rivista anarchica
anno 45 n. 402
novembre 2015





Il paese dei sogni infranti

testo e foto di Santo Barezini


Give me your tired, your poor
Your huddled masses yearning to breathe free,
the wretched refuse of your teeming shore.
Send these, the homeless, tempest-toss to me,
I lift my lamp beside the golden door!
Emma Lazarus (1883)

Vivendo a New York mi accade di riflettere sulla questione della libertà. Come non pensarci? La libertà è il mito fondativo di questa nazione nata dalla rivolta contro l'oppressione coloniale. È al cuore della dichiarazione d'indipendenza e della costituzione americane.
A New York la libertà è anche fusa nel bronzo di uno dei monumenti più famosi al mondo: quattro milioni di turisti, ogni anno, affrontano severi controlli pur di poter ammirare da vicino la grande statua che rappresenta la dea romana Libertas.
Prima dell'era dell'aviazione commerciale chi veniva fin qui, carico di sogni e speranze, arrivando veniva accolto da quella dea dallo sguardo enigmatico. La Statua della Libertà, con la sua torcia innalzata verso il cielo, ha salutato l'arrivo di milioni di migranti. Le navi con i nuovi arrivati, rifiuti di altre sponde in cerca di futuro nella terra promessa, transitavano nei pressi del colosso, posto su un'isoletta all'ingresso della baia. I migranti osservavano stupiti il bronzo ossidato dalla salsedine, intuivano, anche nella nebbia, l'approdo vicino e sentivano crescere la speranza. Di lì a poco avrebbero però conosciuto un altro volto dell'America, nei modi bruschi dei mastini della frontiera, che avrebbero deciso chi ammettere nel paese della libertà e chi invece restituire al suo destino. I nuovi arrivati, sbarcando nella vicina Ellis Island per le procedure doganali, si scontravano subito con questa prima contraddizione: la terra promessa era per molti, ma non per tutti, occorreva esservi ammessi e qualcuno (le statistiche ufficiali dicono il 2%) veniva respinto, restituito al suo destino senza neanche aver messo piede sulla terraferma, anche se magari aveva un figlio, una sorella o un marito in trepida attesa sulla banchina.
Gli ammessi, la grande maggioranza, sbarcavano infine in questa città, già allora caotica e disordinata, e si guardavano attorno spaesati, perduti, prima di disperdersi nei mille rivoli della vita, in cerca di fortuna. Scoprivano allora una seconda contraddizione: questo era davvero il paese delle mille opportunità, qui era possibile cambiare un destino altrove segnato di generazione in generazione. Ma per chi poi non ce l'avrebbe fatta non c'era una mano tesa. Molti si sarebbero assicurati un futuro migliore. Molti altri sarebbero stati destinati a una vita ai margini, forse anche più grama di quella lasciata alle spalle. Bisognava imparare in fretta a sopravvivere in questa terra estranea e chi non ce la faceva finiva negli slum della Lower East Side, a condurre una vita misera in condizioni drammatiche. Là imperava lo sfruttamento e il lavoro minorile era la regola.

