rivista anarchica
anno 45 n. 401
ottobre 2015




Siate liberi

Ho fatto il conto, e sono circa 30 anni che faccio questo mestiere. Nelle aule di scuola e in quelle dell'università, la sostanza alla fine non è mai cambiata. Ci sono io, e ci sono studentesse e studenti. La prima lezione inaugura il mistero, le successive lo dipanano, l'ultima sa già di nostalgia.
Non mi sono mai stancata, non ho mai smesso di considerare l'insegnamento la sola cosa che so fare, non mi sono mai arresa ai continui abusi della burocrazia e di una competizione insensata che le riforme recenti hanno solo accentuato.
È un lavoro complicato, che non ha niente di manageriale (tantomeno nello stipendio) e che nessuno dovrebbe permettersi di valutare a meno che non abbia provato a farlo. Ed è complicato, a qualunque livello, sempre per lo stesso motivo: non vi è nulla di codificato, nulla di scontato. Helzapoppin con contenuti predefiniti e materiali umani, di necessità imprevedibilissimi.
Ogni anno, di questi tempi, affronto un gruppo nuovo di matricole e/o di studentesse e studenti del II anno. L'anno scorso erano 250, tutti insieme, in un'aula in principio troppo piccola, che ha dovuto in fretta essere sostituita. 500 occhi attenti, molti sguardi di sfida, moltissimi visi perduti, perplessi, chiaramente impegnati a capire cosa ci facessero lì, a tentare di guadagnarsi un voto, pure poco conveniente perché i miei programmi son sempre pesantissimi. 250 teste, 250 famiglie, 250 storie personalissime. Nomi spesso stranieri. Lingue spesso disomogenee. Provenienze e motivazioni diversissime.
Sarà lo stesso anche quest'anno. E io andrò in aula paralizzata dal terrore, immaginandomi strategie nuove e chiedendomi cosa mai posso insegnare a ragazze e ragazzi anagraficamente sempre più lontani da me, sospesi tra una famiglia troppo presente e una totale assenza di famiglia, schiacciati da problemi economici, oppure semplicemente perduti in un corpo che non amano, in una compagnia cui non sentono di appartenere, in un mondo che hanno ereditato e del quale viene loro detto che è ormai senza speranza. E se i fili sono diversi, la tela sarà bellissima: un capolavoro.
Entrerò in aula e cercherò di fare quello che sempre fa ciascun insegnante degno di questo nome: comunicare.
È una bella parola, comunicare. Quello che dimentichiamo spesso, noi insegnanti (e sempre lo dimentica chi finge di esserlo), è che comunicare implica una reciprocità. Il dialogo è bidirezionale, altrimenti non facciamo una lezione, ma altro: un monologo, una conferenza, una predica, una ninna nanna o altre possibili varianti tutte edificate sul silenzio e sulla simbolica assenza dell'interlocutore.
Il fatto è che insegnare è una cosa diversa: uno scambio, che non mancherà di stupirci.
Una mia amica, insegnante di musica in una scuola media dell'estrema provincia marchigiana, mi ha raccontato una volta di aver spiegato il Romanticismo costruendo tutto il ragionamento sull'opposizione con l'Illuminismo. Al momento dell'interrogazione, il ragazzo interpellato faticava a orientarsi. Così la mia amica decise di aiutarlo, consigliandogli di procedere per opposizione e suggerendogli che l'Illuminismo è l'epoca della ragione. Dunque come può essere definito il romanticismo? Il ragazzo ci rifletté un attimo, poi si illuminò tutto e disse: “Ma certo: il Romanticismo è l'epoca del torto!“ La mia amica ne fu spiazzata. Non aveva previsto tanta elasticità. Ed è questo che accade nella comunicazione: se le lasci libere di ragionare, le persone – soprattutto quelle giovani – ti spiazzano. Danno risposte incongrue, ma logicissime. Ti portano su strade che non avevi previsto.
Anni fa, con una punta di delusione, avevo chiesto a uno studente che si era appena laureato con me come mai le mie dispense fossero del tutto assenti dal mercato dell'usato: facevano così schifo che non erano vendibili? L'ormai ex-studente scosse la testa. “Lo sa cosa si dice in giro, prof?“ rispose. “I corsi della Vallorani sono come il maiale: non si butta mai via niente“. Mi piacque la metafora rurale, molto. Me ne sentii onorata, e pensai che fosse una bella cosa. Magari non lo è, ma mi piace pensare che lo sia.
Il punto è, cari ragazzi, che ogni volta che entrate in un aula vi concedete il lusso di pensare che la cultura serva davvero a qualcosa. Siete dentro un'aula per esercitare il vostro pensiero e imparare a sbrigliare le idee in autonomia. Siete in un'aula perché avete scelto di non essere pappagalli, ma esseri senzienti. Studiate per rendervi liberi, e lo sarete, indipendentemente dai denari che ve ne verranno in tasca. Perché quelli vanno e vengono, mentre la vostra testa, i vostri pensieri, la vostra libertà resta con voi sempre. E la imparate ora o non la avrete mai.
Perciò sì, è vero: mi interessa che sappiate che Joseph Conrad era un esule polacco e che voleva fare il marinaio e non lo scrittore, anche se poi a far lo scrittore era un prodigio mentre del navigante non aveva il fisico. Ma mi interessa soprattutto che impariate a capire cosa c'entra tutto questo con voi, con la vostra singolarissima vita, e con la vostra unicissima nozione di libertà.
È vero: voglio vedere se vi funziona il cervello. Ma non sarò io a farlo funzionare. Potete farlo solo da soli. E se non lo fate, siete perduti.

Nicoletta Vallorani