rivista anarchica
anno 46 n. 405
marzo 2016





Un'idea è soltanto un'idea

Scrivo questa breve riflessione stimolata da un paio di articoli apparsi sul numero 403 di “A” (dicembre-gennaio). Il primo porta la firma del mio omonimo Andrea (“Un po' d'anarchia nell'oggi”, pag. 8), il secondo è l'ultima corrispondenza dal Chiapas di Orsetta Bellani (“Un futuro già presente”, pag. 22). Con entrambi mi sono sentita in sintonia - trovando che si completino a vicenda dato che il secondo esemplifica ciò a cui il primo fa riferimento - quindi il mio scritto vuole essere solo un'aggiunta, un pensiero in più.
Un'idea è soltanto un'idea (parafrasando il vecchio Gaber di almeno quarant'anni fa) e per quanto nobile – quindi ideale – è pur sempre prodotto umano, quindi suscettibile di evoluzione e cambiamenti anche radicali; infatti, come afferma il citato Gustavo Esteva nello scritto di Orsetta, vivere la fine non solo di un periodo storico (determinato dalle grandi ideologie che in qualche modo sono servite per ricostruire la società occidentale dopo le due guerre mondiali), ma di un'era – come sta succedendo proprio qui da noi in Europa – esige l'abbandono del tipo di pensiero nel quale ci siamo formati perché “la natura umana è un divenire culturale e come tale può essere modificato”. Questo vale, io credo, anche per l'idea anarchica che, se non trova nelle persone che la rendono vitale la possibilità di trasformarsi, è destinata a finire o rimanere aggrappata alla nostalgia di chi non vede la necessità del tempo.
Questo è quanto mi sembra dica Andrea quando riconosce tutti quei semi sotto la neve che stanno prendendo la forma di esperimenti sociali di vario genere che, in questo periodo, sono le cose più ricche di vita e speranza per il futuro non soltanto europeo. Infatti – cito dall'articolo – le esperienze nella zona curda del Rojava e nel Chiapas messicano sono tra le più significative dal punto di vista libertario e continuano a sorgere nel mondo situazioni, momenti, movimenti, sperimentazioni e quant'altro, tutti segnati da metodologie profondamente libertarie spesso con tratti anarchici, ma che quasi mai si autodefiniscono tali.
Perché? Ci sarà un motivo per cui le persone che stanno in quegli esperimenti di vita preferiscono non essere inquadrate da termini provenienti da un passato storico, seppur onorevole.
Bisognerebbe tenerne conto nel modo dovuto, dice Andrea, “perché è un segnale che indica come ci sia una spinta spontanea di rivolta per ricercare e sperimentare situazioni di tipo anarchico e libertario (...) che diano un senso vero di liberazione e libertà sociale”.
Bisognerebbe tenerne conto nel modo dovuto, lo dico anch'io, e avere il coraggio di mollare gli attaccamenti (che non significa ripudiare ciò in cui si è creduto e si crede), rivedendo linguaggi e modi di fare (lo dico da donna che vive in un ordine sociale maschile fatto di parole, gesti e azioni), perché il bisogno umano di libertà e giustizia sociale esiste da prima che qualcuno nell'Ottocento lo chiamasse anarchia e oggi probabilmente sta cercando di aggrapparsi a una pluralità di spinte interne ed esterne a ognuno di noi per le quali quel termine, come tanti altri, è troppo stretto.
Personalmente trovo proprio in questo l'entusiasmo utile a sostenermi in questo difficilissimo periodo storico, nella necessità che il tempo richiede di capovolgere tutto per andare a vedere in profondità, in quel che rimane, ciò che davvero conta e che non ha nome, come ogni novità vera.
Credo sia importante riconoscere come le società dell'Occidente – inteso non tanto geograficamente ma come riferimento a parametri culturali – hanno perso creatività, vale a dire la responsabilità del sogno e dell'immaginazione, sostituiti dall'ideologia del mercato e della finanza. È chiaro che con sogno non intendo gli importanti accadimenti notturni di cui ciascuno di noi mantiene più o meno memoria e auspico faccia il miglior uso che gli è possibile, ma parlo di sogno come atteggiamento vigile e di immaginazione, come elemento da affiancare alla speranza, quali spinte che consentono di creare la novità che si nutre non di una sola idea (come quella anarchica) ma di tutta la storia umana.
Cito a braccio una teologa cristiana – Antonietta Potente – affermando che proprio nel sogno e nell'immaginazione c'è spazio per l'invisibile, per l'inedito, il non ancora conosciuto, forse perché ancora senza nome. Sogno e immaginazione: iniziativa creativa di noi donne e uomini in cammino nella quotidianità della realtà più reale dove cerchiamo di portare cambiamento nei fatti e nelle pratiche della vita di tutti i giorni, assumendoci l'iniziativa al livello che per ciascuno è possibile, rimanendo consapevoli che ogni cosmovisione è relativa al proprio contesto e nessuno può avere una visione completa e assoluta della realtà.
Anche la corrispondenza di Orsetta Bellani si conclude riprendendo l'idea di sogno: “Iniziare a sognare e dibattere collettivamente quello che vogliamo costruire è parte del cammino. Un cammino che si fa camminando e si cammina chiedendo, con l'energia che ci muove verso ciò che ancora non è” (Jerome Baschet da lei citato).
Ma la gran parte degli anarchici non è dentro questi movimenti - sottolinea Andrea - e qualcosa questo fatto vorrà pur dire, forse la paura di abbandonare il vecchio per il nuovo correndo il rischio, però, di diventare simili a cariatidi dell'anarchia.
Riconosco che, fortunatamente, le pagine di “A” sono un'eccezione nella disponibilità che dimostrano a uscire dal coro. Così sarebbe bello vedere l'evoluzione di questa rivista nel diventare ancora di più centro di raccolta e testimonianza di tutto quel materiale senza etichetta che racconta le esperienze di chi sta dalla parte della vita.