Una presenza lontana

Fu la famosa inchiesta: “How the other half lives”,1 del giornalista danese Jacob Riis, nel 1890, a denunciare questo scandalo e costringere le istituzioni a intervenire, per migliorare le condizioni di vita negli slum di Manhattan. Oggi le cose sono cambiate: la Lower East Side è divenuta posto per benestanti, i costi degli affitti sono alle stelle e sono altri i quartieri poveri di New York. Ma non è raro, aggirandosi per i quartieri bene di Manhattan, incontrare giovani homeless accampati per strada, magari addossati ai grattacieli abitati da manager e artisti di grido. Nelle file dei diseredati di oggi c'è un po' di tutto, persino ex militari che non ce l'hanno fatta a reintegrarsi nella vita civile: anche per loro, che hanno “servito la patria” e magari rischiato la pelle per garantirne l'opulenza, non c'è una mano tesa, se non quella dei molti che, passando, lasciano qualche dollaro nei bicchieri sporchi, protesi a mo' di cappello.
Intanto la Statua della Libertà troneggia ancora all'ingresso della baia ma ho l'impressione che i newyorchesi l'abbiano dimenticata, lontana com'è dalla vista e dalla quotidianità.
Per il nuovo arrivato, invece, è meta indispensabile, luogo di un pellegrinaggio che anch'io ho voluto fare, in una grigia giornata autunnale.
Ho scoperto così che i versi enigmatici con cui prende avvio la “Ballata di Sacco e Vanzetti”2, quel dolce, lento, straziante: “Give to me your tired and your poor…”, che ancora oggi mi emoziona ascoltare, Joan Baez li prese a prestito da un sonetto che la poetessa newyorchese Emma Lazarus, alla fine dell'ottocento, aveva dedicato alla statua e a ciò che simboleggiava. In quei versi era contenuto il sogno di chi sentiva di vivere in una terra nuova destinata ad accogliere amorevolmente le masse dei diseredati. Per la Lazarus e per tanti altri, la statua sarebbe dovuta divenire il simbolo di un paese destinato a offrire riparo e protezione dalle tempeste e dai naufragi della vita. La lampada, protesa verso il cielo, sarebbe stata come il faro che annunciava l'approdo sicuro a chi in America arrivava per sfuggire a fame e persecuzioni. Le catene spezzate, poste ai piedi della statua, volevano infatti simboleggiare la libertà che gli Stati Uniti avevano pagato a caro prezzo affrancandosi dalla corona britannica, ma donavano gratuitamente a chi avesse voluto fare dell'America la sua nuova patria.
Quei versi, belli e ingenui, il visitatore li trova scolpiti nel bronzo, ai piedi del colosso. Joan Baez li ha in qualche modo dissacrati, inserendoli all'inizio della sua ballata e facendoli subito seguire da quell'evangelico: “Blessed are the persecuted”, beati i perseguitati, riferito evidentemente a Sacco e Vanzetti. Per i molti americani che credono nel “God bless America” deve essere stato sconcertante.
Ho così capito che Joan Baez, nel 1971, non solo aveva scritto e magistralmente interpretato una canzone bellissima e drammatica, ma aveva anche compiuto una coraggiosa operazione intellettuale che, personalmente, non avrei mai colto se non mi fossi ritrovato davanti il sonetto approdando a Liberty Island. Raccontando la persecuzione dei due anarchici italiani a partire da quei versi, la cantautrice newyorchese ha toccato un nervo scoperto e messo in luce le contraddizioni di un'America che il sogno della libertà forse non l'ha mai abbandonato ma l'ha spesso tradito, umiliato, nella tratta degli schiavi, nelle deportazioni degli indiani, nella persecuzione delle minoranze, nei ghetti della miseria, nella segregazione razziale. Un sogno spesso imprigionato nelle carceri e qualche volta assassinato sulla sedia elettrica.
Del resto la stessa cantautrice ha pagato a volte il conto di una vita spesa in battaglie per la giustizia e contro la guerra, finendo lei stessa in carcere: “Mi hanno arrestata per aver turbato la pace”, ebbe a dichiarare una volta con delicata ironia, “e pensare che io volevo solo turbare la guerra”.

New York (USA) - Emma Lazarus,
volto serio e quasi sofferto, da qualche
anno ha trovato il suo posto nella quiete
dei giardini che circondano la statua
della libertà a Liberty Island

Ma quale libertà?

Sacco e Vanzetti furono perseguitati per le loro idee e perchè erano italiani e su quella sponda giudiziaria si è infranta anche l'illusione di Emma Lazarus e ancora oggi l'equità del sistema giudiziario americano è sul banco degli accusati per chi ha davvero a cuore la giustizia e la libertà in questo paese.
A volte mi chiedo cosa sia esattamente questa libertà di cui l'America va fiera. Curiosando nelle classifiche, tanto care agli americani, ho trovato dati contrastanti: il think-tank conservatore The Heritage Foundation colloca gli Stati Uniti al dodicesimo posto nella classifica mondiale della libertà economica. Ma con Reporter senza frontiere gli USA scivolano addirittura al quarantanovesimo posto nell'Index mondiale sulla libertà di stampa. Sono dati poco lusinghieri.
Dal mio piccolo osservatorio quotidiano penso che i senzatetto seduti sulla soglia degli epuloni sempre più scandalosamente ricchi, i quartieri poveri popolati di nuovi migranti, i barboni accampati attorno alle chiese, gli innocenti in carcere, i giovani neri che escono dalle scuole dei loro quartieri semianalfabeti e senza futuro, i salari minimi scandalosamente bassi, siano altrettanti segnali del disagio di questa società.
Ma non è solo questione di povertà. La libertà mi appare zoppicante anche per noi privilegiati che non dobbiamo elemosinare un pasto caldo e un letto in uno dei tanti shelter comunali di New York. Mi sento a volte soffocare. E pensare che arrivando a New York credevo di ritrovarmi in uno spazio mentale e fisico di grande libertà. Sapevo di venire in una città piena di stimoli, abitata e visitata da artisti e da creativi che qui si sentono svincolati dai condizionamenti della vecchia cultura europea. Sapevo di ritrovarmi in un luogo dove diritti da noi ancora negati sono pienamente riconosciuti, basti pensare ai matrimoni gay che si celebrano ogni giorno presso il municipio di New York, totalmente equiparati a quelli eterosessuali. A dispetto di tutto ciò mi sono ritrovato imprigionato in una fitta rete di regole e divieti opprimenti che i newyorchesi sembrano accettare con serena rassegnazione. A ciò si deve aggiungere l'ossessione per la sicurezza che, dopo l'11 settembre, ha trasformato la città, dando a volte la sensazione di trovarsi nella Berlino Est dei tempi tristi della DDR. Siamo infatti tutti controllati da un numero impressionante di addetti alla sicurezza pubblici e privati: dalla onnipresente polizia ai portieri dei palazzi, tutti scrutano, annotano, segnalano, identificano, schedano.
Ma forse il terrorismo è solo un pretesto. Secondo l'avvocato Harvey Silverglate l'americano medio, senza saperlo, commette circa tre reati al giorno e questo solo tenendo conto della legge federale, a cui si devono aggiungere le normative dei singoli stati.3
Mi sento di dargli ragione: ho conosciuto un uomo finito davanti al giudice per essere stato sorpreso a orinare nel Central Park, una donna condannata per aver venduto il proprio biglietto della metropolitana ad un ragazzo, un giornalista arrestato per aver intralciato la circolazione: era sceso dal marciapiede per fotografare meglio una manifestazione contro la polizia.
È questa la libertà che i padri fondatori avevano immaginato, la libertà testimoniata da Tocqueville? Conta oggi soprattutto la libertà di impresa e tutte le altre sono trascurate? Sono confuso. L'abbraccio della dea posta a guardia della baia, forse un tempo amoroso, oggi mi appare una stretta soffocante.

