rivista anarchica
anno 45 n. 402
novembre 2015


autogestione

Il diritto di ricostruire

di Federica Rigliani e Alessandro Tettamanti


Il 6 aprile 2009 un terremoto distrugge la città dell'Aquila.
I primi interventi di aiuto e assistenza alla popolazione messi in atto dalla Protezione Civile seguono una logica emergenziale ed escludono i cittadini da ogni processo decisionale. Ma alcuni aquilani decidono di intraprendere un percorso di ricostruzione partecipato, opposto a quello imposto dalle istituzioni.
Riportiamo in queste pagine la storia del Comitato 3e32 e del loro progetto CaseMatte. Nel nome dell'autogestione e della partecipazione attiva.

A Fabrizio, ingegnoso artigiano, nostro compagno di lotte e nostro fratello di vita

L'Aquila (Abruzzo), 16 giugno 2010.
Una delle tante manifestazioni contro
la cattiva gestione della “ricostruzione”

Breve storia di una ricostruzione autogestita

di Federica Rigliani

Dopo il terremoto del 2009, il diritto della popolazione di partecipare attivamente alla ricostruzione viene negato. Le istituzioni realizzano progetti incentrati unicamente sull'assistenzialismo passivo. Ma alcuni aquilani decidono di riappropriarsi degli spazi cittadini, e...

