rivista anarchica
anno 45 n. 403
dicembre 2015 - gennaio 2016


Kurdistan turco

Viaggio in Bakur

di Giulio D'Errico per “RojavaResiste”


Impressioni di viaggio dalla regione dove i curdi - pur nel contesto di guerra - sperimentano, tra mille difficoltà, anche autogoverno e autogestione.
A partire dall'influenza esercitata dal pensiero municipalista libertario di Murray Bookchin


Il Bakur (settentrione, com'è chiamato il Kurdistan turco) è una terra attraversata da sorprendenti esperimenti di autogoverno e autogestione, e al contempo dilaniata da uno scontro continuo con il governo di Recep Tayyip Erdogan.
Esperimenti che prendono il via molto lontano. La profonda revisione del programma del PKK attuata da Öcalan dall'isola-carcere di Imrali, dove è tuttora imprigionato, ne è la base teorica. Da una visione classicamente marxista-leninista a un socialismo libertario fortemente inspirato al municipalismo Bookchiniano, negli ultimi quindici anni il movimento di liberazione curdo ha subito una forte metamorfosi. Passa di qua la rinuncia all'obiettivo di creare uno stato curdo, sostituito dal progetto del confederalismo democratico fondato sui quattro pilastri di autonomia, democrazia diretta, femminismo e ecologia.
La lotta per l'autonomia e l'esperimento rivoluzionario nel Rojava (occidente) siriano ne sono il carburante e la scintilla. Alla guerra contro Daesh per liberare Kobane e i cantoni curdi oltreconfine, i militanti del Kurdistan turco hanno partecipato numerosi, così come numerosi stanno partecipando ai conflitti nella regione irachena (o Bashur, meridione). La resistenza e la ricostruzione della città-simbolo di Kobane è stata costantemente supportata da diversi gruppi e organizzazioni in tutto il Bakur, e nello stesso territorio migliaia di profughi provenienti dalle zone di conflitto o dalle aree ancora in mano al Daesh, popolano i numerosi campi profughi. Uno scambio continuo ha attraversato una frontiera sempre più militarizzata e ufficialmente invalicabile.
Nei primi mesi del 2015 alcune municipalità in territorio turco hanno dichiarato la propria autonomia e si sono date forme di autogoverno, traendo forza proprio da quanto sta avvenendo in Rojava. Sono state istituite case del popolo, assemblee di quartiere, comitati, scuole e centri culturali, così come cooperative di lavoro in città e nei villaggi. Le modalità sono diverse di luogo in luogo, come diverso è il peso dei partiti curdi, delle organizzazioni sindacali e delle stesse amministrazioni locali.
Esperimenti e conflitti, dicevamo. E qui, l'uno non si dà senza l'altro.
Il governo di Ankara non ha mai perso occasione di appoggiare, ufficialmente o meno, qualsiasi gruppo o formazione in funzione anti-curda. L'instabile alleanza con Bashar Al-Assad aveva in questo la sua forza principale, mentre i rapporti con Daesh sono venuti alla luce in più occasioni.
Con le elezioni del giugno scorso però il conflitto ha ripreso a inasprirsi anche sullo stesso territorio turco. Il progetto di riforma costituzionale in senso presidenziale di Erdogan ha subito una battuta d'arresto, poiché lo storico traguardo del 13% del partito filo-curdo HDP (partito del popolo democratico), primo partito dichiaratamente pro-curdo a entrare in parlamento, ha impedito al presidente della repubblica turca e al suo partito, l'AKP (partito per la giustizia e lo sviluppo), di ottenere la maggioranza assoluta. Da quelle elezioni nessun partito è uscito vincitore e un governo di unità nazionale è stato creato per traghettare il paese fino alle prossime elezioni di novembre. Da quelle elezioni è però scaturita l'esigenza, ancora più forte di prima, da parte di Erdogan, di annientare le opposizioni, con il solito occhio di riguardo per quella curda, inasprendo gli attacchi contro le diverse espressioni del dissenso.
Violenze e attacchi che si erano contati a centinaia già in campagna elettorale, culminando con l'attentato a firma Daesh del 5 giugno durante un comizio dell'HDP a Amed (Diyarbakir). Il 20 luglio un attentatore suicida si fece saltare in aria nel centro culturale Amara, a Suruc, sul confine con la Siria, durante un incontro di giovani socialisti aderenti al SGDF (Federazione delle associazioni dei giovani socialisti) raccolti lì per portare aiuti e solidarietà a Kobane.

