rivista anarchica
anno 45 n. 401
ottobre 2015





Sir Chatterley
e altri argomentanti alla canna del gas

1.
Durante una lezione avevo citato Ratzinger, sia come teologo che come Papa, a proposito dell'atteggiamento della Chiesa Cattolica nei confronti della teoria dell'evoluzione.
Alla fine, vengo preso da parte da un allievo che mi dice di non essere affatto d'accordo con me. Lo invito a spiegarmi e lui mi dice che, da cattolico integralista, mi spiega i miei errori. Innanzitutto, non si può e non si deve citare un Papa quando si deve citare direttamente la parola di Dio – così com'è nella Bibbia. Poi, io avrei “rovesciato le cose” parlando della scienza e delle sue scoperte, perché queste scoperte sono già tutte chiaramente espresse nella Bibbia. Il secondo principio della termodinamica? C'è. È lì. Perché dovrei parlare della fisica ottocentesca? La Terra che gira intorno al Sole e non viceversa? Alla faccia di Galileo è già nella Bibbia. Le bolle papali, tutta questa storia del processo a Galileo, è roba inutile, perché i Papi possono sbagliarsi. E Darwin? “Oh, beh, quella è una teoria come le altre...”.
A questo punto, provo a trovare un terreno di discussione e gli dico che le sue sono “interpretazioni” della Bibbia, ma lui sorride con superiorità e perentoriamente mi dice di no, che le sue non sono “interpretazioni” ma esattamente le parole di Dio.
Gli porgo la mano e lo saluto. C'è un crinale nelle discussioni umane – quello costituito dagli impegni semantici – che, una volta superato, impedisce qualsiasi forma di relazione.
Non so quanto costui possa effettivamente e legittimamente considerarsi “cattolico” – il mancato riconoscimento dell'autorità papale potrebbe costargli il bando dalla comunità dei cattolici –, ma so che le modalità con cui pratica questa sua religione sono analoghe a quelle dei membri di altre sette – islamici, scientisti, padroni.
2.
Ho finalmente letto L'amante di Lady Chatterley di David Herbert Lawrence. Dico “finalmente” perché come titolo e ben poco più – una nobildonna che tradisce il marito con il suo guardiacaccia – mi ha accompagnato per tutta la mia vita. Romanzo “scabroso” per eccellenza, sequestrato dalle censure di mezzomondo, stampato alla macchia, stampato malamente apocrifo, venduto sottobanco da librai pruriginosi – scritto a Firenze tra il 1926 e il 1928 ma “legalizzato” in Inghilterra soltanto a partire dal 2 novembre del 1960 a trent'anni dalla morte del suo autore -, l'ho letto in una traduzione che ormai mostra la corda del tempo (dove, tanto per intenderci, l'organo sessuale femminile viene designato come “potta” e dove l'“egli” e l'“ella” stanno al posto del “lui” e della “lei”) e ciò nonostante ne ho ricavato molti spunti di riflessione.
Uno, per esempio. Lawrence si rende conto del fatto che tutta la storia della filosofia è la storia della giustificazione dei poteri e comprende come questa abbia portato alla contraffazione degli aspetti più rilevanti della vita di relazione – denuncia l'amore contraffatto, le emozioni contraffatte, il sesso contraffatto della società borghese e individua con chiarezza il rapporto velenoso instauratosi tra istituzione del matrimonio e istituzione della proprietà. Tuttavia, al momento di proporci qualcosa in positivo non trova di meglio che auspicare di “rimettere radici nell'universo” e tornare alle “forme antiche”. Straparla di un mitologico “tempo che precedette le religioni e le filosofie idealistiche, prima di Platone, prima che sorgesse l'idea tragica della vita” e si rifugia in metafore ottimistiche. Offerti all'uomo, allora, vi sarebbero “due modi di conoscere”: il conoscere “in termini di separatezza”, e questo sarebbe “il modo mentale, razionale, scientifico”, e il conoscere “in termini d'unità”, e questo sarebbe “il modo religioso, poetico”. Che lui ci proponga il secondo come medicina per i nostri mali va da sé, ma che ciò lo conduca, poi, ad escludere che nella sua opera non vi sia “niente di politico” – dice tutto ciò in una lunga difesa del romanzo che scrisse prima di morire – è decisamente erroneo e gravemente autolesionista.
Due. Il romanzo abbonda di consapevolezze fondamentali. Lo sviluppo dell'impresa capitalista implica la distruzione dell'ambiente in cui si vive, è necessario ribellarsi alla logica dei consumi, l'intellettuale – colui che trasforma “ogni cosa in parole” – è un servo del sistema e presto – sta parlando prima del 1930 – i governi distribuiranno droga il sabato sera per un più efficace asservimento delle masse. A differenza che negli Anni difficili di Dickens, qui, di operai illuminati ed eticamente irreprensibili non ce n'è: i minatori di cui parla Lawrence – figlio di un minatore – sono torvi e privi di qualsiasi vitalità, sostanzialmente complici del sistema che li opprime.
Tre. I tre personaggi principali del romanzo sono “personaggi”, ovvero schematizzati quel tanto che basta a che svolgano la loro funzione narrativa, ma sono costruiti con profonde cognizioni di cause e grande attenzione alle sfumature. Nessuno di loro è esente da pecche e contraddizioni – sia l'incantevole Connie (la Lady Chatterley del titolo), sia il nobile suo marito ridotto in carrozzella, sia il ruvido e al contempo tenero guardiacaccia hanno le loro ragioni e, nell'aggrovigliarsi dei loro rapporti, sanno farle emergere.