Bisogna tornare indietro nel tempo per capire la storia di CaseMatte, indietro di sei anni, e riportare la testa all'orrore di una distruzione devastante che ha segnato in maniera repentina e immediata la fine di tanto, per alcuni di tutto. Un orrore roboante, un mostro terreno che dalla terra trasse la sua forza e sulla terra la rigettò, portando tutto via con sé quel 6 aprile del 2009. E la città dell'Aquila fu distrutta insieme alla miriade di paesini che costituivano il vasto interland della sua provincia.
La devastazione fu totale: uomini, donne, anziani, anziane, bambini, bambine e adolescenti rimasero inermi e silenziosi. Il giorno dopo, la mattina del 7 aprile, il grande esodo disgregava già la comunità aquilana in “quelli della costa”, oltre 40000 persone, e “quelli delle tende”, quest'ultimi abitanti inesistenti di gironi infernali il cui silenzio era rotto solo da tonfi di ciò che continuava a cadere giù scossa dopo scossa, dal rumore dei grandi mezzi di soccorso dei Vigili del Fuoco e da quello dei motori di automobili di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza.
Attoniti e increduli, nei giorni immediatamente successivi al terremoto siamo rimasti inerti spettatori, poi lentamente pensieri fino a quel momento sopiti sotto il peso della tragedia hanno ricominciato a fare capolino e noi abbiamo sentito fortissimo il bisogno di vederci. Ma in tutto il territorio si stava dando una militarizzazione senza pari e nelle tendopoli si generava, giorno dopo giorno, uno stato di polizia sempre più stretto e asserragliante.
I diritti “normali” venivano negati in nome di un'”emergenza” che non ha mai voluto tenere conto degli individui che lì abitavano. Non solo non potevamo incontrarci, non potevamo nemmeno vedere parenti e amici se non dopo aver esibito i documenti, più volte al giorno fotocopiati dai volontari che le gestivano, ogni qual volta volessimo entrare in una tendopoli di non appartenenza.
Era snervante e umiliante. Era iniziato il grande esperimento Modello L'Aquila, quello che ci avrebbe portato a un assistenzialismo passivo da ricevere a testa china e spalle basse. La cooperazione e la partecipazione attiva in quelli che diventavano i nuovi spazi del “vivere”, se così si possono chiamare i non luoghi di quel limbo durato molti mesi, venivano negate in nome di un'efficienza che poteva essere garantita, a detta della Protezione Civile che aveva preso in mano tutto, solo dai volontari della Croce Rossa e della Misericordiae per fare qualche esempio, senza continuare la lista e dilungarmi sugli acronimi. Così fu negata, con decisione autoritaria, la ripresa di una normalità esterna e interna ai campi.
Fuori, nelle strade che percorrevi, incontravi solo divieti, sbarramenti, infinite Zone Rosse delimitate da transenne e militari ad ogni angolo che esercitavano un forte controllo, mentre tu, sgomento, eri solo alla ricerca di familiarità, di storie personali, di spazi e luoghi che ti apparivano altro, perché sepolti o polverizzati, ma lì eri cresciuto e lì cercavi di ritrovare un ricordo da trattenere.