Amed (Kurdistan turco) - Campo profughi dove risiedono
oltre 2000 curdi yazidi dalla regione di Shengal

Esperimenti e conflitti

Il nostro viaggio in Bakur, svoltosi nella seconda metà di ottobre, per quanto breve, ci ha permesso di essere testimoni di questa esperienza. Discussioni, interviste, chiacchiere e incontri hanno reso possibile conoscere in parte quanto sta avvenendo in quella regione. Le municipalità autonome, che hanno rotto qualsiasi forma di comunicazione con il governo centrale, hanno subito continui attacchi da parte delle forze di polizia e dell'esercito. Il coprifuoco è il dispositivo preferito per fiaccare la resistenza dei quartieri e dei villaggi più combattivi. Interruzione dei servizi idrici ed elettrici, oscuramento delle comunicazioni e dei social network in particolare, blocco fisico di parte delle città, impossibilità di entrare e uscire, pattugliamento continuo di mezzi corazzati. Ovunque il coprifuoco ha portato con sé una scia di sangue. Colpi di granate a sventrare i muri delle case e cecchini appostati a colpire chiunque esca di casa. Una guerra sporca che il governo attua in primo luogo contro i civili, utilizzando corpi di polizia speciali e esercito.
A Cizira Botan (Cizre, secondo la topografia turca) siamo arrivati poche settimane dopo il ritiro del coprifuoco. La violenza delle truppe turche aveva come obiettivo particolare i quattro quartieri liberati e autodifesi dai militanti curdi. Quartieri labirinto che, dalle arterie principali della città, si addentrano in una miriade di curve e di vicoli inaccessibili ai mezzi corazzati. Quartieri difesi da barricate e teli di plastica a coprire le vie all'occhio dei cecchini. Da uno stuolo di giovani e giovanissime staffette e sentinelle che, dai tetti come dalle biciclette o dalle moto, controllano le zone di accesso. Quartieri difesi sia con le armi che con il supporto della comunità che li vive.
A combattere in questo territorio sono le formazioni delle Ydg-H (movimento giovanile patriottico rivoluzionario) e delle Ydgk-H, sua costola esclusivamente femminile. Sono gruppi formati da ventenni, cresciuti con la primavera siriana, la guerra civile e la rivoluzione in Rojava, durante gli anni delle politiche di terra bruciata intorno al PKK e ai movimenti pro curdi. Queste formazioni, pur affiliate al PKK, mantengono una forte autonomia, anche da un punto di vista strategico, in quanto optano per una strategia tutta urbana di autodifesa armata dei quartieri da cui provengono. Nove giorni di coprifuoco hanno tentato invano di sfondare le difese di questi quartieri. Ventitré civili, tra cui diversi bambini e anziani, sono rimasti uccisi dai colpi dei cecchini o delle armi pesanti in dotazione alle forze armate governative, in quello che è stato finora il coprifuoco protrattosi più a lungo. I muri delle case e le strade dei quartieri portano pesanti i segni di quei nove giorni, ma i progetti di autogestione continuano. Ci viene raccontato della creazione di una scuola in curdo, decisa e attuata in completa autonomia da parte di un gruppo di cittadini, della prosecuzione delle assemblee locali nel centro culturale del quartiere, del progetto di autogoverno della città che prosegue nonostante la violenze e nonostante al momento della dichiarazione di autonomia la stessa co-sindaca dalla città sia stata rimossa dal suo ruolo.
Il coprifuoco lo ritroviamo e lo viviamo ad Amed. La zona di Sur, la città vecchia racchiusa dalle antiche mura è inaccessibile, e lo resterà per quattro giorni. Il coprifuoco si espande ad altre zone della città. Colonne di fumo e colpi d'armi da fuoco sono la scenografia visiva e sonora dell'antica capitale curda. Al di fuori delle aree di coprifuoco sono i giovanissmi a ingaggiare la polizia in rapidi scontri, con barricate improvvisate e lanci di pietre, mentre più di un corteo viene organizzato per sostenere almeno simbolicamente chi si trova nella zona del coprifuoco. Quanto sta avvenendo all'interno della città vecchia lo apprendiamo solo alla fine del coprifuoco, quando riusciamo a visitare parte di quella zona. Gli attacchi delle forze di polizia hanno ucciso almeno quattro persone tra cui una ragazzina di 12 anni. I muri di case e moschee sono crivellate da colpi di artiglieria, le scritte pro-PKK sono state cancellate o distrutte e sostituite da minacce di morte di matrice religiosa, simboli dei lupi grigi e insulti.

Suruc (Kurdistan turco) - Il memoriale a ricordo
delle vittime dell'attentato al centro culturale Amara
Genocidio culturale