Presunzione e bugie

Tuttavia questa gente che mi circonda è generalmente gentile, cordiale. I newyorchesi amano la loro città e la vivono intensamente, con l'affanno di un mondo sempre in corsa. Quando possono si fermano volentieri per una chiacchierata e una risata anche con uno sconosciuto. Forse anch'io potrei riuscire ad amare di più questa mia precaria residenza sulla terra, coi suoi grattacieli di vetro e i palazzoni nerastri; coi suoi ponti eleganti e le vecchie metropolitane; con i negozi sfarzosi e le povere botteghe; i banchetti di libri usati per la strada e le grandi biblioteche; con i volti di mille colori, gli sguardi imbronciati del mattino e le risate sguaiate alla sera; coi ragazzi spensierati che giocano a baseball o a basket nei campetti pubblici e i ciclisti che sfrecciano pericolosamente in mezzo al traffico caotico. Alle volte mi basta una passeggiata serale per le strade di Harlem per ritrovare un po' di equilibrio, incontrare gente normale e osservare le facciate delle case imbevute della storia di questo quartiere.
Ma non basta. New York vive le sue molte contraddizioni, fra poveri e ricchi, come ogni altro luogo sulla terra e potrei amarla di più se non fosse il cuore dell'impero, una bugia raccontata al mondo. Se non fosse per la presunzione degli americani di sentirsi migliori, per la loro follia di pensare Dio sempre dalla loro parte, di credersi investiti della missione di portare in tutto il mondo il loro modello di vita. Se non fosse che milioni di vittime del loro imperialismo armato sembrano lasciarli indifferenti.
Se non posso amare la città posso però amarne la gente. Non credo che tornerò ancora a scrutare il volto della statua, ma sicuramente continuerò a guardare con ammirazione quello, arrabbiato o gioioso, di chi scende per strada, sfidando la repressione e accettando la possibilità del carcere, per cambiare le storture.
La prima volta che io e mia moglie ci siamo sentiti in sintonia con questa città è stato proprio in una di queste occasioni, quando una grande manifestazione contro la polizia razzista ha invaso pacificamente le strade del centro. Ci siamo timidamente inseriti nel flusso del corteo e abbiamo sfilato per le strade di New York, divenute improvvisamente familiari. Immersi in quella folla multicolore, abbiamo camminato assieme a loro, con le mani alzate davanti alla polizia, gridando: “Don't shoot”, non sparate. Quegli uomini e quelle donne attorno a noi ci hanno dato molta speranza. Forse per quella sola volta noi, cittadini del mondo, ci siamo sentiti un poco anche cittadini di New York.

Santo Barezini

Note

  1. ”Come vive l'altra metà”. Il titolo era preso a prestito da una frase del Pantagruel di Francois Rabeleis: “La metà del mondo non sa come vive l'altra metà”. Il quinto capitolo è dedicato alla condizione dei migranti italiani a New York.
  2. Sulle musiche di Ennio Morricone Joan Baez scrisse e interpretò i testi per la colonna sonora del film: “Sacco e Vanzetti” di Giuliano Montaldo.
  3. Harvey Silvegrate: “Three Felonies a Day”, pubblicato nel 2009.