Non era più normale camminare per strada. E non ci si poteva più incontrare. Dentro, nelle tendopoli, si costruiva una realtà assistenziale che impediva partecipazione e presenza, quando era enorme il bisogno di partecipare alla costruzione di una normalità alla quale ognuno avrebbe potuto contribuire con quello che sapeva e poteva fare, con le proprie capacità e le proprie forze. Il divieto imperava. Nulla era possibile. Nessuna donna abruzzese ha mai potuto mettere piede in una mensa per gestirla in maniera condivisa, né per cucinare in turni, né per garantirne la pulizia e l'ordine. Nessun produttore locale ha potuto mai rifornire quelle mense con i prodotti che ancora poteva assicurare e anche l'economia a chilometro zero, rinchiusa nell'impossibilità di esistere, cominciò a languire: tutto ciò che si consumava veniva da fuori, persino latte e pane. Nulla di ciò che si organizzava e si decideva passava da cittadini e cittadine che avrebbero dovuto, invece, essere messi nella condizione di riappropriarsi di qualche piccolo ritmo di normalità e, soprattutto, sentirsi parti attive e ancora vive in un cratere in cui era difficile anche emettere suoni, voci, lamenti... Invece, potevi solo stare seduto, aspettare e metterti in fila. Aspettavi che arrivassero i Sebach, gli antibiotici, gli stabilizzatori dell'umore, l'ora dei giochi ricreativi per i bambini e ti mettevi in fila per la colazione, per il pranzo e per la cena. Aspettavi passivamente e senza partecipazione alcuna, tra una goccia e l'altra di antidepressivi i più colpiti, gli altri sotto il disagio dell'impossibilità di continuare ad essere presenti e sentirsi, in qualche modo, seppur in quel assurdo modo, vivi.
Assistiti in tutto, con la testa china su un tempo sospeso e dilatato dall'inazione. L'assistenzialismo vinse e la popolazione tutta fu ridotta a un numero ingente di persone passivizzate in tutto: “La calamità è stata affrontata in modo paternalistico e centralista” diceva David Alexander, esperto europeo di grandi disastri e curatore di una ricerca sul post terremoto in Abruzzo.
In pochissimi giorni cominciò a diventare sempre più disumanizzante sottostare alle leggi di una Protezione Civile che negava partecipazione a persone pensanti e bisognose di sentirsi operative, ma in tanti sentivamo l'importanza di esserci, discutere e proporre. Volevamo sentirci cittadini attivi nel processo di ricostruzione di una città stretta nella morsa delle macerie e illuminata solo dai fari di passerelle mediatiche che si accendevano sul silenzio delle nostre crepe. Nessun'alba si sarebbe affacciata per risvegliarci da quello che non era un incubo, ma un luogo dove incontrarci non ce l'avevamo.

Due immagini di Fabrizio Pambianchi, a cui è dedicato questo
dossier, uno dei protagonisti del collettivo 3e32

Una prima sistemazione autonoma

Il 19 aprile del 2009 ci siamo dati appuntamento in un piccolo parco pubblico, il Parco Unicef, lungo una via disabitata, via Strinella. In men che non si dica il Parco Unicef si è colorato di tende, le nostre tende, e di camper, i nostri camper. Poi arrivarono i raccordi dell'acqua, i tubi per portarla in una cucina che giorno dopo giorno prendeva forma con quel lavandino di lamiera che raccoglieva le pentole sporche... Il comune donò un tendone per le riunioni, arrivarono tavoli e sedie e iniziò una gestione dal basso con turni per la pulizia degli spazi. In poco tempo il Parco Unicef era diventato la nostra “autonoma sistemazione”, lontano dalla fiscalità e dai controlli delle tendopoli, un'infrastruttura autogestita lontana dalla militarizzazione. Questo parco fu il primo punto d'informazione cittadino grazie a un Medialab con connessione Internet e postazioni computer; un luogo di ospitalità anche per studenti fuori sede; un luogo di aggregazione di un tessuto umano e sociale fortemente, se non quasi completamente, disgregato.
Qui è nato il Comitato 3e32, grazie a donazioni e attività di autofinanziamento nel parco Unicef, presto diventato per tutti “Piazza 3e32”. Qui altri comitati cittadini che si andavano costituendo - Collettivo 99, Rete Aq, Immota Manet - e diverse associazioni si sono incontrati per discutere i progetti che si volevano imporre in quello che, in 28 secondi, era diventato il “cantiere più grande d'Europa”. Obiettivo comune: seguire in maniera partecipata e attiva la ricostruzione della nostra città e dei comuni interessati dal sisma, ripartire immaginando un modo di vita per chi restava: soprattutto gli anziani che non avevano intenzione di lasciare la loro terra e le generazioni giovani e quelle future. Venne deciso da subito il “No” alla realizzazione del Progetto C.A.S.E., ovvero le 19 new-towns che vennero ben presto costruite fuori città per “gli sfollati”.
Gruppi di lavoro aperti a tutti si sono occupati di mappatura e contatti tra le tendopoli, monitoraggio fondi e appalti, informazione e comunicazione, raccolta fondi ed elaborazione progetti. Qui abbiamo potuto riprendere la parola. Da qui è stata promossa un'attività culturale di cui tutta la città aveva bisogno: la prima iniziativa è stata organizzata il 25 aprile in una città distrutta, deserta, spaventata e muta.
A settembre del 2009, però, il parco è stato svuotato, ripulito e restituito al quartiere. Non si poteva pensare di affrontare il freddo aquilano all'addiaccio e noi ci siamo posti il problema di dove poter continuare a incontrarci e promuovere attività sociali e culturali. Quale luogo potevamo immaginare sopra le nostre teste con un'intera città inagibile? Aspettavamo, intanto, risposte dall'amministrazione rispetto alle richieste da noi inoltrate per l'assegnazione di uno spazio. Volevamo restare, questo lo sapevamo, rimanere con i piedi su questa terra tremante, lavorare per ricostruire un tessuto sociale e favorire l'aggregazione umana e culturale nel deserto che ci circondava.
Ma le istituzioni e gli enti locali, che pure avrebbero dovuto esse stesse porsi il problema dell'aggregazione culturale e sociale dei giovani aquilani prima di ogni altra cosa, non rispondevano e la socialità cominciava ad aggregarsi all'interno dei pochi centri commerciali rimasti intatti, quelli che qualcuno ha la faccia tosta di chiamare “moderne agorà” in barba al rispetto che l'agorà merita. Così il nostro motto divenne: “Gli aquilani no all'Aquilone”, questo il nome di uno dei centri commerciali agibili da subito. Le istituzioni e gli enti locali però non agivano, tacevano e non rispondevano alle reiterate richieste da noi presentate sulla possibilità di gestire uno spazio culturale. Nonostante la contingenza rendesse questa richiesta sempre più impellente, non ricevevamo risposte.
Abbiamo pensato, allora, di riqualificare qualche zona di quelle non a rischio, lievemente danneggiate dal sisma e possibilmente vicine al casco storico cittadino, quindi fruibili da tutti. Contro ogni dispersione. Abbiamo analizzato varie possibilità, poi abbiamo guardato con attenzione un piccolo stabile all'interno del parco dell'ex Ospedale Psichiatrico di Collemaggio, una bellissima città giardino della fine dell'800 proprio dentro la città dell'Aquila.
La struttura individuata era un ex bar, in disuso e abbandonato a se stesso molti anni prima del terremoto. Quello poteva essere il posto da recuperare, così ce lo siamo preso e lo abbiamo ristrutturato con la motivazione e il lavoro di tutti. Volevamo iniziare un percorso di condivisione e impegno sociale, sperimentare il lavoro con gli altri e vivere nuove pratiche di autogestione condivisa.
Volevamo ricostruirci da soli e dal basso, non farci ri-costruire. Non volevamo più vivere l'emergenza, ma iniziare un percorso di autocostruzione e autorganizzazione. Così, ci siamo ritrovati in un piccolo bar all'interno di un grande parco, quello dell'ex ospedale Psichiatrico di Collemaggio, un'area in cui le case erano un tempo “matte dentro” per la tipologia degli ospiti. Da qui guardavamo le case della città intorno, tutte rotte, case “matte dentro e fuori...”. Avevamo trovato il nome!

L'Aquila (Abruzzo), Quattro Cantoni e Piazza Palazzo, 28 febbraio 2010.
Una delle “rivolte delle carriole”

Benvenuta CaseMatte

E il 31 ottobre abbiamo aperto CaseMatte, divenuta da allora la sede del Comitato 3e32. Quello che sembrava impossibile diventava reale, cantavano i ragazzi della Zona Rossa Crew, i nostri giovanissimi poeti rap delle macerie, e si discuteva intorno a una stufetta, che per quanto piccola e assolutamente insufficiente a scaldare lo spazio, scaldava i cuori e ci faceva sentire bene.
Il bar riprendeva forma e si vestiva di tutto ciò che arrivava dai proprietari di locali distrutti che recuperavano quanto possibile e ce lo donavano, lo spazio era abitativo per alcuni di noi e per chi aveva bisogno di un posto dove stare. Cominciammo a costruire il Medialab con postazioni di lavoro, attivammo la rete internet e ripristinammo vecchi computer in disuso. Convogliammo qui tutti gli aiuti materiali ricevuti: la fotocopiatrice donata da Epicentro Solidale, la Casetta delle Donne donata dalla Rete Ladyfest Roma, il tendone donato da Mauro Zaffiri, atto a assemblee ed eventi ma inadatto al freddo aquilano, quindi potremmo definirlo un “tendone stagionale”. Portammo avanti la logistica, operativa e efficiente, con tutti i nostri sforzi, con tutto il nostro entusiasmo e con le donazioni che ricevevamo.
Contemporaneamente si preparavano eventi culturali, concerti, presentazioni di libri e un'attività politica che ha permesso ai cittadini e alle cittadine aquilane di confrontarsi, fare proposte, organizzare campagne e forme di protesta.
Ciò che da qui è partito è sotto gli occhi di tutti, la città conosce le centinaia di manifestazioni e assemblee cittadine indette a CaseMatte sui problemi legati all'emergenza abitativa o alla richiesta di esenzione dalle tasse per restituirle con equità di trattamento rispetto agli altri territori colpiti da calamità, come è stato per esempio in Umbria. Da qui è partita la Campagna “100% Ricostruzione, Trasparenza e Partecipazione” e il Movimento delle Carriole che tanto smosse le autorità, locali e nazionali, riguardo il problema della rimozione delle macerie e il loro smaltimento. Carriole denunciate, perché la repressione è l'unica cosa che le istituzioni, troppo spesso, sanno esprimere.
Nel corso degli anni sono stati organizzati interventi di carattere sociale e politico-culturale vari: dalla tutela e valorizzazione del patrimonio ambientale e artistico, alla musica e allo sport, oltre a iniziative di sensibilizzazione sulla mafia e la legalità, sulla violenza sulle donne. L'acqua pubblica, la sostenibilità ambientale, lo stop al consumo di suolo e i gruppi d'acquisto solidale. Qui sono stati organizzati festival musicali, di poesia e di teatro, sempre orientati allo scopo di favorire la ricomposizione di una comunità cittadina e di un immaginario collettivo lacerati dal sisma e dalle condizioni di vita post-sismiche, all'insegna dei valori della solidarietà, del rispetto e della tolleranza reciproci.
Oggi CaseMatte vive di sottoscrizione, autofinanziamento e autogestione. Respira nonostante sia ancora tanta la polvere intorno, perché CaseMatte è un luogo vivo, aperto e socialmente attivo, dotato di una sala prove per gruppi musicali, di un laboratorio multimediale, di una tensostruttura adatta ad ospitare eventi, di un bar e di una cucina.  Mp5 e To/Let lo hanno vestito di forme e colori.
Dopo un anno lo abbiamo voluto festeggiare. Si auguravano a vicenda buon compleanno i redivivi notturni di un 31 ottobre che, qui all'Aquila, coniugò superbamente il mondo della finzione con quello reale. Halloween era metafora della nostra quotidianità: una città tomba in un buco nero, in cui i rumori della vita continuavano a essere un ricordo, circondato da quartieri dormitorio abitati da sepolti vivi. Siamo partiti da CaseMatte con la Murga romana di Spartaco che suonava tamburi e trainava, con un sound determinato e risoluto, tutti quelli che arrivavano per essere trascinati in un corteo che di funebre e tetro aveva solo i colori della tradizione di questa festa. Zombi da neri abiti, avvolti da ragnatele, filamenti gelatinosi e sangue immobilizzato in uno scroscio di plastica rosso si aggiravano ciondolanti e sorridenti nelle strade della città dell'Aquila. Visi tetri di trucco sì, ma allegri nell'animo e nelle azioni, chiamavano a sé cittadini e cittadine riemersi dalle nuove tombe, quelle del Progetto C.A.S.E. E di fronte alla porta de Ju Boss, antica cantina aquilana, vibravano alti i bicchieri nel battere del brindisi. Bicchieri sollevati da mani emaciate e bianche, le cui lunghe, lunghissime unghie disegnavano ombre mortifere sui calici. Quella notte abbiamo camminato tutti insieme le pochissime strade percorribili, contenti di sentirle di nuovo sotto i piedi.
Ma i veri regali sarebbero arrivati di lì a poco! Denunce e processi!
E siccome questo spazio, caratterizzato da un passato di Nosocomio Psichiatrico, ci ha accolti e in qualche modo salvati, noi abbiamo deciso di difenderlo. Due sono i fronti che oggi ci vedono impegnati, la riqualificazione dell'area e il Processo a CaseMatte.
E mai, come ora, il nome ci appare più adatto: casamatta s. f. [forse da casa matta, nel sign. di «edificio che ha l'apparenza di casa ed è invece ben altra cosa»] (pl. casematte). In origine, costruzione mobile che poteva essere usata tanto dagli assalitori quanto dai difensori [...] opera difensiva fissa, costruita dapprima al piede della scarpata esterna, per la difesa del fossato, poi nell'interno della cortina bastionata per contenere le bocche da fuoco (Definizione Dizionario Treccani).

Federica Rigliani



Necessità sotto processo

di Alessandro Tettamanti

Nel 2010 prendono vita a L'Aquila le “rivolte delle carriole” e CaseMatte è il centro nevralgico. L'organizzazione di queste manifestazioni attiva la macchina della repressione che dà vita a delle indagini culminanti in un procedimento giudiziale. La battaglia per mantenere in vita il progetto autogestionario è ancora in corso.


Il processo per l'occupazione di CaseMatte è giunto ormai agli sgoccioli. Il prossimo aprile infatti arriverà la sentenza. Iniziò nel 2011, quando una carta notificò a dodici persone la fine delle indagini e l'inizio del procedimento giudiziale. Concordandolo con gli avvocati, abbiamo subito rilasciato una dichiarazione spontanea in cui ammettevamo che sì, nel settembre 2009 eravamo entrati nell'area perché ne avevamo forte necessità. Non avevamo alternative ed eravamo fortemente intenzionati a proseguire le attività iniziate nel Parco dell'Unicef, ossia quel percorso di ricostruzione sociale partecipata che si opponeva alla logica neo-coloniale ed emergenziale della Protezione Civile. Per farlo avevamo bisogno di uno spazio: se non ce lo fossimo preso saremmo morti, come infatti successe a molti altri comitati che si erano formati all'indomani del sisma. Esercitammo in poche parole il diritto a resistere ad un sistema che non avevamo accettato e a cui ci sentivamo in dovere di opporci.
Molti fatti venuti a galla riguardo quello stesso sistema nei mesi e negli anni successivi hanno dato ragione alla nostra scelta del tempo. Molti di noi, inoltre, avevano rifiutato ogni assistenza ed erano rimasti fuori dal circuito pilotato dalla Protezione Civile. Decidemmo ancora una volta di continuare a contare sulle nostre forze e di essere coerenti con le scelte fatte. In un primo momento sembrava si fosse trovato anche un accordo con la proprietà dell'area, la Asl. Poi, però, nel gennaio del 2010 - tramite il sistema dello spoil sistem - il direttore dell'Ente cambiò e ne arrivò un altro, diretta espressione della nuova Giunta Regionale di centro-destra di Gianni Chiodi.
A febbraio 2010 iniziarono le rivolte “del popolo delle carriole”. In particolare la giornata del 28 segnò uno spartiacque: migliaia di persone forzarono le grate, difese dalla polizia, per entrare nella zona rossa del centro storico ed iniziare a rimuovere ordinatamente e collettivamente le macerie di cui L'Aquila era ancora pienamente composta. Gli incantesimi di Berlusconi, che volevano L'Aquila già ricostruita, venivano continuamente infranti: la sua vetrina mediatica era stata rotta e le immagini di cittadini aquilani che lavoravano su cumuli di detriti iniziarono a fare il giro dei media nazionali e internazionali.
La cosa evidentemente iniziò a dare fastidio ai piani alti. La protezione civile era andata via a gennaio, erano appena uscite anche le intercettazioni degli imprenditori che ridevano la notte del terremoto e i giudici stavano iniziando ad indagare sul nuovo modello di Protezione Civile che si stava addirittura trasformando in una SPA.
Il Comitato 3e32 a L'Aquila in quei giorni iniziò ad avere un enorme consenso. È come se - ascoltate le risate - migliaia di aquilani in più avessero iniziato a dire: “Allora avevano ragione quei ragazzi a protestare”.
Centro nevralgico della rivolta delle carriole - che durò in varie forme fino a maggio 2010 - era proprio CaseMatte. Non è un caso quindi se i primi esposti della proprietà con a capo il nuovo manager, contro la nostra presenza nell'area, risalgono proprio a quel periodo.

Un luogo divenuto pubblico

A maggio la polizia aprì le indagini: due mesi passati a spiarci da un palazzo inagibile antistante l'area in cui ci eravamo stabiliti e in cui ci muovevamo, ormai da mesi, senza nulla nascondere e alla luce del sole. Un luogo divenuto pubblico per eccellenza, forse l'unico in quel periodo, sempre pieno di persone e attività.
Durante la prima udienza, l'azienda sanitaria si è costituita parte civile chiedendoci una provvisionale di 50mila euro per danni al patrimonio e all'immagine.
Noi del comitato 3e32 abbiamo sempre risposto rilanciando, accusando la dirigenza della Asl di essere colpevole di aver abbandonato l'area con lo scopo probabilmente di svenderla appena possibile. In più, lo stesso manager che ci denunciava si rendeva protagonista di altri danni nei confronti della collettività, non utilizzando i 47milioni dell'assicurazione per il terremoto per ricostruire l'ospedale, che ancora vede alcuni suoi reparti nei container.
Una battaglia che dura ancora oggi e che ci vede impegnati da un lato a restituire un'area importante alla città e dall'altro a difendere la sanità pubblica ed il diritto alla cura dei cittadini.
Vedremo se ad aprile arriverà una condanna o un'assoluzione. Per noi il destino dell'esperienza di autogestione e di ricostruzione sociale comune di CaseMatte non si può decidere in un'aula di tribunale. La città tutta riconosce quest'esperienza come propria. Vedremo se arriverà o meno una soluzione politica.

Alessandro Tettamanti

Sopra e in basso: L'Aquila (Abruzzo) - Due immagini dello spazio occupato
CaseMatte, sede del Comitato 3e32


Lotta per il bene comune

di Federica Rigliani e Alessandro Tettamanti

Interessi privati e speculazioni minacciano l'esperienza di CaseMatte. Così il collettivo cerca di sopravvivere, tra accuse, processi e burocrazia.

Da quando la Legge 180/1978 aveva imposto la chiusura degli ospedali psichiatrici, l'ospedale di Collemaggio ha attraversato anni di degrado e parziale utilizzo, solo alcuni dei padiglioni erano in uso prima del sisma. Il Progetto Obiettivo per la tutela della salute mentale sanciva, già dal 1994, la riqualificazione degli ex ospedali psichiatrici a patto che il ricavato di ogni vendita o affitto degli stabili annessi - compreso quello che volevamo concordare con le autorità e che non ci è stato mai concesso - fosse utilizzato per la realizzazione di progetti sulla salute mentale. Invece, qui si parla della vendita-svendita di questo spazio storico: 19 ettari e 27 edifici enormi perfettamente corrispondenti alla logica legata agli interessi privati di una becera speculazione che stende come un polpo i suoi tentacoli sul territorio. La Asl rivendica la proprietà dello spazio e il suo direttore generale Silveri dichiara: “prima di questa immissione sul mercato, si darà al Comune dell'Aquila la facoltà di stabilire la destinazione d'uso degli spazi sulla base degli indici di edificabilità”. Ci chiediamo: “In cosa si vuole trasformare Collemaggio?”.

Un luogo di creatività e diritti

“Il Comune ritiene quell'area unicamente vocata a spazio culturale, socio-sanitario e istituzionale.” dichiarò dopo il sisma l'allora assessora alla cultura Stefania Pezzopane. “Vendere è una follia”, disse, e si espresse anche sull'accanimento “contro questi ragazzi che lì, dal 6 aprile 2009, svolgono attività culturali e sociali che vedono un'ampia partecipazione della cittadinanza. La loro presenza può essere facilmente regolarizzata, come è avvenuto per l'occupazione di molti altri spazi pubblici. [...] senza creare inutili conflitti verso un mondo giovanile che di spazi ne ha già persi tanti e che è drammaticamente alla ricerca di una nuova socialità.”
Invece, le autorità hanno denunciato alcuni occupanti di CaseMatte, e CaseMatte ha risposto difendendosi e difendendo, oltre la memoria che questo luogo mantiene e custodisce, il luogo stesso da speculazioni e vendite.
Perché Collemaggio significa molto per la comunità aquilana. È la collina del dolore, delle camicie di forza, degli elettroshock, dei luoghi preclusi e reclusi, della privazione e della follia. Da sempre “luogo chiuso”, si “è schiuso” per trasformarsi nell'unico spazio “aperto” di cui disporre, l'unico che può indicare una strada realmente percorribile nell'idea di riappropriazione sociale e riutilizzo di un bene comune. La nostra idea, infatti, è che da luogo della contenzione e dell'istituzionalizzazione diventi luogo della creatività e dei diritti. Per questo abbiamo costituito un cartello di soggettività, collettivi ed associazioni che insieme vogliono iniziare a buttar giù un progetto comune sull'area. I tempi infatti stringono. La Asl ha trasferito altrove praticamente tutti i suoi uffici e CaseMatte sta rimanendo l'unica realtà all'interno dell'area.
Un isolamento che va rotto. Per questo alcune associazioni del cartello che abbiamo composto, alcune dee quali si appoggiano già dentro CaseMatte, hanno fatto formale richiesta di stabili agibili all'interno dell'area. Qualcosa la Asl dovrà pure rispondere. Nel frattempo, stimolati da noi, Comune e Regione hanno iniziato a parlare sul futuro dell'area. Si è iniziato a ventilare di un comodato d'uso al Comune per 99 anni, una soluzione che per noi sarebbe una vittoria perché sbloccherebbe lo stallo creatosi finora.
Tuttavia sappiamo di non poterci fidare delle promesse della politica istituzionale e dei suoi tempi. Per questo siamo pronti, se necessario, a mettere in campo azioni conflittuali, per il bene comune dell'area e affinché l'esperienza di CaseMatte continui.

Federica Rigliani e Alessandro Tettamanti

Sostieni CaseMatte:
CASSA DI RISPARMIO DELLA PROVINCIA DELL'AQUILA (CARISPAQ) IBAN: IT68O0604003601000000156830, causale: CaseMatte