Quattro. Connie si butta fra le braccia del guardiacaccia per affinità ideologica più che per sesso e/o amore. Lui è una sorta di neo-luddista scettico – contro la macchina e contro “l'avidità meccanizzata” e contro “il meccanicismo avido” ma senza illusioni nei confronti della classe operaia –, e non si troverebbe invischiato in una relazione di cui ha bisogno ma che non cerca affatto se non fosse per le contraddizioni del rappresentante del capitale. Infatti, è dalle improvvise discussioni fra Connie e suo marito che sorge, crescendo gradualmente, l'esigenza di investire tutto il proprio amore in un'alternativa – un'alternativa costosissima sul piano sociale. Lui definisce la moglie una “bolscevica” solo perché anela un minimo di giustizia intorno a sé, solo perché si interroga angosciata su “cosa ha mai fatto l'uomo all'uomo”. Tanta è la sua consapevolezza di classe – un figlio maschio che portasse “avanti” il nome del casato – che accetterebbe perfino che lei tornasse a casa incinta purché la cosa non trapelasse. Ma si dice “anarco-conservatore”, che, detto in soldoni, vuol dire che “la gente può essere e pensare come vuole, in privato, purché mantenga inalterate la forma e la struttura della società”. Quando lei, povera cara, gli ribatte: sì, vabbé, ma come la mettiamo con l'ineguaglianza? L'anarco va a farsi benedire e rimane il conservatore – risposta: “È il destino”.
Cinque. In tre punti del romanzo, Lawrence riesce a sorprendermi. Parla di qualcuno e lo definisce “corrotto come un ebreo di bassi natali”, svilisce un altro facendo notare che era come “un ebreo qualsiasi” e, infine, ad un onesto gondoliere veneziano, fa pensare che “quando Gesù rifiutò il denaro del diavolo lasciò il diavolo padrone della situazione, come un banchiere ebraico”. Tre attestati di antisemitismo che, più appaiono gratuiti – privi di una qualsiasi giustificazione nell'economia della narrazione –, più mi risultano offensivi – nei confronti di quanto di buono seminato nel romanzo e di me, lettore, che ho saputo apprezzarlo come tale – e gravi.
3.
Lawrence, insomma, me lo vedo allo stesso posto del mio allievo. C'è un punto in cui il dialogo non può proseguire. Nel mio allievo – che non esito a definire una “buona persona”, altruista, pronto a dare parecchio di sé per il bene altrui – è subito chiaro, con Lawrence la cosa è più complicata – il percorso per giungere al punto morto è più tortuoso –, ma non c'è dubbio che ad un dato momento a questo punto morto si arrivi. Com'è possibile, mi chiedo, che una persona come lui – tanto ben intenzionata e tanto attenta alla genealogia dei quadri ideologici che sorreggono le classi sociali – giunga a generalizzazioni così prive di senso. Com'è possibile che attinga ad un sapere così autocontraddittorio – com'è possibile che, entrambi a questo punto, attingano a saperi così meschinamente autocontraddittori. La Bibbia che sarebbe “parola diretta di Dio”, la Bibbia che avrebbe anticipato qualsiasi possibile scoperta scientifica, la Bibbia che annichilirebbe la teoria dell'evoluzione e – non è possibile evitare di metterla nello stesso calderone – la connotazione negativa dell'ebraico in quanto tale. Di quante parole, mi dico, si tradisce il significato per giungere a queste tesi? Non solo teoria, leggi, scienza, cambiamento, stasi, ebreo, ma, forse, anche “Dio” stesso che in quanto autore di best sellers uscirebbe piuttosto sminuito nelle proprie prerogative. Se si considerasse la scienza come un sistema aperto sempre passibile di modifiche, se una teoria fosse considerata semplicemente un collettivo di leggi e se queste leggi fossero comunque ricondotte ad operazioni umane potrebbe costituirsi alla svelta un terreno di confronto – ci si potrebbe parlare. E ugualmente se si ammettesse che “cambiamento” e “stasi” sono da considerarsi due categorie applicabili a checchessia in qualsiasi momento e che, pertanto, considerare qualcosa come “in evoluzione” di per sé e qualcosa no sarebbe autocontraddittorio. E ugualmente se si ammettesse che “ebreo” non designa alcunché di biologicamente determinato.
Un dialogo, voglio dire, è possibile soltanto a partire dalla piena disponibilità degli interlocutori all'analisi dei significati delle proprie parole. Senza questo passo – un passo di incontro che sembrerebbe davvero minimo – non è possibile alcun accordo. Purtroppo, però, storia e presente alla mano, dobbiamo constatare che questo passo non è minimo affatto, perché qualcuno, dietro alle proprie parole – dietro a quelle parole che anche se prive di un significato qualsiasi gli conferiscono sicurezza costituendo per lui lo specchio del migliore dei mondi possibili –, preferisce barricarsi e rintanarsi per la propria vita intera. A scapito di migliori relazioni umane e di migliori opportunità di convivenza.

Felice Accame

Nota: L'edizione de L'amante di Lady Chatterley di cui mi sono servito è quella pubblicata da Mondadori, a Milano nel 1969, nella traduzione di Giulio Monteleone. In essa, tradotto da Carlo Izzo, è anche il saggio A proposito di “L'amante di lady Chatterley”.