rivista anarchica
anno 45 n. 403
dicembre 2015 - gennaio 2016




Guardarsi negli occhi

La prima cosa che ho tentato di insegnare alle mie figlie, quella che cerco di far capire ai miei studenti, quel che mi preme in ogni conversazione è che si parli guardandosi negli occhi.
Le due persone coinvolte in ogni dialogo - chi dice e chi ascolta - devono essere collegate da un ponte di sguardi, perché questo traduce prima di tutto il rispetto, il riconoscimento della presenza dell'altro e, da parte di chi parla, il coraggio di dire e la consapevolezza di quel che si dice. È, questa, una regola elementare del discorso. Ogni sua effrazione, come scrive Michel Foucault e come conferma la nostra vita quotidiana, rivela uno squilibrio, la cui spiegazione più elementare sta nel mancato riconoscimento dell'esistenza dell'altro, troppo insignificante o troppo superiore per poter essere guardato.
Perciò mi colpisce leggere, nell'editoriale del numero speciale del quotidiano danese Dagbladet Information, commentato da The Guardian e da Internazionale, che “Per i politici, i rifugiati sono solo un problema da risolvere il prima possibile, e molti preferiscono farlo senza mai guardarli negli occhi”.
Dagbladet Information ha fatto una cosa insolita e, nel contesto della bizzarra fortezza in cui vorremmo trasformare l'Europa, straordinariamente efficace nella sua semplicità. Ha affidato un intero numero del giornale a 12 rifugiati, nel loro paese d'origine giornalisti di mestiere, facendosi da parte perché l'Altro potesse parlare con la sua voce.
Ora, la scelta è rivoluzionaria, e mi dispiace che non se ne parli di più. La prassi consueta, senza dubbio più frequente nei servizi giornalistici come nelle narrazioni della migrazione, è l'appropriazione, totale o parziale, della voce del migrante.
Accade spesso, e forse inevitabilmente, nei reportage giornalistici. Chi approda alle rassicuranti (ma poi non troppo) coste dell'Europa, al massimo parla, nelle rappresentazioni, con voce spezzata o nella elementare e disperata sintassi del pianto. L'oggetto della rappresentazione giornalistica finisce per essere soprattutto questo: la disperazione inarginabile di chi ha perso tutto e per ciò stesso deve suscitare pietà. Pietà, e solidarietà, e comprensione, non necessariamente accoglienza, che quella è una cosa più complessa e per metterla davvero in atto occorre guardare il migrante negli occhi, ascoltare la sua voce, e non contentarsi della facile assoluzione concessa appunto dal compatimento. Alla fine, i reportage ottengono questo risultato primario: ci assegnano un piccolo spazio di “sofferenza guidata“ e, dopo, una facile assoluzione.
Nelle narrazioni, invece, quel che mettiamo in atto è un procedimento più complesso, soprattutto quando queste narrazioni sono la versione romanzata di una storia vera, che però non è stata vissuta dall'autore, se non in forma riflessa, ovverosia attraverso le parole di testimoni o del/la protagonista stesso/a. È un'operazione sulla quale, personalmente, nutro moltissimi dubbi. E forse la mia valutazione discende da quello che, lo ammetto, è un insormontabile pregiudizio. Trovo presuntuoso, sbagliato e, in ultima analisi, congruente con le forme dell'imperialismo occidentale, appropriarsi della voce dell'Altro e raccontare una storia “come se” la si fosse vissuta in prima persona quando noi davvero, nelle nostre case sicure e nei nostri contesti protetti, davvero non abbiamo idea, non possiamo avere idea, al di là dei fatti, di quel che accade in contesti di guerra, dittatura, repressione, e via dicendo. Occorre, semmai, trovare il modo di rispettare la distanza, e guardare negli occhi l'Altro, riconoscergli una voce autonoma, che è la sua. Non colonizzarla, questa voce, con la pretesa di poter comprendere.
Per questo trovo straordinaria l'operazione messa in atto da Daglabet Information. “Di questi tempi in Danimarca non si parla altro che di rifugiati”, scrive una redattrice del giornale. “Abbiamo pensato di tacere e lasciare che fossero loro stessi a dettare il programma. Il risultato è radicalmente diverso da tutto ciò di cui stanno discutendo i politici”.
Ed è diverso da quello che pensa l'europeo comune, che è spaventato e proprio non è in grado di comprendere. Come si guarda negli occhi una madre la cui figlia è stata uccisa perché la madre in questione, giornalista, non si rassegnava a tacere? Io non lo so, e soprattutto non voglio pretendere di saperlo.
Perciò ascolto.
Guardo negli occhi.
Cerco di non avere paura.
Faccio i conti con la mia incapacità.
Rispetto gli spazi di un dialogo che è infinitamente difficile, e non liquidabile.
Ora non più.

Nicoletta Vallorani