Il ruolo del partito, l'HDP e la sua componente più prettamente curda, il DBP (Partito delle regioni democratiche), è emblematico e ineguale da una zona all'altra, sospeso tra l'amministrazione legale della quasi totalità delle municipalità del Bakur e il supporto – interno o esterno a seconda dei casi – per le più diverse espressioni della resistenza al dominio turco. L'impressione è quella di assistere alla formazione di una società separata dalle istituzioni centrali, società in cui il partito e le istituzioni locali da esso controllate sono uno tra i tanti strumenti e le tante forme di organizzazione a disposizione. Separazione che si vede nelle iscrizioni in curdo – lingua a tutt'oggi vietata – accostate a quelle ufficiali sui palazzi comunali della città di Amed (Diyarbakir) come nelle sovvenzioni alle accademie d'arte e ai centri culturali sparsi su tutto il territorio, dove si insegna la lingua e le tradizioni curde, e che sono diventati i principali centri di resistenza al genocidio culturale messo in atto da decenni dallo stato turco.
Se oggi – ci viene detto – gran parte dei ragazzi parla correntemente curdo, così non era per i loro genitori. Nulla è stato concesso, ogni spazio di libertà è stato conquistato con determinazione negli ultimi anni. E ancora oggi parlare curdo nei quartieri sbagliati o in situazioni formali può significare l'arresto.
Separazione evidente anche nella gestione dei rifugiati siriani e iracheni. I campi profughi nella regione sono numerosi. Alcuni sono gestiti dall'equivalente turco della nostra Protezione Civile, e a questi è impossibile accedere, altri sono gestiti autonomamente dall'HDP. Abbiamo visitato il campo di Suruc, un'arsa distesa di terra bruciata su cui posano 85 tende, composto da profughi scappati dal nord della Siria, e il campo per i profughi yezidi alla periferia di Amed, il più grande della regione, dove vivono ancora migliaia di persone. Il primo, privo di qualsiasi struttura comune, e di qualsiasi servizio oltre la sopravvivenza, ospita ora meno della metà delle persone che vi vivevano fino a qualche mese fa.
Molti sono tornati a Kobane o nei cantoni limitrofi una volta finiti gli scontri, molti altri sono partiti per tentare di entrare in Europa. Chi resta è in attesa di una delle due, o resta per usufruire del servizio sanitario turco. Nel campo di Amed la situazione è diversa. Tutti gli abitanti arrivano dalla zona di Shingal, nel Kurdistan iracheno, grazie alla protezione del PKK, che ne ha permesso la fuga dal Daesh, prima in Siria e poi in Turchia. Nessuna delle persone con cui parliamo vuole tornare a Shingal, anche in caso di pacificazione, e per molti l'unico desiderio è arrivare in Europa. Il campo ha però una dimensione molto più stabile, con un ambulatorio e un piccolo edificio adibito a scuola, anche se sicuramente non sufficiente a contenere l'enorme numero di bambini e ragazzi che vivono lì. Gli altri campi della regione sono più piccoli, e in via di ridimensionamento; i servizi e la qualità delle strutture variano notevolmente, e in alcuni di essi si sono avviati progetti educativi e sociali in totale autogestione.
Una società parallela, dentro lo stato e contro lo stato, che non mira ad abbatterlo, ma a conquistare e difendere una completa autonomia. Una società che ormai si interfaccia con lo stato solo su un piano di scontro, militare. Una società che almeno sulla carta cerca di organizzarsi su quei principi di democrazia diretta, autonomia, femminismo e ecologia che sono i pilastri del confederalismo democratico, ma in cui la diffusione di una consapevolezza politica che vada oltre semplici parole d'ordine sembra riservata a un – seppur folto – numero di attivisti e militanti.
Nel nostro viaggio abbiamo potuto constatare come in particolare i temi del femminismo e dell'ecologia incidano inegualmente, e in certi casi debolmente, sulla popolazione. E anche all'interno della comunità più consapevole lo scarto fra città e campagna è sensibile. Se in centri urbani come Sanliurfa e Amed l'idea di autodeterminazione della donna sulla propria vita e sul proprio corpo sembra essere un punto assodato, e con essa una totale difesa del diritto al divorzio e all'aborto, in posti più periferici come Suruc abbiamo incontrato molta meno apertura su questi diritti, garantiti solo in situazioni emergenziali (di violenza). L'idea di una società ecologica, con tutte le sue implicazioni e conseguenze radicali, soffre ancora di più questa difficoltà a fuoriuscire da una ancora più stretta cerchia di accoliti.

Cizre (Kurdistan turco) - Barricate a difesa del quartiere di Nur
Nel palazzo del sultano

Siamo a Suruc, nel centro culturale Amara, quando apprendiamo dell'attentato ad Ankara, il 10 ottobre. Ci troviamo nel luogo esatto in cui – come già accennato – un altro attentatore suicida uccise oltre 30 persone. Nel giardino del centro un piccolo memoriale ricorda le vittime, mentre la parete dell'edificio è ancora parzialmente distrutta. Ci viene raccontato di come la polizia abbia impedito e rallentato l'arrivo dei primi soccorsi, di come abbia sparato lacrimogeni sui feriti, di come abbia contribuito a far salire il numero delle vittime.
Le similitudini tra questo racconto e quello che nelle ore successive vedremo e leggeremo sull'attentato nella capitale sono agghiaccianti. Anche ad Ankara le esplosioni avvengono vicino al punto di ritrovo degli attivisti filo curdi. Anche ad Ankara la polizia (ciecamente?) carica la folla e rallenta i soccorsi. Ancora la mano sembra essere quella del Daesh.
“Mano fascista, regia democristiana” recitava uno slogan a proposito della strage di Piazza Fontana a Milano, “I responsabili di questo massacro stanno nel palazzo del sultano”, recita lo striscione mostrato al presidio a cui partecipiamo quello stesso giorno.

Giulio D'Errico per “RojavaResiste”
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