rivista anarchica
anno 45 n. 403
dicembre 2015 - gennaio 2016





Quiete e rancore

1.
Tempo fa – molto tempo fa – mi si presentò un amico che era nei guai. Ci conoscevamo da oltre trent'anni, avevamo assunto punti di vista analoghi e collaborato in più di una circostanza. Da poco, poi, era rimasto vedovo e aveva perso il posto di lavoro – un posto che implicava il fatto che parlasse in pubblico. Aveva bisogno di un prestito per farsi mettere a posto i denti. Da un po', infatti, parlando, aveva preso l'abitudine di portarsi la mano davanti alla bocca – per pudore, e per vanità – si potrebbe anche dire nei pochi panni di un san Girolamo -, conscio dello stato disastroso della sua bocca e dell'effetto che poteva fare con le persone. Mi chiedeva una cifra non trascurabile – i dentisti, si sa, costano. Per me fu un sacrificio, ma, pensando a quanto si potesse sentire a disagio, tirai fuori i soldi e glieli diedi. Me li avrebbe restituiti con comodo, non appena avrebbe potuto. Per gli amici, come si suol dire, questo e altro.
Non lo vidi più. Dopo un mesetto all'incirca, mi giunse una sua cartolina da Parigi: “un caro saluto”, firmato anche da un nome femminile che, se a me non diceva nulla, immaginai che a lui qualcosa dicesse. Poi, silenzio. I mesi passarono. Dopo un anno, un anno e mezzo, mi telefona un'amica comune e mi racconta di averlo incontrato. L'ha trovato in ottima forma, soddisfatto e sorridente, più sicuro di sé e, apparentemente, privo di problemi economici. Il discorso – il loro discorso – ha finito con il cadere su di me e, sulle prime, lui non ha esitato ad esprimere tutta la sua stima nei miei confronti e nel rivangare vecchi episodi della nostra esistenza, ma, prima di lasciarla – me lo dice con un po' di reticente e preoccupata discrezione la mia amica –, non ha potuto fare a meno di buttar lì che, peccato, io abbia proprio un cattivo carattere – ecco perché non mi vede da tempo.

2.
Il caso della sindrome rancorosa del beneficiato nei confronti del beneficiante è uno dei tanti presi in esame da Laura Tappatà in un libro ottimisticamente dedicato a Il dono del rancore. Sostenuta da considerazioni di ordine psicologico e antropologico, la sua tesi è piuttosto semplice: il rancore è una passione, la passione è vita, nella vita ci sono gioie e dolori, il dolore produce conoscenza – su noi stessi e sul vivere –, il dolore può trasformarsi in rabbia e, a sua volta, la rabbia può trasformarsi in saggezza emotiva e in energia costruttiva. Anche dal rancore, insomma, può scaturire creatività. A condizione di ricordarsi che questa creatività può esprimersi anche punitivamente nei confronti del proprio oggetto, la tesi può essere presa in considerazione.

3.
Come categoria storica il rancore è un costrutto già rinvenibile nei cosiddetti Padri della Chiesa. Tipo Sant'Agostino, quarto secolo. Il tema della parola è lo stesso del “rancido” che, a suo tempo, designava il disgusto. Con l'uso, la designazione è risultata una sorta di miscela fra odio e risentimento, anche uno sdegno ma tenuto nascosto: un rancore perlopiù si “cova” e, a volte, si manifesta. Il suffisso –ore è lo stesso di controllore, professore, manovratore e lavoratore – designa lo svolgimento di una funzione. In certi casi, però, la funzione non è svolta tale e quale, può anche essere svolta alla meno peggio, o “quasi” svolta, o svolta in modo analogo. È così che possiamo costruirci il rossore, il candore o il raffreddore – ovvero situazioni in cui qualcuno diventa “quasi” rosso, “quasi” bianco o “quasi” freddo. E il rancore potrebbe anche essere definito come una “quasi” rabbia, un fuoco ancora vivo sotto la cenere dei sentimenti espressi. Qualcosa che, comunque, ha una durata.