Silvia Papi
Gropparello (Pc)



Dibattito Isis.2/ Alcune riflessioni su Islam, terrorismo e Occidente

All'indomani dei sanguinosi attentati terroristici che lo scorso 13 novembre hanno colpito Parigi, il discorso pubblico occidentale, in modo compatto, si è prontamente mobilitato nel tentativo di restituire una narrazione dei fatti che purtroppo non è stata e non sarà in grado di produrre una riflessione seria e approfondita sull'argomento. Per quanto comprensibili e condivisibili, infatti, le unanimi condanne che sono state scagliate sugli attentatori non serviranno certo ad evitare future tragedie. Oltre alle parole, serviranno ancora meno l'eventuale sospensione degli accordi di Schengen, la chiusura delle frontiere o l'innalzamento di nuovi muri; serviranno a ben poco lo stato di emergenza, le leggi speciali e il generale aumento delle misure di sicurezza; ma, soprattutto, non servirà a nulla un'ennesima campagna bellica come quella che si sta profilando in questi giorni se non a produrre nuovi adepti tra le fila di quel terrorismo che si vorrebbe debellare.
Come prima cosa, dunque, sul piano speculativo, occorre andare oltre le condanne e le sentenze, oltre la retorica e la pratica della “guerra al terrore” e del richiamo allo scontro di civiltà – tanto falso quanto inutile, seppure sempre estremamente efficace sul piano del consenso mediatico e politico - per cominciare invece a porsi alcune domande fondamentali e interrogarsi quindi sui molti doverosi perché. Occorre cercare spiegazioni, non certo impossibili giustificazioni, ma elementi di comprensione utili a definire il fenomeno del terrorismo cosiddetto islamista evitando anzitutto di cadere nell'errore di ridurlo alla dimensione imperscrutabile della follia. Affermare che i terroristi rispondono unicamente alla pazzia – come da molti è stato fatto sull'onda dello sconcerto - può offrire un comodo riparo al nostro istintivo disorientamento e, ancor di più, alle nostre coscienze, ma significa arrestare il pensiero a un piano estremamente superficiale della questione e soprattutto significa inevitabilmente non capire la portata storica di quei gesti nichilistici.
La prima domanda domanda da porsi, allora, nel caso degli attentatori di Parigi - tanto quelli che hanno assaltato la redazione di Charlie Hebdo quanto i protagonisti di questo sanguinoso 13 novembre -, non può che essere relativa alla loro identità. Molto semplicemente c'è da chiedersi chi sono. La risposta è altrettanto semplice e non lascia indifferenti per almeno due motivi. Sappiamo infatti che il massacro di Charlie Hebdo è stato perpetrato da due giovani fratelli di nazionalità francese e che anche cinque degli attentatori del 13 novembre erano francesi, mentre quella che viene ritenuta la “mente” dell'operazione, Abdelhamid Abaaoud, era di nazionalità belga. Questo dunque il primo motivo: si trattava a pieno titolo di cittadini europei, nati e cresciuti nel cuore dell'Occidente, nella nostra civile e democratica Europa, e non oltre quel confine immaginario che separa il Noi dal tutti-gli-altri. Come hanno scritto quattro insegnanti di Sein-Saint-Denis, “quelli di Charlie Hebdo erano i nostri fratelli: li piangiamo come tali. I loro assassini erano orfani, in affidamento: pupilli della nazione, figli di Francia. I nostri figli hanno quindi ucciso i nostri fratelli. Tragedia. In qualsiasi cultura questo provoca quel sentimento che non è mai evocato da qualche giorno: la vergogna”. E concludevano dunque ribadendo che certamente siamo Charlie Hebdo, ma siamo anche i genitori dei loro assassini. E tale paternità, occorre riconoscerlo, non è esclusiva francese ma, appunto, europea, occidentale.

