate, migliaia... Anche Expo va proprio in questa direzione. Quello che deve interessare è il cambiamento che ognuno di noi deve fare perché ne possano godere poi i figli dei nostri figli.
C: A Berlino avevo letto una bellissima scritta: “Noi non vogliamo il pane, noi vogliamo la forneria”. Non ce ne frega niente della tua carità, me lo voglio fare io il pane.
C: Non vogliamo solo il pane, vogliamo anche le rose.
C: Comunque... Prima accennavi al nostro rapporto col vicinato: il rapporto con il vicinato è buono, all'inizio ci divertivamo a trovare quello che tiravano fuori di nuovo. La zona cremonese è una zona fredda in cui ognuno sta a casa sua per i cavoli suoi. Non è un terreno facile. Su alcune cose infatti ci siamo arresi. Si cerca di mantenere una relazione con la gente che si muove in modo alternativo ma comunque non è facile. Una cosa che secondo me la gente dovrebbe sapere è che questa è una scelta non dico totalizzante ma che comunque ci va molto vicino, ti succhia tantissima energia. Per cui poi risulta difficile far combinare una scelta così importante con il mantenere tutta una serie di contatti e relazioni che comportano una capacità di movimento di un certo tipo... Questa è una cosa che secondo me è da mettere in campo nel momento in cui si fa una scelta così. Devi perdere qualcos'altro, come quando si fa un figlio, credo, ti cambia la vita.

Autonomia e alimentazione

M: Per parlare di alimentazione in concreto, voi mangiate tutto in autonomia?
C
: Quasi, produciamo tutto noi e quello che non produciamo cerchiamo di comprarlo da chi è come noi. Facciamo il brodo vegetale, trasformati, passate, pane e c'è in campo un progetto per produrre birra e vino. Ma facciamo anche i saponi e lo shampoo. L'obbiettivi è comunque sempre in primis di produrre qualcosa che serve, poi ne fai una quantità tale da poter poi fare uno scambio. L'obbiettivo principale è l'autosufficienza perché fa parte del nostro progetto. Dopodiché l'attività “imprenditoriale”, serve per mandare avanti la baracca. Purtroppo quello che ci frega è che abbiamo un mutuo da pagare, ti lega le mani, ma non solo quello, anche tutte le spese come le tasse o la tassa sulla proprietà da cui non si può scappare.
C: L'alimentazione è un'altra di quelle cose che va riscoperta. Ci se ne accorge quando cominci a domandarti da dove arriva quello che mangi e da li parte un mondo che deve essere tutto riscoperto. Anche solo per fare un dado vegetale, come farlo e capire come veniva fatto, le verdure che usavano, che erano tutte verdure di stagione. C'è anche il fatto che tutta questa ricerca porta ad uno stress, devo andare a ricercare come alimentarmi e come stare bene perché manca tutto un periodo dove non c'è stata continuità per capire come alimentarti, per cui bisogna ricercare e anche capire se stai facendo giusto e stai mangiando bene. Non è così immediato che se faccio la marmellata come faceva mia nonna ho risolto le cose nel mondo.
C: Comunque ricercare il modo di alimentarsi non vuol dire necessariamente mangiare come mangiava mio nonno, e questo è lo scatto evolutivo. Sto cercando di capire ciò che posso mantenere dell'alimentazione di un tempo, perché aveva un approccio sano con l'uomo e con la natura, ma allo stesso tempo mi approccio al macrobiotico che è il risultato di tutta una serie di riflessioni sull'alimentazione ed è un mix di recupero e, nello stesso tempo, di guardare indietro andando avanti. Cerchi di approcciarti con ciò che ti dà soddisfazione.

“La comune è risposta e strumento”

M: Anche gli ingredienti sono importanti, a parte la ricetta, per le uova, ad esempio, si dice siano imparagonabili quelle di adesso rispetto a quelle di un tempo.
C
: Ci sono ora casermoni in cui i polli vivono stipati e li fanno produrre le uova. Queste scelte (e la coerenza con le scelte) sono importanti. Se uno dovesse partecipare al ciclo produttivo di quelle uova, non le mangerebbe più. Partecipa al ciclo di allevamento dei bovini e dei suini e dalla produzione del latte e ti assicuro che tu non mangeresti più quelle cose li. Sfruttano gli animali.
C: Noi abbiamo avuto qualche gallina, erano proprio delle galline anarchiche, hanno fatto la loro vita e hanno fatto quello che han voluto. Chiaramente quando facevano le uova le facevano in giro, poi magari ti capitava di trovare il posto in cui le fcevano e trovare trenta uova, alcuni già marci e altri no... Poi si fa la prova dell'acqua, se galleggiano è meglio non usarle. Però quando trovavi le uova fresche capivi la differenza tra le uova di una gallina che mangia cercandosi il suo cibo da una gallina che viene allevata in un'altra maniera. È chiaro che prendiamo le uova da chi sappiamo come le fa. Il caffè lo prendiamo dai ragazzi del Malatesta, lo zucchero al negozio bio, il latte prendiamo il latte di riso. Le uniche cose che prendiamo fuori sono al negozio biologico anche la carta igienica riciclata. La farina al mulino Pederzani A Fidenza. O ad esempio, abbiamo un amico ci ha dato il grano, il grano duro e la pasta a Matera, e conosciamo chi la fa. Abbiamo calato il consumo della pasta pur di mangiare pasta fatta in un certo modo che costa di più, devi in qualche modo equilibrare, piuttosto mangiamo meno pasta. Poi il riso e alcuni legumi al punto macrobiotico. Poi il resto lo facciamo noi.

M: Voi siete vegetariani, vegani?
C
: Ci sono due vegetariani, poi il resto chi non mangia una cosa chi non mangia l'altra.. La carne la mangiamo una volta ogni tanto... Qui succede che certe volte i vegetariani cucinano la carne per i carnivori e non la mangiano. Comunque le galline sono tutte morte di morte naturale e son state tutte seppellite... Alle nostre galline non abbiamo mai tagliato le ali per cui andavano sugli alberi. Il pollaio c'era ma non ci andavano, stavano tutte su un muretto. Erano di razza Livornese che è una varietà rustica che non si caga più nessuno perché fanno uova dal colore chiaro ed è per quello che non le tengono, perché con la commercializzazione l'uovo bianco lo vedi se non è fresco, ora sono tutte di colori scuri.

M: Un'ultima cosa che volevo chiedervi per curiosità: il nome. Come mai avete scelto il nome “Cingiallegre”?
C
: È un giocare un po' con il nome del paese Cingia de' Botti, e poi è anche uno degli uccelli che ci sono qua.. poi allegri è anche un messaggio e ci piacerebbe molto che l'allegria facesse parte del nostro progetto politico. È stato una casualità, abbiamo fatto anni a chiederci e cercar di decidere il nome della cascina. La scelta del nome è importante per cui vuoi dargli il nome più significativo possibile. Quindi non avendo un nome all'inizio ci chiamavamo solo “la cascina” che figurati qui intorno sono tutte cascine! Finché poi è venuto fuori questo nome.

L'importanza sociale delle comuni

M: Per concludere volete lanciare un appello, un messaggio al mondo, alla città di Cremona, a chi volete?
C
: Di creare sempre più comuni, per noi è la risposta e lo strumento. Comuni di vario genere e varia natura.

M: Anche individuali? Anche se a quel punto non sarebbero più “comuni”
C
: Anche individuali, perché no... L'importante è che sia un individuo che abbia voglia di mettersi in relazione con gli altri. Poi noi abbiamo sempre sostenuto che il fare conta più di mille parole a volte, e quindi anche una persona da sola che si fa la sua storia e la fa bene, va benissimo.
C: Un'altra cosa, su cui secondo me c'è da riflettere è il tema dell'anzianità. La prospettiva esistente è quando sei inutilizzabile di finire in un ospizio. Che è un carcere, una cosa assurda. Sarebbero da creare delle alternative per sentirsi utili fino alla fine dei propri giorni. Se vogliamo che la nostra vita sia diversa da quello che ci propongono, dovrebbere esser così anche la vecchiaia. Posti come questo possono dare la possibilità a persone di età avanzate di sentirsi utili in tantissime maniere. Secondo me dovremmo pensarci anche a questo aspetto.
C: Nei vecchi villaggi l'anziano aveva il suo ruolo. In una comunità micro-complessa l'anziano/l'anziana ha il suo ruolo. A questo finché si è giovincelli non ci si pensa, ma poi andando avanti ci si ritrova a fare i conti con questa cosa. Allora per un discorso di coerenza bisognerebbe costruire una realtà sociale che preveda uno spazio di integrazione per le diverse età.
C: Comunque è possibile la cosa, noi abbiamo avuto la fortuna di poterla sperimentare, perché abbiamo avuto qui con noi il nostro “grande vecchio”, Giovanni, che è rimasto qui con noi per tre anni. Ed è morto qua. E abbiamo visto che all'inizio non sapevi da che parte girarti, ma poi lui ha trovato la sua dimensione. Anche nella nostra interazione con lui. Anche se spesso non approvava molto, era un brontolone, non andava mai bene quello che si faceva! È stato bello.
C: Il rischio è che si finisca nella solitudine ad una certa età, invece lui ha potuto vivere fino in fondo in una realtà viva. Dove anche lui aveva il suo ruolo e soprattutto poteva dire la sua. Poi aveva da ridire su tutto, si faceva il suo pezzo di orto per conto suo, eccetera... Però alla fine se ci pensi qual'era per lui l'alternativa allo stare qui?

Michele Salsi

Noi, Cingiallegre

Siamo un piccolo villaggio di anime che non si vogliono perdere. Siamo una rete di differenze e somiglianze viscerali in cui ciascuno ha il senso di sè e la cognizione degli altri.
Cerchiamo in ogni momento di trovare una strategia comune, diffusa, naturale. Il senso di necessità di autodeterminare l'esistenza sta al centro della nostra quotidianità.
I campi che coltiviamo sono parte integrante del villaggio e come tali li rispettiamo e creiamo con loro legami di aiuto reciproco. Ciò che i campi ci danno è cibo per la nostra tavola e materia prima dei nostri trasformati; tutti rigorosamente fatti in cucina.

Per contatti:
Cascina delle Cingiallegre
Via Casaletto di Sotto, 13
Cingia de' Botti (CR)
tel. 3278798169
cascina.cingia@gmail.com - cascinadicingia.wordpress.com

 

a Rocco

Lo stesso giorno di questa intervista, una brutta notizia era arrivata come una scossa.
Rocco Luberto, amico prima di tutto, e compagno militante a Parma dai tempi del gruppo Autonomia ('77), era morto improvvisamente. Desidero dedicare a lui questa intervista che penso avrebbe letto volentieri e che gli sarebbe piaciuta tanto quanto la Cascina delle Cingiallegre e il loro esempio di lotta, di cui già avevo avuto modo di parlargli. Ringraziando (oltre ad “A”) Ambra e tutta la famiglia di Rocco, mi permetto, in sua memoria, di rivolgere alle Cingiallegre e a tutti quanti leggeranno, queste parole
che lui ha inconsapevolmente voluto lasciare alla bellezza del mondo e al suo mistero:
Ti allontani dai luoghi dove avevi trovato attracco.
Vai, inseguito sempre dal tuo destino.
Ti allontani, avvicinandoti e mentre corri verso posti lontani, torni verso casa.”
(Rocco Luberto)

Michele