4.
Quanto tempo può durare un rancore? Ovviamente, dipende. Dipende dal tipo di persona, dipende dall'entità dell'offesa, dipende dal fatto che l'offesa sia stata pubblica o sia rimasta privata, dipende dalla percezione che se ne ha – in definitiva, dipende dal processo di valorizzazione cui è sottoposta l'offesa da chi la riceve: qualcuno può considerarla una bazzecola, qualcun altro – la stessa offesa – se la lega al dito. E anche da quanto questo processo sia consapevolmente vissuto come tale e non trasformato, invece, in una passiva constatazione di qualcosa che trascende il rancoroso stesso.
Penso spesso a casi storici che hanno coinvolto e che coinvolgono tuttora popolazioni intere. L'Argentina del dopo-Videla, dove convivono – devono convivere – fianco a fianco torturatori e torturati, carnefici e vittime. O l'Italia degli anni trenta, dove – ancora prima che venissero promulgate le leggi razziali – fra i cattolici c'era chi definiva gli ebrei come “popolo deicida”, sulla base di un'interpretazione che risaliva a quasi duemila anni prima.
Se guardo alla cronaca sportiva, poi, mi tocca registrare la persistenza di patti di amicizia o di dichiarazione di inimicizia tra tifoserie. Il caso di Verona e di Napoli, per esempio: un'offesa “iniziale”, mi dico, ci sarà pur stata, ma la maggior parte di coloro che, da una parte e dall'altra, la “vivono” tuttora, che ne sa? Prosegue imperterrita in una sorta di tradizione familiare?

5.
Più volte mi è capitato di riflettere sul caso osservato nei primi anni del Novecento e raccontato da Gregory Bateson nei panni dell'antropologo. Le isole Andamane sono state spesso teatro di feroci guerre tra due popolazioni che, tuttavia, ogni tanto trovavano il modo di smetterla e di provare a convivere in pace. Questo armistizio era sancito in una soluzione liturgica particolare: una festa in comune, danze, cibo e giochi. Capitava anche che nei giochi – competitivi, ahimé – spesso si esagerasse, ovvero si superasse il confine di quello che veniva percepito come semplicemente giocoso e non aggressivo, e che ciò costituisse la nuova scintilla di una nuova guerra, ma questa tragica iattura, qui, posso trascurarla. Qui, mi interessa la liturgia, ovvero quel rituale di amnesia sociale in virtù del quale un'offesa può essere cancellata.
La confessione del cattolico è un esempio di lavaggio della coscienza individuale. Pur nei loro limiti, alcuni processi storici – si pensi a Norimberga all'indomani della Seconda Guerra Mondiale – hanno servito da “pacificazione”: i colpevoli sono stati condannati (non stiamo a guardare troppo per il sottile sulla correttezza del rapporto tra colpa e pena e neppure stiamo a riflettere troppo sulla sensatezza della pena, di tutte le pene) e chi è rimasto è invitato a “dimenticare” o a vivere “come se” e ricominciare da capo. Mi son detto spesso che certe mostruosità politiche del nostro dopoguerra – sto parlando dell'Italia –, presumibilmente, non avrebbero potuto svilupparsi se i conti con il fascismo fossero stati fatti seriamente, invece di truccare ancora una volta le carte in tavola, creando ad arte un mito della Resistenza di un popolo unito, nascondendo sotto il tappeto una guerra civile e trasbordando uomini e istituzioni, pari pari, da una fase all'altra.
Le durate, insomma, sono relative. Ricominciare da capo si può a patto che tutti i colpevoli abbiano saputo rendersi conto della propria colpa – un'autocritica dell'individuo e della società che l'ha espresso – e a patto che sia stata organizzata una liturgia che ratifichi l'evento. Nel microcosmo dei rapporti di coppia è un po' come quando uno dei due – il colpevole o la vittima – invita l'altro a cena.

6.
Non è vero che l'amico cui avevo fatto un prestito non si è più fatto vivo. Anni dopo è riapparso. Giulivo e affettuoso come sempre, con una dentatura apparentemente perfetta – dimentico del mio cattivo carattere e dei soldi che gli avevo dato. Durante il nostro incontro, ovviamente, ho atteso che lui ponesse l'argomento, ma ho atteso invano – e io, da persona discreta qual sono, mi sono ben guardato dal fargli il benché minimo cenno. Dato che abbiamo vari interessi in comune, va da sé che a quell'incontro ne abbiano seguito altri. Fino ad un certo giorno.
Fino al giorno in cui mi ha chiesto un prestito. Dimostrandomi che la capacità di amnesia dell'individuo è incredibile, una facoltà davvero preziosa per la sopravvivenza.

Felice Accame

Nota
La cifra, questa volta, era più modesta, più commisurata al mio stato di relativo benessere attuale. Anche l'inconscio – se di inconscio si tratta – sa fare i suoi calcoli. Glieli ho dati anche questa volta. Se non altro per non vederlo più. Anche se devo ammettere che, essendo io di cattivo carattere, un po' di rancore nei suoi confronti ce l'ho.
Il libro di Laura Tappatà è pubblicato da Sefer, Milano 2015.