Mentre in Place de la Republique...
Alla luce di questo dato, il secondo motivo che non può lasciare indifferenti riguarda appunto la costruzione mediatico-politica del terrorista come mostro alieno, nel vero senso etimologico della parola: colui che viene da fuori e che è straniero, estraneo al nostro mondo, alla nostra cultura, ai nostri valori, in sintesi, alla nostra civiltà (ammesso e non concesso di possedere un'identità da leggere in questo senso). Una costruzione per niente ingenua o frutto di superficialità, ma perfettamente funzionale e strumentale al potere politico: “La Francia è in guerra”, ha infatti ben presto dichiarato Hollande. E non intendeva certo una guerra civile. Il nemico è stato subito proiettato oltre il giardino di casa, al di là della Fortezza Europa, nella lontana Siria, a Raqqa, quartier generale di quel sedicente Stato Islamico che ha orgogliosamente rivendicato le morti parigine. E così le prime bombe non si sono fatte attendere a lungo. Ma le ricadute politiche e giuridiche che la reazione del governo francese ha determinato non sono meno preoccupanti e colpiscono indiscriminatamente tanto i cittadini francesi quanto i migranti – e non solo - di tutta Europa. In deroga alla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), che limita la durata dello stato di emergenza a un massimo di dodici giorni.
Il Consiglio dei Ministri francese ha decretato che, data la gravità della situazione, questo sarà eccezionalmente mantenuto in vigore per tre mesi. Si tratta di una decisione di una forte e inquietante deriva autoritaria che l'opinione pubblica francese ed europea in generale, concentrata sulla propria sicurezza, non ha immediatamente recepito come tale, dunque come una grave minaccia alla propria libertà. Solo quando alla popolazione francese è stato vietato di scendere nelle strade di Parigi e manifestare pubblicamente contro la conferenza sul clima (Cop21) inaugurata lo scorso 29 novembre in molti si sono finalmente resi conto della pericolosità di tale provvedimento. Ancora più recentemente, il filosofo Giorgio Agamben ha ricordato come lo stato di emergenza, lungi dal costituire uno scudo per lo stato di diritto, offra invece la possibilità concreta del suo rovescio, come accadde in Germania durante il regime hitleriano. E così, mentre sul selciato di Place de la Republique venivano deposte migliaia di innocue scarpe colorate, altrove, decine di militanti ecologisti e ambientalisti, di appartenenti ai movimenti antagonisti, ma anche di semplici agricoltori, subivano irruzioni improvvise nelle proprie abitazioni (senza mandato), perquisizioni personali e fermi preventivi grazie al benestare del sopraccitato stato di emergenza.
Di pari passo, dal giorno degli attentati, migliaia di cittadini francesi (ma dall'apparente origine straniera e presumibilmente prestanti fede musulmana) vengono sistematicamente fermati e controllati per scopi identificativi. Il clima di prove generali di sospensione di alcuni dei diritti fondamentali dell'uomo, quali tra gli altri la libertà di circolazione e di riunione, non si è arrestato (è il caso di dirlo) al cospetto della Alpi. Ne abbiamo sentito il riverbero anche in Italia, quando il 24 novembre, decine di forze dell'ordine in tenuta antisommossa hanno fatto irruzione presso il centro di accoglienza “Baobab” di Roma, perquisendone i locali e trasportando in questura ventiquattro ragazzi migranti per non meglio precisati accertamenti. Per non parlare del Belgio, dove la capitale Bruxelles è stata blindata e militarizzata per diversi giorni, tenendo l'intera cittadinanza ostaggio delle proprie case e del terrore: scuole, metropolitana e cinema chiusi, concerti annullati e campionato di calcio sospeso.

Infiniti non-luoghi
Riprendendo il filo del discorso, tuttavia, una volta trovata la risposta all'identità degli attentatori parigini e compresa dunque la loro totale appartenenza al mondo europeo ed occidentale, occorre porsi una seconda e ben più complessa domanda: perché? Dove risiede la motivazione di tanto odio? Da cosa si origina un tale livore nei confronti della terra che li ha cresciuti? La prima risposta, quasi un riflesso condizionato, associa istintivamente gli eccidi parigini allo scontro di civiltà o, meglio ancora, a una presunta guerra di religione, identificando nell'islam radicale la radice di tale fenomeno, definito, appunto, terrorismo islamico. D'altra parte, che il sedicente ISIS - o DAESH che dir si voglia - sia una realtà concreta responsabile di atrocità enormi, compresa la strage di Parigi, è un dato di fatto incontrovertibile che nessuno può e vuole mettere in dubbio. E tuttavia questa risposta non pare sufficiente a spiegare la questione nella sua complessità.
Da un lato, dunque, occorre volgere lo sguardo ai luoghi più vicini a noi, quei luoghi delle nostre città, le periferie suburbane, nei quali gli attentatori sono appunto nati e cresciuti, nei quali si sono letteralmente formati e hanno maturato l'odio sociale e religioso sviluppandolo fino alle ultime conseguenze. Un sottosuolo, appunto, quasi sempre relegato a se stesso, taciuto e negato, dove la mano dello Stato si allunga solo per castigare e reprimere.
È a partire da queste terre di nessuno, da questi infiniti non-luoghi, che occorre invece intervenire con uno sforzo e un investimento consistente di matrice politica e culturale al fine di prevenire ed evitare la produzione di pericolose sacche di emarginazione ed esclusione dove facilmente si può cadere prede di richiami identitari estremistici, tanto religiosi quanto sociali.
Dall'altro lato però occorre contemporaneamente volgere lo sguardo anche ai luoghi più lontani, nel tempo e nello spazio. Ed è qui che si rende indispensabile adottare un criterio di indagine che, per dirla con l'antropologo statunitense Paul Farmer, sia quanto più possibile storicamente profondo e geograficamente ampio. Occorre dunque abbandonare le quattro decrepite mura della fortezza europea per affacciarsi oltre le acque del mediterraneo e dell'oceano, senza timori, volgendo lo sguardo all'indietro, ai tempi delle colonie americane ed africane e dunque ripercorrere la Storia con il pensiero rivolto da un lato a ciò che si proclamava proprio in Francia sui concetti di libertà, uguaglianza e fratellanza - declamati e rivendicati alla stregua di diritti universali -, e dall'altro a ciò che invece avveniva nella realtà, ad esempio ad Haiti, dove la stessa Francia cercò invano di reprimere nel sangue la rivolta degli schiavi neri che pretendevano di credere negli stessi valori della madrepatria o, ancora più recentemente, in Algeria, dove per otto lunghi anni sempre la Francia si impegnò in tutti i modi possibili – e di nuovo invano – per sconfiggere la giusta battaglia per l'indipendenza del popolo algerino.
Sono solo due esempi utili a rendere l'idea di come il discorso civile o illuministico che dir si voglia occidentale, lungi dall'essere universale, sia invece sempre stato un costrutto autoreferenziale, presupponendo di per sé le condizioni di quella che solo oggi viene riconosciuta come la divisione tra Noi e Loro. Una divisione e una separazione volute e create fin dai primordi dell'Occidente, poiché solo grazie a questa divisione e a questa separazione di natura evidentemente gerarchica l'Europa ha potuto edificarsi e proclamarsi superiore, ovvero a scapito di tutti-gli-altri. Non è possibile parlare di Europa e di Occidente senza fare i conti con il nostro passato recente; senza fare i conti con lo schiavismo, il colonialismo, l'imperialismo e, più in generale, con ogni forma di sfruttamento. E non è possibile per il semplice motivo che ne siamo il prodotto culturale e materiale. Finché non proveremo a decolonizzare il nostro pensare e il nostro agire non potremo mai superare quella linea del colore – per dirla con Du Bois - che ancora separa il Noi dal tutti-gli-altri, i civili dai non-civili.

Macabra contabilità della morte
Fino ad allora continueranno a valere le parole di Talal Asad secondo cui “la percezione che la vita umana abbia un valore di scambio differente nel mercato della morte a seconda che si tratti della vita di persone 'civilizzate' o 'non civilizzate' non è solo assai comune nei paesi liberaldemocratici: è funzionale a un ordine mondiale gerarchico”1. A questo proposito, entro l'ottica di uno sguardo capace di allargare gli orizzonti del discorso al di là dei confini europei ed occidentali, si profila un'ulteriore riflessione dai risvolti tanto sorprendenti quanto significativi. Stando all'ultimo rapporto del Global Terrorism Index2, infatti, negli ultimi 15 anni, le vittime occidentali del terrorismo (islamista o meno) sono pari al 2,6% del totale e, se si escludono le morti legate agli attentati dell'11 settembre 2001, la percentuale scende ulteriormente allo 0,5.
Ciò significa che, malgrado il bassissimo impatto mediatico, la quasi totalità delle vittime del terrorismo mondiale si conta in paesi non-occidentali, primi fra tutti Iraq, Nigeria e Afghanistan. Un dato altrettanto inaspettato riguarda il principale gruppo terroristico per numero di morti, ovvero Boko Haram e non, come si potrebbe immaginare, l'ISIS. Ma ciò che colpisce di più in questa macabra contabilità della morte riguarda il fatto che la stragrande maggioranza delle vittime non è di religione cristiana o ebrea, ma musulmana. Basti pensare che solo nel 2015 i morti islamici per mano terrorista sono stati oltre 23mila, contro i 148 caduti in Europa tra Parigi (7 gennaio e 13 novembre) e Copenaghen (14/15 febbraio). È dunque questo il terreno su cui cominciare a riflettere seriamente, per porsi altre necessarie domande e tentare qualche doverosa risposta.

Raúl Zecca Castel
Monza (MB)

Note
1 ASAD T., Il terrorismo suicida. Una chiave per comprenderne le ragioni, Ed. Cortina, p. 92
2 http://economicsandpeace.org/wp-content/uploads/2015/11/Global-Terrorism-Index-2015.pdf



Anarchia, letteratura e le mistiche

Le coordinate dello spirito - si sa - sono anarchiche. Così mi capita di ripensare ad un discorso espresso in una circostanza passata e sentirlo al presente, o subito dopo, come un lascito vago, qualcosa rimasto in sospeso.
È un bene? È un male? Chissà? È un dato di fatto: le cose esigono tempo. Premono – fuori dal tremore del momento – a riprendere il filo del discorso e a cercare di intrecciarlo, con un punto a orlo un po' sghembo, nel cuore della cosa.
A Massenzatico per la festa dei 400 numeri di A, in combinata con Massimo Ortalli, mi è stata data l'opportunità di dire la mia su letteratura e anarchia.
Non intendo rinnegare ora la mia affermazione di allora – la letteratura è detestabile in quanto fuori dall'atto di scrivere – ma riprendere il contrappunto in rapporto all'altro lato della questione, articolandolo alla dimensione ideale dell'anarchia.
Dove? Come? Con quali passaggi abbordare atto dello scrivere e contesto anarchico senza confonderli e sentirli tuttavia vivere (quasi) morbosamente? Attraverso la scrittura mistica, la cui natura misteriosa scorre, non di meno dell'ideale anarchico, su impietosi silenzi.
Ecco, posso ora rispondere più concretamente alla richiesta di Carlotta che, da giovane anarchica qual è, sollecitava, a incalliti anarchici che siamo, suggerimenti di lettura.
I testi delle mistiche e dei mistici di ogni tempo – le dico ora – e le raccomando di non forzare la lettura in cerca di quella neutralità in cui si crede consista il pensiero oggettivo, come se il pensare soggettivo non facesse parte del contesto ragionante; che (ci) si abbandoni alla lettura come a qualcosa di cui al primo impatto, ingombrati come siamo di noi stessi e delle nostre certezze, si capisce quasi niente e che forse, con una dose di distacco, si avverte evocatrice intima di qualcosa di prezioso, di perfettamente incomprensibile in grado di orientarci. Stare alla lettera è una virtù semplice quanto difficile da preservare, perché ci si aspetta in fondo di essere confermati.
Stando in prossimità del testo mistico ci si accorge di una semi-assenza di chi scrive, si dice sia la morte dell'io necessaria all'autore. Far resistenza ad essa per paura di risultare ignobile è rifiutare la verità che pur in minima parte è sempre tutta. Il torpore di chi scrive si presenta nell'articolazione paratattica della prosa e si manifesta altresì nel verso lirico della poesia. L'autore mistico non argomenta niente, non dice nulla, non si pronuncia su niente, non ha disposizioni da opinionista, non sa lui stesso dove andrà a parare. Si abbandona alla risonanza in tutta semplicità – come la linearità paratattica attesta e l'illuminazione poetica arriva, se arriva, come epifania di parola. In sintesi, la verità nuda non ha perché nè di fine né di causa.
Non disgiungere mai l'opera dall'autore, è stato l'altro suggerimento. Lo ribadisco in questo senso: i testi di mistiche e di mistici che, stando alla sostanza della lettera per le une e per gli altri, non è un'attribuzione generica, sono il testo vivo di un corpo erotico che (ci) parla nel tempo e in tempo reale; dicono di un soggetto fuori di sé a prescindere da sé stesso. Non per caso, Jacques Lacan giudicò gli scritti di mistiche e di mistici cose di «gente seria»...
La dismisura che sostiene l'azzardata combinazione di mistica e anarchia sta nella dimensione ideale e politica di quest'ultima in base alla considerazione che il fine dell'azione sta già nel mezzo utilizzato, così come nella scrittura mistica la meta è già il percorso.
Le utopie autoritarie, come i sistemi totalitari dalle quali dipendono, hanno per contro la pretesa di fare del proprio sogno il sogno di tutti e di realizzarlo a tutti i costi, deprivando gli altri della possibilità stessa di avere sogni e sogni differenti da quello del dominio. In vero, c'è da rilevare che i sistemi totalitari, almeno all'inizio, hanno assai poco da reprimere, essendo nutriti proprio da quella mancanza di pensiero vivo e di sogno creatore...
La libertà autentica non è definita in rapporto a desiderio e soddisfazione ma in rapporto a pensiero e azione, che non reggono una perfetta coerenza logica, insorgono in parziali verità di reale vivente.
L'idealità anarchica non pecca di realismo nel mantenersi viva sul piano ideale. Degrada per l'illusione di possibilità. Il possibile è il luogo dell'immaginazione e quindi della degradazione. Bisogna volere o ciò che precisamente esiste, o ciò che non può affatto essere; meglio ancora ambedue. Giacché non si tratta di consolarsi preservando solamente la purezza ideale fuggendo l'esistente dove, nel tempo continuo del qui-ora, la mediazione vivente tra realtà e irrealtà è la mediazione necessaria. Altrimenti detto: esserlo non farlo.
La testualità anarchica inscrive la traversia assai movimentata dell'essere-già, in procinto, di non essere-ancora, tra dicibile e indicibile.
Come la testualità mistica non è partorita per concepire pregressi canoni di uno specifico genere letterario – sarà ciò che avverrà – così su altro piano la tradizione anarchica si svolge al di qua di qualsiasi adesione programmatica, non si basa su attestazioni associative finalizzate a inscrizioni statuali.
La scrittura in qualsiasi genere si manifesti è un fatto mistico. D'altronde scrivere su qualcosa (di già scritto), rende incomprensibile l'uno l'altro. La pagina bianca con tanto di margine da una parte e l'ideale senza fine dall'altra sono in rapporto analogico con verità ed esistenza. Anarchia e mistica, pietre di autori nudi. Autori nudi perturbanti se da sempre nella cultura occidentale mistica e lettera anarchica sono al bando.
Il corpo del testo mistico si concretizza nello scrivere sulla scrittura scrivendo.
Il corpo del testo anarchico è rigenerato dalle stesse sconfitte nella presa del palazzo. Sconfitte che costituiscono altrettante proprie vittorie.
Mistica e anarchia stanno al sodo, all'essenziale, alla nuda verità delle cose e delle relazioni: impersonali nel corpo mistico, personali e politicamente dirette quelle del corpo anarchico, che sembrano farne il luogo senza delega del potere di chi non ha potere.
Se è vero che il senso della politica, cosa del tutto altra dal potere, esige un lavoro su se stessi in rapporto singolare alle cose del mondo, allora mistica e anarchia condividono non tanto la virtualità morale quanto piuttosto la dismisura di un'esperienza che le eccede.

Monica Giorgi
Bellinzona (Svizzera)


Bibliografia minima sragionata

Clarice Lispector, La passione secondo G.H.; L'ora della stella
Margherita Porete, Lo specchio delle anime semplici
Amélie Nothomb, Metafisica dei tubi; Cosmetica del nemico
Søren Kierkegaard, Stadi sul cammino della vita
Marìa Zambrano, Filosofia e poesia; Il sogno creatore
Franz Kafka, Indagine di un cane
Hadwjch d'Anversa, Lettere
Max Stirner, L'unico e la sua proprietà
Antonietta Potente, Cuando? Ahora - le coordinate anarchiche della misticapolitica
Piötr Kropotkin, Il mutuo appoggio
www.marapaltrinieri.wordpress.com; www.marapaltrinieri.youtube
Simone Weil, L'ombra e la grazia; Dichiarazione degli obblighi verso l'essere umano
Juan de la Cruz, Notte oscura; Cantico spirituale
Meister Eckhart, Sermoni tedeschi




I nostri fondi neri

Sottoscrizioni. Edy Zarro (Caslano – Svizzera) 17,00; Danilo Vallauri (Dronero – Cn) 10,00; Aldo Curziotti (Felegara – Pr) 10,00; Salvatore Pappalardo (Acireale – Ct), 40,00; Saverio Nicassio (Bologna) 10,00; Libreria San Benedetto (Genova Sestri Ponente – Ge) 3,50; Camilla Galbiati (Robecco sul Naviglio – Mi) 40,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Alfonso Failla e Amelia Pastorello, 500,00; Maria Teresa Giorgi Pierdiluca (Senigallia – An) 10,00; Rino Ermini (Villa Cortese – Mi) 10,00; Paolo Facen (Feltre – Bl) 10,00; Benedetto Di Pietro (Aielli Stazione – Aq) 10,00; Luigi Vivan (San Bonifacio – Vr) 10,00; Sergio Pozzo (Arignano – To) 10,00; Anita Pandolfi (Castel Bolognese – Ra) 10,00; Franco Schirone (Milano) 100,00: Dino Delcaro (San Francesco al Campo – To) 10,00; Carlo Capuano (Roma) 10,00; Gualtiero Mannelli (Pistoia) 20,00; Vincenzo Argenio (San Nazzaro – Bn) 30,00; Giovanna Quadri Giannazzi (Origlio – Svizzera) 67,00; Gianni Ricchini (Verbania) 10,00; Gianni Forlano e Marisa Giazzi (Milano) “buon anno ad A”, 100,00 Angelo Pizzarotti (Borsano di Calestano – Pr) 10,00; Enrico Calandri (Roma) 100,00; Gabriele Lugaro (Savona) 20,00; Marco Giusfredi (Chignolo Po – Pv) 100,00. Totale € 1.277,50.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di euro 100,00). Selva Varengo e Davide Bianco (Lugano – Svizzera); Mariella Bernardini e Massimo Varengo (Milano); Ettore Valmassoi (Quero – Bl); Mario Perego (Carnate – Mb) 250,00; Andrea Morigi (Savignano sul Rubicone – Fc); Renzo Bresciani (Campi Bisenzio – Fi); Luca Todini (Brufa Torgiano - Pg); Giacomo Ajmone (Milano); Salvatore Piroddi (Arbatax – Og); Fantasio Piscopo (Milano); Andrea Della Bosca (Morbegno – So); Alberto Ramazzotti (Muggiò – Mb) 150,00; Marco Bianchi (Arezzo); Liana Borghi (Firenze); Amedeo Pedrini e Fiorella Mastrandrea (Brindisi); Silvio Gori (Bergamo) ricordando Egisto, