rivista anarchica
anno 45 n. 402
novembre 2015


 


«La trattativa» di Sabina Guzzanti/
Un esempio di distribuzione alternativa (che funziona)

La trattativa di Sabina Guzzanti, una docu-fiction (2014, 108 minuti, distribuzione BIM) puntualmente documentata e dichiaratamente ricostruita (fiction), è uscita ormai da un anno. La Guzzanti ne è regista, soggettista, sceneggiatrice e interprete.
Tutta la poderosa ricerca che sta dietro e tutto il racconto si fondano sugli atti giudiziari che riguardano le stragi degli anni Novanta e sulle testimonianze o dichiarazioni di personaggi che vi hanno avuto in un modo o nell'altro un ruolo di primo piano. «La trattativa» finisce per essere una dimostrazione inequivocabile della collusione tra stato e mafia - collusione tanto intima e ben rodata da non riuscire più a separare i due termini -, del ricorso pressoché sistematico alla mafia da parte dei servizi segreti per condizionare la politica, della conseguente deriva della democrazia verso un fascismo sotterraneo. È un film che scuote, che interroga, che svela anche l'incredibile e quindi da masticare a lungo, non da digerire inconsapevolmente ma da metabolizzare lentamente.

Gli interpreti sul set de “La trattativa”

La modalità teatrale scelta era forse l'unica percorribile. Costruita però rigorosamente con trasparenza. Un grande merito dell'opera della Guzzanti sta infatti nell'abilità con cui ha saputo mixare ricostruzione e realtà, rendendo sempre esplicita la prima, quasi per un obbligo di sincerità, ma facendo emergere con forza inequivocabile la veridicità, tutta documentata, delle vicende delittuose, omertose, collusive tra poteri politici, istituzioni, mafia.
È vero, qualcuno potrebbe obiettare che quanto «La trattativa» sia ben documentata e rigorosa lo si dovrebbe chiedere ai magistrati che se ne sono occupati. Noi come pubblico possiamo fidarci o dubitare di Sabina Guzzanti; il margine di dubbio lasciato dai fatti accertati e dalle testimonianze appare però davvero sottile. Io l'ho sentito onesto, addirittura sobrio, senza cedimenti alla tentazione (quasi inevitabile vista la melma) di inondare lo spettatore di sospetti su tutto e su tutti; niente eccessi, nessuna insinuazione.
Un film crudo, senza fronzoli e per questo ancora più implacabile nel chiamare una reazione, un rifiuto, una ribellione. Perché la trattativa continua e l'obiettivo dichiarato di Guzzanti è dipanare la matassa della collusione, renderla visibile e leggibile, comprensibile e dunque privarla di quell'aura di mistero e di segretezza istituzionale che la rende inattaccabile, che genera quel grandissimo senso di impotenza che purtroppo conosciamo e al quale il più delle volte ci rassegniamo.
Il suo lavoro si accompagna a quello della magistratura; vuol far conoscere e diffondere quello che rischia spesso di essere ignorato, vuole allargare qualche falla nella corazza costruitasi dallo stato-mafia. Come scriveva Attilio Bonzoni su la Repubblica, è crollato il muro dell'omertà mafiosa ma non è mai crollato il muro dell'omertà di stato.
Non si può negare che il film, presentato fuori concorso al Festival di Venezia 2014, sia stato boicottato: quasi nessuna pubblicità, brevissima presenza nelle sale, nessuna distribuzione attraverso i canali ufficiali. Forse è anche una dimostrazione della sua efficacia e «pericolosità». Come una dimostrazione della sua validità sta nel fatto che ad oggi vi siano state 700 proiezioni grazie alla distribuzione “alternativa” che, creando una rete capillare, ha portato il film in ogni angolo d'Italia e anche oltre confine.

Paola Pronini



Lotta senza confini
al minerale di ferro

Il seminario internazionale a cui ha partecipato l'autrice del libro Legami di ferro (Narcissus self-publishing, 2015, disponibile solo in versione e-book, € 0,99) Beatrice Ruscio, in rappresentanza dell'Associazione ecopacifista PeaceLink, è stata un'importante occasione per far emergere la questione di Taranto dal contesto locale, per unire questa lotta a un movimento internazionale di mobilitazione e resistenza contro gli immani e inesorabili progetti delle imprese e delle multinazionali che vogliono ottenere il massimo profitto a costo di devastazioni ambientali, pregiudicando così la vita e la salute di intere popolazioni. Il denominatore comune che unisce le città di Taranto e di Piquià de Baixo si chiama minerale di ferro: la stessa polvere proveniente dal Brasile e estratta nelle miniere della multinazionale Vale è poi esportata in tutto il mondo.
Il libro racconta una bella storia di solidarietà tra l'Italia e il Brasile. È la storia di Taranto e di Piquià de Baixo in Amazzonia, inesorabilmente collegate dal drammatico filo conduttore di due disastri ambientali, provocati dalla polvere che è alla base del processo siderurgico, ossia il minerale di ferro: inquinamento ambientale e diritto alla salute uniscono Piquià de Baixo e il Quartiere Tamburi di Taranto, Ilva e Vale, in una stretta relazione, in giochi di forza e di potere dall'alto e di movimenti sociali in lotta dal basso. Il minerale di ferro, che viene estratto dalle miniere del Carajàs, nella foresta amazzonica brasiliana, arriva anche all'Ilva di Taranto. Il ciclo siderurgico provoca inquinamento e ingiustizia a livello globale. Per questo motivo, una visione globale deve accomunare le lotte locali, per affrontare un razzismo ambientale che lede i diritti umani di molti abitanti del pianeta: dei popoli discriminati e martoriati dei tanti “sud” del mondo.
In realtà, il mondo non ha bisogno di tutto l'acciaio che viene prodotto. Ma il sistema economico produce in funzione del profitto e dello sfruttamento massimo della capacità produttiva, e non in funzione dei bisogni reali e effettivi. Sostenere questo modello siderurgico predatorio significa alimentare la produzione delle cosiddette grandi opere, inutili e dannose, e il consumismo dell'industria bellica e automobilistica.
La multinazionale Vale dichiarava che lo sviluppo dell'industria sarebbe stata un'occasione di arricchimento umano e sociale per quella regione, con il rispetto dell'ambiente e delle persone. Al contrario, è sempre prevalsa la logica del guadagno, dello sfruttamento e del massimo profitto dell'industria. Sostanzialmente, solo pochi si sono arricchiti, a discapito della natura, depredata e vilipesa, e dei lavoratori, che lamentano spesso condizioni di estremo sfruttamento, e dell'intera collettività, che in realtà non ha mai visto le promesse di benessere e progresso tanto declamate e millantate.
“Il viaggio di PeaceLink in Brasile ha consentito di tessere i fili di un'alleanza globale che va oltre la questione ecologica: è un'alleanza per la difesa dei diritti umani e per una nuova economia di giustizia”, afferma Alessandro Marescotti, Presidente di PeaceLink, nell'introduzione al libro. Nel testo, l'approccio alla questione ambientale e ecologica diventa un'occasione di conoscenza davvero innovativa, unendosi alla grande tematica della giustizia sociale, in una panoramica globale che permette di interpretare l'ecologia e l'economia in una visione di giustizia sociale e solidale, per cui tramite l'incontro tra persone, accomunate dallo stesso dramma, si concepiscono le ragioni autentiche dello stare insieme, in un'”ecologia di persone”, per una giusta lotta comune a favore del diritto alla vita e alla salute: per i diritti umani.
La lotta per spezzare la violenza e la protervia del ciclo siderurgico mondiale ha conosciuto diversi epicentri del conflitto ambientale, disseminati in tutto il mondo, dall'India al Brasile. Da una parte all'altra del globo intere popolazioni subiscono tremende ingiustizie ambientali e lottano per vedere rispettati i propri diritti di esseri umani. L'autrice paragona il viaggio in Brasile a un salto in una realtà parallela a quella di Taranto, con tante differenze culturali, economiche, ambientali, ma così incredibilmente simile e unita da legami di solidarietà forti, indistruttibili, di gente forte, unita da “legami di ferro”, indistruttibili.

Laura Tussi



Prima guerra mondiale,
cent'anni di bugie

Dove sono i morti, i mutilati, i milioni di corpi irriconoscibili (il Milite Ignoto li riassume tutti, un unico soldato senza identità) perché ridotti a coriandoli? Dove vediamo i bordelli di Stato a ridosso delle trincee, i tribunali speciali e le decimazioni? Dove i pescecani che rubarono su divise, scarpe, armi? E dove i prigionieri lasciati morire dal governo italiano perché erano “vigliacchi”? Dove sono i vigliacchi veri cioè i generali, i primi a scappare, mai in prima linea? E dov'è l'inutilità di quella guerra? Dov'è la minoranza - comunque tante persone - che si oppose, disertò, sabotò, si ribellò?
Nulla di tutto ciò, neppure 100 anni dopo. Io seguo poco (quasi zero) l'informazione di regime ma ho fatto un'eccezione a ridosso del 24 maggio per vedere come partivano queste “celebrazioni”: se, passato un secolo di bugie, qualche piccola verità sarebbe stata detta ricordando dunque i poveri cristi ammazzati dagli Stati. Invece di esaltare, come sempre, chi volle i massacri. E di tacere i nomi di chi si arricchì sulla carne macellata... anche perché parlare di Ilva fa scattare “cattivi pensieri”.
Lo schifo assoluto. Ho visto perfino su Rainews-24 una ministra fare l'ultimo miglio (gli ultimi 100 metri?) di una corsa da tutt'Italia per ricordare quelli che partirono - perlopiù costretti, ma lei ovviamente finge di non saperlo - per il fronte cioè “per il re e per la patria”. Un giornalista strisciante chiede alla ministra se oggi dobbiamo ritrovare quel coraggio per combattere contro l'Isis (cazzo c'entra?) e lei subito parte in uno spot pro nuove guerre.
Pochissime eccezioni: siore e siori ammirate qui in gabbia un Panda cicciottissimo che dice la verità; purtroppo tutti gli altri li abbiamo ammazzati, ma guardate questo quant'è bellino e dimenticate il resto. Al solito. Anche più. Se qualche Panda, intorno al 24 maggio, ha provato a parlar male del militarismo o (sia mai) a collegare i massacri di 100 anni fa con quelli di oggi, a suggerire che le industrie di armi provocano le guerre, ecco i generali - ops, i giornalisti - di «Corserepubecc» urlare che no, quella strage fu necessaria come le prossime.
Ovviamente i libri di scuola sono quasi tutti addomesticati e ora nelle classi entrano i militari - per lo più senza contraddittorio - a dire cazzate sul '15-'18 (o sui due marò o sulle “missioni di pace”) ma anche a reclutare per l'oggi, persino “divertendo” i più piccoli con giochini nei quali si premia chi ammazza più nemici.
Nulla di particolarmente nuovo, ma forse peggio del solito. Proprio perché questa merda militarista dilaga, bisogna segnalare - quasi urlare - qualche antidoto. A partire da due libri preziosissimi.
Anzitutto i numeri veri. I morti italiani in 3 anni di guerra sono 650 mila. Mezzo milione i feriti gravi e mutilati ma anche 600mila prigionieri «abbandonati». Almeno 40 mila i soldati impazziti. «Un indebitamento estinto solo negli anni '80». Truffe «impunite» sulle spese belliche, fra gli imputati Ansaldo e appunto Ilva. Così in La grande menzogna (Dissensi editore, Viareggio – Lu, pp. 170, € 13,90) di Valerio Gigante, Luca Kocci e Sergio Tanzarella: rigoroso, chiaro, sintetico, coraggioso. Ecco verità che altrove non trovate. I cappellani militari a benedire le armi mentre il papa parla di «inutile strage»: al solito la Chiesa tiene dentro tutto, anche un sadico come Agostino Gemelli. Il generalissimo Cadorna che subito - circolare 268 dell'11 giugno 1915 - organizza i bordelli per soldati con prostitute che non possono circolare in libertà (detenute o se preferite schiave) ovviamente per ragioni di sicurezza.
Automutilazioni, suicidi e disturbi mentali come tentativi di fuggire dall'orrore. I carabinieri e gli ufficiali sparano alle spalle dei soldati italiani che esitano; i cannoni accorciano il tiro per impedire una ritirata. Le decimazioni contro i “riottosi”: un estratto ogni 10 per essere fucilato senza processo. Gli «intellettuali con l'elmetto». Perché dalla neutralità si passò all'interventismo? Il ruolo di banche e industrie. La truffa vergognosa sulle «spese per le forniture di guerra» del quale si è persa la memoria perché venne il fascismo e la coprì. Ecco «la guerra sui corpi umani» cioè l'evoluzione degli strumenti di morte. Poi «l'uso politico della memoria» cioè «i sacrari militari, religione civile della “nuova patria”».
Gli ultimi 3 capitoli sono utili tracce per proseguire: «”Maledetto sia Cadorna”, canzoni contro la guerra»; «Il cinema senza l'elmetto» e «Percorsi di lettura». Insomma quello che si tace nelle istituzioni e nei “grandi” media.
Altro libro importante, appena uscito, è Gli ammutinati delle trincee di un nostro compagno, Marco Rossi: pubblicato da Bfs (Pisa, 2014, pp. 88, € 10,00) racconta «Dalla guerra di Libia al Primo conflitto mondiale» con gli occhi di ribelli e disertori, unici veri eroi in tutte queste infamie.
Almeno per quel che riguarda l'Italia, «la sconfinata macellazione umana» e la fabbrica delle menzogne iniziano nel 1911 quando Giolitti dà il via all'aggressione contro la Turchia per conquistare la Libia. In quel periodo anche il rifiuto della guerra - talora in forma organizzata, spesso spontaneo - fa le sue prove. L'anarchico Augusto Masetti spara a un colonnello. Lo sciopero generale del 27 settembre 1911. Molte azioni di boicottaggio e sabotaggio contro i militari in partenza. I soldati che si ribellano (Novara, Este, Genzano, Verona... l'elenco, nelle pagine 27, 58-59 e 73-74, è impressionante). Poi - nell'agosto 1917 - la rivolta di Torino: 41 morti fra i dimostranti e 10 tra le forze dell'ordine ma... i giornali non ne scriveranno, censura totale.
All'origine della guerra libica, ci sono le ambizioni colonial-imperialiste. Anche i cattolici si accodano alla «missione civilizzatrice». In piccolo c'è nel 1911 quello che si vedrà dal '15 al '18: generali incapaci, soldati al macello, stragi, rappresaglie contro innocenti, stupri e donne costrette a prostituirsi con gran contorno di bugie, truffe, indebitamenti. C'è pure il triste record del primo (forse) bombardamento aereo con il tenente Giulio Gavotti. C'è Pascoli che si scopre nazionalista-populista («La grande proletaria si è mossa»). A dire quant'è bella la guerra svettano i futuristi; a suggerire che sia utile o comunque obbligata anche i socialisti riformisti.
Dentro il massacro '15-'18 c'è però «la guerra dentro la guerra» che prende varie forme e per molti (anarchici, socialisti o senza etichette) diventa un pilastro della coscienza di classe presente o futura: il rifiuto della Patria, la solidarietà con gli altri proletari, l'idea che l'unica guerra da fare sia quella «sociale» per abbattere il capitalismo. «Non tutti gli alti ufficiali “caduti in battaglia” vennero uccisi dal fuoco nemico»: come i regi carabinieri sparavano alle spalle dei soldati “recalcitranti” così talora le pallottole che tolsero di mezzo ufficiali italiani (si sa: il nemico spesso marcia alla tua testa) non erano austriache.
A rivoltarsi non soltanto i disperati nelle trincee. Ci sono «attivisti politici» che espatriano. E molti «disertori e renitenti» si danno alla macchia. «Spesso con il sostegno della popolazione» come «una comunità di disertori di Imola, autonominatisi Fratelli Ciliegia». Piccola, buona notizia che ci riporta a 100 anni dopo: «i fratelli Ciliegia» continuano a fomentare sovversione, posso garantirlo perché li ho incontrati da poco.
Le storie che Marco Rossi ripercorre sono tantissime: la carcerazione speciale e il «filetto giallo»; le infamie dei generali (soprattutto Luigi Cadorna e Andrea Graziani); l'appoggio alla guerra di Ernesto Teodoro Moneta.... «premio Nobel per la pace»; «il supplizio del reticolato»; un Giacomo Matteotti in prima fila contro il militarismo mentre altri dirigenti socialisti invece ricevono dalla polizia «un attestato di benemerenza» per il loro atteggiamento «patriottico».
Nei tribunali militari «870mila denunce, delle quali 470mila per renitenza; 350mila processi celebrati; circa 170mila militari condannati di cui 111.605 per diserzione [...] 4028 condanne a morte delle quali 750 eseguite»: a confermare l'ampiezza del rifiuto alla guerra. Le coraggiose, geniali vignette di Scalarini completano un libro che bisogna assolutamente leggere, far girare, presentare, “Gli ammutinati delle trincee” chiude accennando alle rivolte dei soldati che rifiutarono nel 1920 di andare in Albania: a Parma si distinse l'ex sottotenente Guido Picelli che sarà poi a capo degli Arditi del popolo, l'unica opposizione armata al fascismo degli esordi. «Il passo dalle trincee alle barricate era breve» conclude Marco Rossi. Ma questa naturalmente è un'altra vicenda.
Ho iniziato la recensione-invettiva con un «Dove sono...». Ma io credo alla responsabilità individuale e all'azione collettiva e dunque devo aggiungere: «dov'ero io? Dove siamo noi antimilitaristi?». Stiamo facendo il possibile in questo 2015 per contrastare le nuove guerre?

Daniele Barbieri



Camillo Berneri
né un martire né un irregolare

Il bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio storico, conferisce a ogni storia il carattere di “storia contemporanea”, perché, per remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni.
Benedetto Croce

Col libro L'inquieta attitudine (Kronstadt Edizioni, Volterra, 2015, pp. 105, € 5,00) Claudio Strambi si propone di trattare di Camillo Berneri in relazione alla vicenda politica dell'anarchismo in Italia.
Un obiettivo interessante a maggior ragione se si tiene conto del fatto che, come si afferma nella presentazione del libro “alcuni importanti lavori sulla figura di Berneri, pur di altissimo profilo dal punto di vista documentaristico, hanno teso a collocarlo con un piede e mezzo fuori dal movimento politico in cui ha militato tutta la vita e per il quale è morto (ci riferiamo all'anarchismo ovviamente). Oppure, in altri casi, il suo personaggio è apparso come una specie di “genio incompreso” alle prese con un contesto ottuso, sordo alle sue “geniali” sollecitazioni; un contesto insomma sostanzialmente indegno di ospitarlo. Il risultato è stato il permanere di una percezione media del pensiero e del personaggio, quanto meno discutibile.”.
Il libro ha quindi un'interlocuzione con una tradizione storiografica che ha teso a fare di Camillo Berneri essenzialmente un martire dell'idea, per un verso, e un irregolare dell'anarchismo, come se esistesse un anarchismo “regolare”, per l'altro.
In realtà basta considerare la ricchezza dei contributi che nella sua breve vita Berneri ha dato all'azione del movimento anarchico, sia sul terreno della riflessione che su quello dell'azione, per rendersi conto dell'infondatezza di interpretazioni di questo genere.
D'altro canto è un cattivo costume abbastanza diffuso quello di sopravvalutare la rilevanza dei singoli individui, di farne una sorta di santini, dimenticando che se hanno svolto o svolgono un ruolo di qualche rilievo nel movimento e nella società è perché esprimono in qualche misura punti di vista ed esigenze condivisi.
In realtà quindi pensare a Berneri fuori dall'incessante attività volta a realizzare un processo rivoluzionario, in Italia e non solo, significa in realtà liquidarne il contributo e ridurre lo spessore e la complessità della sua figura. Ed è proprio su questo punto che a mio avviso la riflessione di Claudio Strambi è particolarmente interessante.
Scrostata la figura di Berneri da ogni mitizzazione e collocatala e dato il giusto peso ad opinioni non condivisibili che pure aveva, si pensi alla questione femminile, si individua la questione centrale, il ruolo dell'azione politica nella sua vicenda e in quella del movimento fra le due guerre.
Giustamente Claudio Strambi pone l'accento sul fatto che,nonostante le difficoltà e l'affermazione del fascismo e dello stalinismo, il movimento anarchico negli anni 20 e 30 del secolo scorso era una realtà fortemente radicata nel mondo popolare in diversi paesi dell'Europa come dell'America Latina ed era, di conseguenza, un soggetto politico capace di significative iniziative.
Camillo Berneri si propone di lavorare per valorizzare questa dimensione dell'anarchismo affrontando, fra l'altro, una deriva che allora si manifestò, quella che Strambi definisce la “tipicità” anarchica.
Vale la pena su questo argomento di citare un breve brano dal libro .
“La storia di Berneri nell'anarchismo è una storia di tensione fortissima con la “tipicità” anarchica. Per “tipicità” si intendono quei modi di essere e di pensare, radicati nelle consuetudini, che si stratificano nel tempo in ogni movimento popolare, addivenendo ad un certo grado di standardizzazione collettiva.
La “tipicità” svolge una funzione essenziale nella vita di ogni movimento politico, in termini di stabilità e di senso di sé, ma è anche un fattore intrinsecamente conservatore ed anti-dinamico”.
A mio avviso su questo tema varrebbe la pena di interrogarsi più a fondo. Se in un movimento che si vuole rivoluzionario si affermano attitudini conservatrici ed antidinamiche, è probabilmente l'effetto di una situazione che spinge molti militanti a darsi come obiettivo, come primo se non unico obiettivo, la salvaguardia di un'identità e di una tradizione che vengono percepite come a repentaglio, in una fase nella quale si riduce ogni reale speranza di porre in essere un'attività rivoluzionaria efficace.
Non credo, a questo proposito, sia un caso se nel secondo dopoguerra, l'egemonia culturale sull'anarchismo italiano, l'abbia avuta la narrazione, affascinante e rapinosa quanto si vuole, di Armando Borghi, il cui unico e reale obiettivo era, con ogni evidenza, la costruzione di un monumento a se stesso e al movimento come non credo sia un caso che “gli” eretici dell'anarchismo di allora siano tristemente finiti nel bolscevismo o nella socialdemocrazia.
Non voglio con ciò sostenere che sia impossibile, in fasi storiche controrivoluzionarie l'esistenza di una corrente rivoluzionaria vitale, diciamo che è straordinariamente difficile.
In fondo, la vicenda esistenziale di Camillo Berneri corrisponde pienamente alla chiusura di un ciclo storico, la sconfitta della rivoluzione spagnola, la seconda guerra mondiale, la mancanza assoluta di un ciclo rivoluzionario seguente la guerra e la divisione del mondo in blocchi contrapposti chiudono un epoca e solo decenni dopo, ma questo è un altro discorso, si riapre la partita.
Detto ciò quello che a mio avviso è il nucleo centrale del lavoro di Claudio Strambi, è pienamente condivisibile, il movimento che ha come fine l'abbattimento del capitalismo dello stato o affronta nei fatti il problema delle “approssimazioni progressive” alla rivoluzione sociale o è custode di memorie magari gloriose ma ineffettuali.

Cosimo Scarinzi



L'articolata evoluzione
del movimento anarchico in Italia

Il volume di Antonio Senta edito di recente da Elèuthera (Utopia e azione. Per una storia dell'anarchismo in Italia (1848-1984), Milano, 2015, pp. 255, € 15,00) è particolarmente prezioso per due motivi. Il primo: va a colmare un buco, offrendo una sintesi completa – per quanto irrimediabilmente stringata, vista la vastità e la complessità della materia in gioco – del movimento in Italia (“e non italiano in generale”, cioè fuori dalla penisola, come specifica l'autore). Il secondo: dà grande spazio a figure minori o meno conosciute, consentendo al lettore di farsi un'idea chiara di quanto fosse viva e molteplice la riflessione e la pratica libertaria. Una ragione ulteriore per evitare le secche di una storiografia dogmatica e lineare di un movimento che è sempre stato l'esatto opposto.
La storia comincia con i precursori del Risorgimento, da Pisacane al federalista Giuseppe Ferrari: eredi dell'Illuminismo lombardo, guardano molto più a Proudhon che a Marx seminando i primi germi di anarchismo nelle azioni rivoluzionarie dell'epoca, ancora per gran parte legate alla questione dell'unità nazionale. La spinta verso la prospettiva libertaria si accentua con alcuni articoli seminali di Bakunin, trasferitosi a Napoli nel 1865. Lentamente, l'asse dei progetti si sposta sempre più verso i temi sociali: anche l'adesione “da indipendente” di Garibaldi all'Internazionale contribuisce a questo scatto in avanti del movimento.
Sono gli anni in cui l'anarchismo italiano forgerà la sua prima vera identità. Nella sezione locale dell'Internazionale troviamo Costa, Cafiero, Ceretti e Malatesta, impegnati sia nell'educazione pubblica delle masse sia a portare avanti la lotta clandestina. I giovani rivoluzionari “si ritrovano per le vie dei quartieri popolari e in birreria, nei retrobottega dei barbieri e dei pizzicagnoli, nei laboratori artigiani e la sera, dopo il lavoro, in case private”; si moltiplicano i fogli e le riviste; nascono le prime canzoni anarchiche; e soprattutto cresce la partecipazione femminile – testimoniando come l'Internazionale italiana abbia a cuore non solo la vittoria di classe, ma l'emancipazione di ogni rapporto umano.
A segnare uno spartiacque sono l'azione insurrezionale nel Matese, sconfitta dopo pochi giorni, e la svolta legalitaria di Costa: momenti esemplari che testimoniano da un lato la progressiva mancanza di spazi per gli anarchici, chiusi da un lato dalla repressione crispina e dall'altro dal nascente riformismo. La conflittualità sociale, tuttavia, non si placa: ma la confusione del momento favorisce azioni di propaganda isolate e particolarmente violente che poco giovano alla causa. La fine del XIX secolo – dove peraltro si sviluppano le prime comuni collettiviste, come quelle di Giovanni Rossi – ha l'odore acre delle cannonate di Bava Beccaris a Milano e una lunga serie di arresti di militanti rivoluzionari: e il Novecento si apre con un altro sparo, quello di Gaetano Bresci al cuore di Umberto I.
L'attentato genera un ampio di battito sulle riviste del movimento, mostrando con chiarezza le varie differenze d'opinione riguardo l'uso della violenza (basti pensare alla polemica dell'anno successivo fra due grandi come Fabbri e Malatesta di fronte all'omicidio del presidente americano William MicKinley). I mutamenti sociali del Paese e lo scoppio della Prima guerra mondiale complicano ulteriormente la situazione, ma aiutano anche a rinserrare le fila: a conflitto terminato l'Italia è attraversata da rivolte in gran parte guidate dai libertari. La rivoluzione, come tante altre volte, sembra a un passo; e invece si spegne nel settembre del 1920. L'anno successivo alcuni anarchici fanno esplodere una bomba al caffè Diana di Milano, per colpire il questore che ha imprigionato Malatesta: ventuno i morti. L'azione terroristica segna un punto di non ritorno del movimento, cui si somma la presa del potere del fascismo.
Gli anni del regime costringono di nuovo molti militanti alla clandestinità o alla fuga, mentre la polizia si prodiga per rendere loro la vita impossibile: la morte solitaria di Malatesta nel 1932 è un simbolo della situazione. E tuttavia, benché ridotto a una dimensione carsica, il movimento non si ferma. Volantini e manifesti continuano a essere diffusi nei modi più creativi; vi sono progetti di uccidere il duce (come quello di Michele Schirru, che pagherà con la vita); nel 1936 Camillo Berneri e altri compagni partecipano alla guerra antifranchista a Barcellona. E quando cadrà il fascismo e si svilupperà l'ampio movimento di Resistenza, gli anarchici saranno sempre in prima linea con generosità – spesso i primi a prendere le armi.
Il dopoguerra si apre con un congresso a Carrara. È un momento chiave per la storia del movimento libertario: le divergenze e i contrasti sono molti, spesso anche dettati dalle distanze generazionali, e le opzioni sul tavolo per strutturare l'organizzazione sono le più diverse. Alla fine viene raggiunto l'accordo di fondare la FAI, ma di lì a poco l'unità rivendicata si disperderà in vari rivoli: a testimoniare “l'ibridismo del movimento anarchico del primo decennio del dopoguerra, oscillante tra organizzazione politica e istanza sociale ed etica”. Stretta fra blocco comunista e blocco democristiano, l'opzione libertaria soffre per anni di isolamento e difficoltà, ma come sempre non si spegne: anzi. Si moltiplicano le lotte per il lavoro, l'occupazione delle case, la produzione di nuovi periodici (fra cui ricordiamo lo sperimentale Gioventù Anarchica, e naturalmente Volontà), più qualche azione eclatante, come il rapimento del viceconsole spagnolo Isu Elías per evitare la condanna a morte dell'antifranchista Valls.
Le istanze anarchiche troveranno nuova fortuna con l'avvento del Sessantotto, che a sua volta porterà aria fresca nel movimento stesso. L'agitazione politica del periodo, in particolare quella studentesca, ha un'ampia connotazione libertaria: il Maggio francese si salda ai conflitti italiani in una comune battaglia alla struttura gerarchica della società. Sappiamo purtroppo cosa successe poco dopo: la strage di piazza Fontana e la morte di Pinelli. Di fronte a questa spaventosa reazione delle forze conservatrici, gli anarchici cominciano subito un lungo lavoro di controinformazione e continuano nella loro opera di sviluppo e rinnovamento interno (nel 1971 nasce proprio A, e nello stesso anno al congresso di Carrara della FAI l'affluenza giovanile è straordinaria).
“La strada è il luogo della politica, una politica che, è direttamente, vita”. Cominciano gli anni Settanta e con loro la lunga serie di lotte che li distinguono: per poi sclerotizzarsi nel riflusso di fine decennio e nell'inasprimento della repressione da un lato e dell'opzione militare dall'altro (verso cui molti anarchici riservano critiche sia dal punto di vista strategico che morale). Nella crisi dell'immaginario rivoluzionario cade anche l'anarchismo: i primi anni Ottanta sono descritti da Senta come un momento di necessario ripensamento e di riscoperta di alcuni autori stranieri meno conosciuti (come Ward o Bookchin) ma anche di grandi classici del pensiero. Lo stesso principio anarchico sembra lentamente mutare più in un'etica o una sensibilità che in un progetto politico. Forme nuove di agire contro “il dominio dell'uomo sull'uomo”, ma sempre legate a quell'inestricabile nesso di utopia e azione – appunto – che ha sempre attraversato la storia libertaria.
A libro chiuso, resta solo la speranza che l'autore stesso o qualcun altro completi il lavoro, scrivendo dei movimenti e delle prospettive dell'anarchismo dal 1984 ad oggi: spesso registrate in presa diretta da riviste e blog, ma ancora non ricostruite in una monografia.

Giorgio Fontana




Burkina Faso/ Il golpe

Sullo scorso numero Valeria De Paoli, nella sua rubrica “Senza confini”,
ha riferito della situazione in Burkina Faso.

Ora un golpe militare, poco prima delle previste elezioni, ha stravolto la situazione.
A caldo, Valeria ci ha inviato il suo commento al golpe
.



Dal repubblicanesimo all'anarchismo/
Storia di un sovversivo

“L'anziano, emaciato e distinto, procedeva lentamente, strascinando i piedi impercettibilmente ma diritto come un fuso. Sfoggiava l'abbigliamento canonico da paziente fuori stanza: pantaloni di pigiama color nocciola e giacca da camera marrò, sciallata a scacchi scozzesi e allacciata da una cintola cchi giummi. In testa calzava il tradizionale basco nero col piripicchio e ai piedi le rituali pantofole a stivaletto in feltro, di fantasia tendente al giallino, con due fibbie in metallo brunito. Si appoggiava leggermente, per vezzo più che per necessità, ad un bitorzoluto bastone da passeggio dal manico a pomo sferico. Quando ci scorse, non si fermò né ci degnò di saluto, proseguendo verso la stanzetta. Poi, di botto, ci apostrofò serissimo, con aria naturale ma molto soddisfatta, proclamando a voce ferma e solenne: ho cacato come un principe” (p. 15).
Quanti modi ci sono per raccontare una storia di vita? Quanti moduli di linguaggio sono possibili? Davvero infiniti? Il genere biografico, metodologicamente ormai consolidato e in auge già da parecchi lustri anche nella storiografia sull'anarchismo, prevede tre principali grandi categorie di approccio.
La prima è l'auto-narrazione, ossia il racconto accuratamente selezionato nelle scansioni e la pubblica rappresentazione di sé confezionati dallo stesso protagonista, “a futura memoria”: sotto forma magari di diario, in tempo reale addirittura con gli eventi vissuti o, piuttosto, sotto forma di meditata testimonianza/riflessione ex-post. Nella fattispecie, trattandosi di fonte soggettiva, diventa importante non solo ciò che l'autore dice di aver visto o aver fatto, ma anche quello che crede di aver visto e crede di aver fatto e, persino, ciò che nel suo intimo avrebbe desiderato fare se avesse potuto.
La seconda categoria di approccio, più classica, è invece a termine infinito non essendo legata all'esistenza in vita del protagonista. Si tratta, nel caso, delle storie di vita raccontate dagli altri, quelle cioè che seguono due stilemi fondamentali agli estremi: o agiografia, compilata da compagni di fede, oppure distaccata e professionale storiografia con tanto di uso scientifico delle fonti.
La terza infine, che riguarda questo libro (Nicola Schicchi, Paolo Schicchi. Storia di un anarchico siciliano, Edizioni Arianna, Geraci Siculo – Pa, 2015, pp. 256, € 22,50), ha un suo fascino particolare. È la testimonianza, intesa come saga familiare, compilata in genere da discendenti che hanno o conosciuto direttamente e bene il protagonista o che comunque ne hanno ben recepito esprit e personalità, anche attraverso la mitologia dei racconti confidenziali ricostruiti e tramandati da altri parenti ancora più stretti.
I vantaggi, e le sorprese, che ci riservano queste pubblicazioni fanno bene agli storici ma anche ai comuni lettori. Si evidenziano scrigni inesplorati con nuove fonti, materiali oppure orali: documenti di scarsa importanza apparente che ci raccontano molte cose, foto ingiallite di eccezionale bellezza che valgono da sole quanto un libro, memorie divertenti e raffigurazioni domestiche intime di un protagonista colto fuori dal contesto “pubblico” assegnatogli. Un consiglio: prima di iniziare la lettura del libro – da farsi tutta d'un fiato – soffermarsi a lungo sulla sezione Immagini, ne vale davvero la pena.
Paolo Schicchi (Collesano / Palermo, 1865-1950) è un anarchico siciliano che ha condotto una vita da rivoluzionario e da antifascista indomito (condannato a dieci anni dal Tribunale speciale), esule in Europa e Nordafrica, confinato e più volte carcerato, figura conosciutissima di pubblicista e scrittore graffiante, di sovversivo carismatico fomentatore di rivolte, uomo braccato da tutte le polizie: un “Che Guevara ante litteram” secondo l'autore. Rampollo di una “progenie paesana” borghese e non priva di preti e suore, il suo ideale anarchico diventa il naturale compendio di una precoce esperienza giovanile nelle file del repubblicanesimo risorgimentale, sulle orme del padre avvocato, massone e patriota.
Di lui scrissero Antonio Gramsci, Ignazio Buttitta, Sandro Pertini, Vincenzo Consolo, Umberto Terracini... Con lui polemizzarono avversari e compagni; e in tanti furono oggetto degli strali caustici della sua penna.
“Il velo sui tanti avventurosi accadimenti non è stato sollevato. E forse – puntualizza lo stesso Nicola Schicchi (pp. 11-12) – non lo sarà mai, nonostante l'opera di validi storici moderni dell'anarchismo come Natale Musarra. Con questo testo, date le premesse, si vorrebbe esplorare piuttosto l'uomo Paolo, rileggendo squarci della sua incredibile vicenda dal punto visuale della cerchia familiare che tanto amava”.
L'autore, con onestà intellettuale e brillante scrittura rievoca anche l'epilogo poco esaltante per i familiari dell'anarchico, che gli inflissero il torto, insopportabile, di un funerale religioso mentre i compagni se ne stavano in disparte a cantare “Addio Lugano bella”.
“Se Åeu zu Paulu avesse avuto un'anima immortale, cosa di cui dubitava, avrebbe abbandonato sdegnato il corteo dei corvi neri per intonare pure lui quei canti insieme agli ammosciati anarchici, una volta tanto all'unisono e senza diatribe in mezzo” (p. 194).

Giorgio Sacchetti



Se combatti il fascismo, sei matto/
I “pazzi per la libertà”

Il manicomio criminale, poi rinominato manicomio giudiziario ed, infine, ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa è stata la prima struttura di segregazione per criminali “incapaci di intendere e di volere” a funzionare in Italia: anno di costruzione e di consegna 1876. Ristretti tra le sue mura si annoverano numerose donne e uomini ritenuti “soggetti devianti” per comportamenti politici e morali in contrasto con il potere costituito, dal Regno d'Italia al regime fascista, dalla democrazia post-liberazione sino all'attuale situazione di presunto superamento istituzionale.
Se è noto l'internamento coatto ad Aversa di briganti, ribelli sociali, sovversivi, attentatori e donne degeneri, praticamente sconosciuta era invece la circostanza per la quale, dopo la caduta del fascismo, anche un certo numero di ex-partigiani e partigiane vi è stato imprigionato, nonostante il formale ritorno alla democrazia.
Infatti, nel clima di restaurazione economica e normalizzazione politica susseguente alla cosiddetta “liberazione nazionale”, nonostante quello che ancora oggi sostiene certa storiografia di destra, quanti avevano preso parte alla Resistenza furono sovente vittime di vere e proprie persecuzioni giudiziarie, accompagnate da infamanti stigmatizzazioni morali per aver combattuto il fascismo compiendo azioni armate o di giustizia popolare – peraltro molto più circoscritte che in altri paesi europei – ancora oggi criminalizzate alla stregua di feroci ed insensati delitti comuni.
Mentre, infatti, a partire dall'amnistia Togliatti, migliaia di fascisti e repubblichini di Salò tornarono presto in libertà e rimanevano impuniti eccidi, torture, stragi, deportazioni da essi compiute anche contro prigionieri, ostaggi civili e intere comunità, tanto da indurre gli ex-resistenti a non disarmare e a vendicare i delitti commessi dai fascisti prima all'ombra della dittatura mussoliniana e poi durante la Repubblica sociale italiana a fianco dei nazisti.
I meccanismi punitivi che – a termine di legge – colpirono numerosi partigiani, magari colpevoli di non voler cedere le armi alle forze anglo-americane, appaiono diversi, ma soprattutto furono dettati dalla delimitazione cronologica fissata a tavolino per la lunga guerra combattuta contro il fascismo: dall'8 settembre 1943 al 25 aprile 1945. Limiti, questi, antistorici e drammaticamente paradossali perché escludenti quanti si erano opposti fuori da simile “calendario”, negando la guerra civile che era iniziata nel 1919 e che vide una effettiva liberazione dei territori ancora occupati dai nazifascisti nelle settimane successive all'insurrezione del Nord Italia iniziata - e non conclusasi - il 25 aprile.
Emblematici in tal senso i casi degli anarchici Belgrado Pedrini e Giovanni Mariga, condannati a trent'anni di carcere per atti compiuti in anticipo o a tempo scaduto.
Nel tentativo di sottrarsi a simili condanne, un certo numero di partigiani arrestati e posti sotto accusa con gravi imputazioni, finirono nelle maglie della reclusione psichiatrica in conseguenza del fatto che durante i processi gli era stata riconosciuta una presunta “infermità mentale”, tanto da essere definiti come “pazzi per la libertà”. In tal modo però la loro condanna, non avendo i termini certi fissati da una sentenza penale, si trasformò in una diagnosi medico-politica che li murava vivi dentro l'incubo manicomiale.
L'importante lavoro di ricerca svolto da Franzinelli e Graziano su questo aspetto (Un'odissea partigiana. Dalla Resistenza al manicomio, Feltrinelli, Milano, 2015, pp. 222, € 18.00), misconosciuto, del periodo post-resistenziale appare quindi ricco di motivi d'interesse, ma non di meno suscita in chi legge un umano sentimento di rabbia nei confronti dell'ingiustizia patita da persone la cui esistenza, dopo aver rischiato la vita per ideali di libertà e giustizia sociale, si trovò stritolata dall'arbitrio di ingranaggi inimmaginabili.
Come viene, ripetutamente, affermato dai protagonisti di tali vicende era infatti impensabile che i governi democratici della repubblica “nata dalla Resistenza” permettessero a una magistratura, rimasta immutata per composizione e logica rispetto a quella operante durante il Ventennio e i 600 giorni di Salò, giudicasse la guerra partigiana come una pagina delittuosa, mostrandosi più che indulgente nei confronti degli aguzzini in divisa e mossa invece da odio “anticomunista” nel valutare la legittimità dell'operato dei “banditi”. I dati dell'attività giudiziaria, resi noti nella primavera del 1955, apparivano eloquenti: 2474 antifascisti fermati, 2189 processati, 1007 condannati.
Gli stessi avvocati di sinistra – anche nomi importanti, come Lelio Basso, Gian Domenico Pisapia e Umberto Terracini - che, in taluni casi, nelle aule dei tribunali peroravano la semi-infermità psichica come escamotage difensivo per “salvare” dalla galera gli ex-partigiani incriminati, evidentemente s'illudevano che a breve sarebbero seguite misure governative a loro favore, sottovalutando i micidiali effetti della famigerata Legge n. 36 del 1904 (”Disposizione sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati”) e del Codice Rocco che l'aveva recepita valorizzando il potenziale repressivo contro gli oppositori, fatti passare per pazzi e rinchiusi a centinaia nei manicomi. Va comunque sottolineato che tale sottovalutazione non era soltanto di carattere “tecnico” ma corrispondeva a precisi limiti “culturali” dei partiti della sinistra, del tutto sprovvisti di una visione critica – antiautoritaria - verso la psichiatria e le istituzioni totali.
Tra i casi, drammatici, scoperti e ricostruiti da Franzinelli e Graziano, colpisce particolarmente quello della giovane staffetta partigiana “Lulù”, ossia Zelinda Resca, che nel 1951 si vide arrestata, processata e condannata a oltre 15 anni di carcere in relazione ad un presunto omicidio politico avvenuto l'11 maggio 1945. Dopo essersi ammalata di tubercolosi durante la detenzione, nel 1953 venne trasferita “per motivi di salute” nel manicomio criminale di Aversa dove rimase rinchiusa per ulteriori 7 mesi, pur essendo riconosciuta del tutto sana di mente dalle stesse autorità mediche. Seppure in ritardo, nel 1955, al processo d'Appello, la Corte d'assise di Bologna la riconobbe innocente, accogliendo la tesi difensiva che aveva denunciato la responsabilità di un ufficiale dei carabinieri nella costruzione dell'impianto accusatorio ai danni di “Lulù”, parimenti “colpevole” di essere donna autodeterminata e comunista. Dalle lettere scritte ai compagni trapela lo stesso stato d'animo espresso dall'anarchica Elena Melli, alcuni anni prima: «Posso pensare a me stessa come incarcerata o sotto restrizioni di libertà ma non posso concepirmi come rinchiusa in un sanatorio per malati mentali, il pensiero di questo è insopportabile».

Marco Rossi



I sogni sognati
da nessuno

“Cosa significa essere mediocri – d'improvviso la questione non mi diede più pace. Come ci si convive, come si va avanti? Che gente è quella che punta tutto su una carta, dedica la propria vita alla creatività, corre il rischio della grande scommessa e poi, anno dopo anno, non realizza niente di significativo?”.
Mica male come domanda. Se prima o dopo nella vita capita di porsela e non si trova una risposta abbastanza convincente, il dubbio che il proprio ego si possa sgretolare rivelando tanti pezzi di nulla può farsi piuttosto angosciante.
Per fortuna qualche volta ci pensa il Fato, sì, proprio quello con la F maiuscola, quello in cui non crediamo perchè siamo moderni razionali concreti e convinti che la nostra vita andrà esattamente dove la stiamo conducendo, nel bene e nel male.
E allora prendete quattro personaggi: un padre disoccupato e distratto, un figlio sovrappeso, due gemelli inquieti e inquietanti. Mescolateli in un dialogo iniziale mezzo superficiale e mezzo crudele, conduceteli in una gita domenicale piuttosto ordinaria e noiosa, sedeteli in platea di fronte al grande mago dell'ipnosi Lindemann, poi state a vedere quel che succede.
Davanti ai vostri occhi le schizofrenie del mondo contemporaneo assumeranno sembianze umane, talmente stravolgenti da risultare verosimili, talmente terribili da restare (appunto) profondamente umane. E un nuovo destino, messo in moto da un evento apparentemente poco significativo, segnerà la storia di una famiglia potenzialmente ordinaria, almeno nel suo essere desolatamente priva di buoni sentimenti.
Daniel Kehlmann è autore del pluripremiato La misura del mondo, ritenuto il più clamoroso caso letterario tedesco dai tempi del Tamburo di latta di Günter Grass. Un confronto-scontro tra il grande matematico Carl Friedrich Gauss e il grande naturalista Alexander von Humboldt, due giganti dell'Illuminismo tedesco ossessionati dai numeri e dalle misurazioni che tentano, ognuno sulla base della propria scienza, della propria personalità e delle proprie convinzioni, di spiegare e misurare la complessità dell'universo.
Stavolta Kehlmann sceglie di misurare, senza neppure provare a spiegarlo, qualcosa di molto più banale e complesso: l'animo umano, condensato di illusioni e contraddizioni che sembra prestarsi molto poco a qualsiasi tentativo di analisi lucida.
Immisurabile, forse anche ingiudicabile, salvo che si creda - non mi pare sia il caso di Kelhmann, certamente non è il mio – nell'esistenza di un giudizio superiore e divino. Che se esistesse, dovrebbe peraltro essere molto clemente per perdonare i grovigli, le bassezze, le confusioni, gli imbrogli e le mediocrità cui si troverebbe messo di fronte.
Non ho idea di quanti lettori possano (o provino a) riconoscersi in uno dei tre figli di Arthur: un prete che non crede in Dio, un consulente finanziario che non crede nella finanza, un pittore che non crede nell'arte. Personalmente, non essendo alcuna delle tre cose, ho rintracciato pezzi di me in ciascuna di esse. Lascio volutamente fuori Arthur, che scompare dopo la seduta di ipnosi per ricomparire sporadicamente qua e là lungo il romanzo, una “presenza assente” che dà il via a tutta la storia ma che, da un certo punto di vista, è il personaggio meno complesso e dunque meno stimolante.
Osservazione tecnica d'obbligo, essendo la sottoscritta una donna: i protagonisti sono quattro uomini. Le donne ci sono ma hanno ruoli marginali: mamme, mogli, amiche, amanti, figure anche loro contraddittorie, permeate dalla stessa superficialità dei loro amanti-amici-compagni, ma meno in evidenza e – fosse anche solo per questo – apparentemente meno colpevoli.
Osservazione “di parte” da parte della suddetta sottoscritta: l'ultimo personaggio in ordine di apparizione, dunque quello cui spetta, pur nella brevità del capitolo, il posto d'onore del romanzo, è una donna, anzi una ragazzina, la figlia di Eric. La più lucida, la più onesta, quella da cui ci si può aspettare di ripartire.
Daniel Kehlmann, non so se tu sia femminista, senz'altro – agli occhi di una lettrice e donna come me – sei molto acuto.
Per il resto, tralasciando le distinzioni di genere, I fratelli Friedland (Feltrinelli collana “I narratori”, 2015, pag. 272, € 17,00) mi è parso una delle più ironiche, crudeli e azzeccate rappresentazioni della famiglia contemporanea che mi siano capitate tra le mani negli ultimi anni.
Famiglia intesa come groviglio di destini all'interno di un mondo indecifrabile, dove ognuno cerca sconsideratamente di essere protagonista di qualcosa e finisce per essere controfigura di qualcun altro, a volte addirittura di se stesso.
Tenuti insieme dal legame parentale e dai fili un po' logori delle vicende che li vedono coinvolti, i componenti della famiglia Friedland (con tanto di annessi e connessi) si attraggono e si respingono in un crescendo di situazioni apparentemente isolate, che si incastrano come i pezzi del cubo di Rubik (c'è anche lui, nel libro), poi finiscono per avere una trama esile ma compiuta, addirittura sfumata di “noir”.
Un romanzo spiazzante, ferocemente divertente come sa essere la vita.
Il vantaggio più evidente nel leggerlo è che vi si riconoscono le proprie contraddizioni, però ci si assolve in fretta: è vero che somigliamo ai fratelli Friedland, ma siamo tutto sommato un po' migliori di loro.
Almeno fino a quando Kehlmann non sceglierà di scrivere la nostra storia.

Claudia Ceretto



Una soluzione
in cerca di problema

Contentiamoci di far riflettere, non tentiamo di convincere.
George Braque

Il libro di Luca Mercalli e Luca Giunti TAV NO TAV, le ragioni di una scelta (Scienza Express edizioni, Trieste, 2015, pp. 176, € 14,00) non è propriamente un libro No Tav. Si tratta piuttosto di una lettura che, attraverso un'esposizione scientifica rigorosa veicolata in un linguaggio divulgativo e accessibile, fornisce informazioni utili ad esercitare una scelta consapevole: TAV sì o TAV no?
Nell'esposizione non c'è traccia di posizioni ideologiche, formule semplicistiche, slogan da stadio, né di quelle affermazioni autoreferenziali e totalmente prive di verificabilità che sono purtroppo molto care ai cosiddetti “decisori pubblici”, che poi di pubblico non hanno nulla: “chi è contro la Torino-Lione è contro il progresso!”, “quest'opera fa bene all'economia perché mette in moto capitali privati”, “la Torino Lione porterà lavoro”, “la linea è tutta in galleria quindi non provoca danni ambientali”, etc etc.
Ad orientare la trattazione è invece il metodo scientifico, la modalità tipica con cui la scienza procede per raggiungere una conoscenza della realtà affidabile, verificabile e il più possibile condivisibile. Esso consiste, da una parte, nella raccolta di evidenze empiriche e misurabili attraverso l'osservazione e l'esperimento; dall'altra, nella formulazione di ipotesi e teorie da sottoporre nuovamente al vaglio dell'esperimento.
Scegliere consapevolmente se costruire o meno una nuova infrastruttura, quale e in che modo, è un diritto-dovere dei cittadini: per poterlo esercitare è utile poter analizzare gli aspetti razionali e documentati ed approfondire i molteplici fattori in gioco (trasportistici, economici, sociali e ambientali), nonché pretendere spiegazioni sulle scelte che orientano la gestione del patrimonio e del suolo pubblico. Come sottolinea Mercalli, ciascun cittadino può formarsi un'opinione in merito all'alta velocità ed ha il diritto di esprimerla liberamente pur non essendo un “esperto”: altrimenti “nessuno se non medico potrebbe esprimersi sulla salute, nessuno se non allevatore o agricoltore potrebbe esprimersi sul cibo...”.
Questo è appunto l'obiettivo di TAV-NO TAV, che per farlo si avvale di un approccio multidisciplinare peraltro applicabile anche ad altre grandi opere scaturite dalla famigerata “legge obiettivo”.
Il libro consta di una serie di interventi di ingegneri, medici, economisti, filosofi, fisici, naturalisti, geologi, contenenti dati, documenti, informazioni tecnico-scientifiche che di fatto scoraggiano la costruzione della nuova linea ad alta velocità Torino-Lione. Senza pregiudizi e considerazioni superficiali, ma con uno studio accurato delle caratteristiche dell'opera, della geografia locale, delle sue ricadute in termini economici, occupazionali, ambientali, sociali.
Un approccio che si discosta nettamente da quello da sempre utilizzato dai principali mezzi di comunicazione, sostanzialmente allineati acriticamente alle posizioni dei promotori: “si è dato per scontato che l'opera dovesse essere costruita senza fornire ragioni a sostegno di tale decisioni”, si legge nell'intervento di Michele Roccato e Terri Mannarini a proposito del movimento di opposizione al TAV, “si sono sistematicamente stigmatizzati i residenti e le istituzioni locali che hanno chiesto di confrontarsi con i decisori muovendo loro accuse che la ricerca scientifica mostra essere sistematicamente infondate. Si sono svilite le considerazioni tecnico-scientifiche messe sul tavolo dai controesperti della Valle, senza discutere nel merito e contrapponendo loro slogan vuoti e ideologici”.
Una dinamica che ha approfondito la già profonda frattura esistente tra cittadini e strutture dello stato: ad una protesta fondata su motivi tecnici, il “decisore pubblico” non ha saputo fornire risposte tecniche, che avrebbero potenzialmente delegittimato l'opposizione all'opera.
I promotori si sono invece appellati all'irreversibilità dell'opera, come se questa fosse un motivo più che sufficiente a sostegno della sua realizzazione. L'assunto ricorrente è infatti “protestate pure tanto noi andiamo avanti”, o come più lapidariamente dichiarò il presidente della Regione Piemonte Roberto Cota: “alla TAV non c'è alternativa”.
Eppure, come sottolinea Mercalli, l'irreversibilità non è una caratteristica di cui andare fieri: “tutti noi vorremmo disporre di sufficienti chances e flessibilità per evitare di commettere un errore fino all'ultimo momento, fino a quando è ancora possibile invertire il corso degli eventi. Altro che dichiarare trionfalmente di aver attivato un processo irreversibile!”.
TAV-NO TAV oltrepassa le astrazioni ideologiche e propone un approccio di pensiero saldamente ancorato alla realtà, che decide di riflettere e comprendere, di ricordare dove stiano le persone e la loro salute, la loro felicità.
“Senza questo cambio di paradigma profondo, senza visioni realmente diverse, la realtà rischia di essere scalzata, un passo dopo l'altro, dal dominio incontrastato dell'irreale economico”, sostiene Serenella Iovino nel suo intervento “Pensare come una montagna”. “È un'economia ostinata e obsoleta che, se fosse possibile tornare alla terra piatta, ci tornerebbe senza esitare un istante; che se fosse possibile nascondere i numeri irrazionali...lo farebbe e anzi lo fa. Perché i numeri irrazionali di oggi sono i rapporti scientifici e la volontà civica di popolazioni che mettono in crisi equilibri interni al potere e contestano la ragionevolezza di scelte già prese, scelte volanti sopra le montagne del buon senso, sopra il bene e sopra l'essere”.

Marta Becco



Tra utopia
e speranza

Decisamente in sordina è uscito di recente, per quelli delle edizioni IPOC, un bel libro di Federico Battistutta, autore forse già noto ai lettori di “A” per diversi suoi scritti apparsi su queste pagine. Si tratta di Storie dell'Eden – Prospettive di ecoteologia (Ipoc edizioni, Milano, 2015, pp. 116, € 16,00) dove l'ecologia è vista non come qualcosa di cui i più accorti tra noi si occupano per amore del bene comune, bensì quell'intricato e complesso insieme di rapporti che - tutti e tutto - ci lega.
L'autore con i suoi libri cerca ormai da anni di creare connessioni, passaggi, relazioni tra quello che possiamo chiamare un progetto politico-sociale – ovverosia le idee e le azioni di tutta quella gente che ha creduto e crede in un modo di stare al mondo libero da oppressioni e sfruttamenti (dico così per intenderci e farla breve) - e un sentire “religioso” che spesso, inconsapevolmente, attraversa gli animi delle stesse persone. Lo sforzo non è semplice perché, il più delle volte, il pregiudizio alberga da ambo le parti. Chi si dice religioso non vuol avere a che fare con la politica nella sua accezione più radicale e chi ha sposato idee politiche radicali, rifugge dalla religione. Un po' di ragione, secondo me, sta sempre da ogni parte e, per capirsi, bisogna intendere bene di cosa si sta parlando, qual è il piano su cui si sta affrontando la questione. Quindi, eliminando in partenza dal discorso tutte le chiese, i clericalismi e i luoghi di potere di entrambe le parti, forse si può incominciare a ragionare. Quello del nostro autore è un atteggiamento di questo tipo e il pregio del suo essenziale libro - poco più di cento pagine – sta nell'andare alle origini del tema riguardante la convivenza tra umani e degli umani con tutto ciò che vive, ricercando nella storia più antica, tramandata attraverso le narrazioni di diversi popoli e culture, il racconto di un tempo in cui “un altro mondo fu possibile”.
La domanda che il testo si pone è questa: cosa dicono a noi contemporanei, in quest'epoca di crisi incombente, tali racconti? Si tratta solo di mitologie, fantasie riguardanti un passato che forse non è mai esistito o, al contrario, custodiscono qualcosa di prezioso – profezia, sogno, speranza, utopia - che alberga nel segreto del cuore e verso il quale da sempre, con passione e intelligenza, l'essere umano aspira?
Per rispondere Battistutta parte dai racconti presenti nel testo biblico, passa attraverso i classici greci e latini, la letteratura popolare, le ricerche archeologiche e antropologiche per arrivare ad un intenso confronto con figure significative del pensiero moderno e contemporaneo, quali Rousseau, Benjamin, Bloch, Eliade, Panikkar, Clastres e molti altri. Non si risparmia ed esplora molteplici possibilità, per mantenersi sempre all'altezza della domanda.
Così ci vengono incontro narrazioni nelle quali si parla di quando, come per incanto, fu possibile un'intesa condivisa tra uomini e donne, giovani e vecchi, tra esseri umani e mondo vegetale, minerale, animale. Ciò che il libro sottende è: se quello che ci viene raccontato non fosse un ipotetico inizio bensì il progetto terminale – lo scopo – a cui noi siamo chiamati a collaborare? Se quello che già è accaduto fosse in qualche modo il punto di ritorno/arrivo – debitamente attualizzato – nel percorso evolutivo dell'umanità?
Partendo dal presupposto che l'ordine delle cose nel quale ci troviamo a vivere non è un ordine naturale contro il quale non si può far nulla, ma, piuttosto, una costruzione mentale e sociale, una visione del mondo con la quale l'uomo appaga la sua sete di dominio; una visione così potente che anche chi ne è vittima spesso l'ha integrata nel proprio modo di pensare, con l'accettazione inconscia di inferiorità che ne consegue. Allora, per modificare le costruzioni mentali dobbiamo lavorare con disponibilità sulle nostre visioni e libri come quello di Federico Battistutta, che scandagliano, attraversando i millenni, le narrazioni su cui ci siamo formati, noi, donne e uomini d'Occidente, diventano indispensabili strumenti di conoscenza. Epoche di grande e rapido cambiamento come la nostra chiedono senz'altro questa andata a ritroso, per riuscire a fare le connessioni utili a comprendere il presente e costruire la visione progettuale del futuro. Siamo costituzionalmente esseri narranti e tutte le scelte che contraddistinguono il nostro cammino sono sostenute da racconti; bisogna vedere quali.
Entrando nel tempo mitico le “storie dell'eden” raccontano la genesi, quel “sogno di Dio”, che, forse, altro non è che altissimo sogno umano dell'impossibile, il progetto al quale siamo chiamati a collaborare declinandolo nelle sue forme del possibile, nella consapevolezza che cielo e terra, come tutte le sostanze, compreso Dio, stanno dentro l'uomo (J. Böhme citato a pag 103).
Il giardino dell'Eden, quel che appare perduto (è chiaro che qui si ragiona per simboli) è davvero perduto per sempre o forse quell'inizio arcaico non intende solo un tempo cronologico, ma tutto ciò che è all'inizio di un percorso, ciò che nasce di nuovo, fresco di giovanile entusiasmo e speranza?
Troviamo, quindi, tra le pagine del libro il suggerimento a leggere in quegli antichi testi l'invito per rinnovare alle radici i rapporti che intratteniamo tra noi, con gli animali e con tutto il mondo naturale, nel quadro di una profonda trasformazione che nulla può lasciare invariato perché, pur contemplando la sconfitta, sa che comunque nessuna sconfitta è incolmabile e il nostro agire è così posto sotto il segno di una speranza che non conosce rassegnazione.

Silvia Papi



Una fotografia
delle nostre scuole

Nel suo reportage sulla scuola (#lacattivascuola. Un'inchiesta senza peli sulla lingua, Jaka Book, Milano, 2015, pp. 115, € 12,00), Alex Corlazzoli, insegnante, giornalista e scrittore dichiara di aver seguito le orme del grande giornalista e saggista polacco Ryszard Kapuciski, nell'accurata ricerca di documenti, raccolta di materiale, conversazioni e osservazioni sul campo. Con taccuini, penna, macchina fotografica intende svelare l'altra faccia, quella che non si vede, per provocare un dibattito più ampio sulla natura della scuola pubblica italiana.
Emerge una scuola con gravi ferite: oltre il 70% degli edifici presenta lesioni strutturali. Soprattutto bollino rosso per le Regioni del Sud: solo tra Calabria, Campania e Sicilia, 12.965 istituti in caso di terremoto potrebbero subire gravi danni. Secondo il rapporto sulla sicurezza e la qualità della scuola di “Cittadinanza attiva”, tra settembre 2013 e agosto 2014 si sono verificati, al Nord come al Sud, trentasei casi di cadute di solai, tetti, controsoffitti, distacchi di intonaco. Trentanove ragazzi hanno perso la vita. E mentre le scuole crollano, il Miur attiva convenzioni con le multinazionali. Come la Dusmann, ma non è in grado di provvedere alla manutenzione degli infissi.
Si registrano storie di mancata integrazione. Se gli alunni con cittadinanza non italiana sono 802.844, il 9% del totale degli studenti, l'ultima riforma della “Buona scuola” di loro non parla. Una sola citazione del termine stranieri. Eppure, nei dati recenti riportati dalla fondazione ISMU (Iniziative e studi sulla multietnicità), alle superiori la percentuale con ritardo didattico degli alunni con cittadinanza non italiana sale al 65,1%, a fronte del 23,3 % degli alunni italiani.
Intanto, all'inizio di ogni anno scolastico, genitori o sindaco alzano le barricate. Come è successo a Corti, frazione di Costa Volpino nel bergamasco, troppi gli stranieri seduti tra i banchi. Oppure a Landiona, seicento abitanti in provincia di Novara: i genitori ritirano da scuola i loro figli perché non è piaciuta la presenza di bambini rom in classe.
Invece, chi vive la scuola senza rassegnazione si rimbocca le maniche: alla primaria Coletti di Treviso, si segnala che tra le attività didattiche dell' istituto è stato inserito un corso di lingua araba grazie al finanziamento sostenuto dal governo del Marocco e all'associazione InterMed Cultura.
Tuttavia, il quadro mostra una scuola italiana ancora gran parte vietata alle persone diversamente abili. Nel campione di scuole monitorate, non tutti gli edifici hanno l'ascensore, nel 20% dei casi non è funzionante, con pulsantiere non all'altezza della carrozzina nel 13% dei casi. Ancora troppe scuole presentano barriere architettoniche in palestre, aule computer, biblioteche e spesso mancano i servizi igienici per persone disabili. Secondo l'Istat, il 10,8% degli alunni diversamente abili della scuola primaria ha cambiato insegnante a lezioni avviate, così l'8,8% alla secondaria di primo grado.
Ma la buona scuola la fanno proprio loro, i ragazzi, ogni giorno. A Trenta, in provincia di Cosenza, non si è riusciti a trovare un autobus con pedana per il compagno disabile. Tutti i bambini della scuola primaria rinunciano all'uscita didattica. Una lezione di vita -commenta l'autore- hanno messo al centro la priorità dell'integrazione.
La fotografia delle nostre scuole, inoltre, rivela che non sono ancora completamente connesse. Docenti costretti al nomadismo didattico per poter fare qualche lezione nella sola classe dell'istituto dotata di una lavagna interattiva multimediale. Oltretutto, infrastrutture digitali, aule cablate possono aiutare anche le scuole più piccole di montagna o in località disagiate o delle isole a sopravvivere, oppure garantire lezioni condivise in videoconferenza, mettendo in relazione più classi appartenenti a istituti scolastici diversi.
Il reportage focalizza altresì una scuola agonizzante: pur di racimolare strumenti didattici, si è venduta ai privati. Esempi: “Insieme per la scuola” promosso dalla Conad e “Coop per la scuola”. Con la gara al bollino, ogni genitore può dare il proprio contributo. Se non fosse che servono 45.000 bollini, cioè 45.000 euro di spesa per “vincere” un personal computer fisso minitower Hp, mentre due tastiere e due mouse, nel catalogo Conad, valgono 5.250 euro di spesa. La rivista “Altreconomia” spiega che il supermercato investe in questa iniziativa il cinque per mille dei soli incassi derivanti dalla spesa delle famiglie partecipanti, a fronte di una massiccia campagna pubblicitaria gratuita che le scuole pubbliche, il Ministero e i giornali gli stanno regalando.
Sottolinea Corlazzoli: non certo le riforme calate dall'alto salveranno la scuola. La salva chi la vive e ci deve fare i conti tutti i giorni. Come a Tiezzo, a Camponogara e in tante altre realtà scolastiche dove i parenti hanno messo mano al portafoglio, cablato le aule e acquistato tablet.
Tuttavia - si potrebbe aggiungere - la scuola, nell'era digitale e della comunicazione virtuale, perché sia davvero buona, dovrà saper stimolare un pensiero riflessivo e critico, vero contrasto all'omologazione. Far leva sulla capacità empatica di tessere relazioni autentiche, per aiutare a comprendere le ragioni dell'atro. Puntare sulla solidarietà come espressione libera e volontaria della socialità umana, affinché ognuno possa mettere a disposizione il proprio tempo e le proprie competenze in modo altruistico e disinteressato. Una scuola che permetta di continuare a sognare e alimentare entusiasmo, per credere che davvero un altro mondo sarà possibile. Magari proprio a partire dalla scuola.

Claudia Piccinelli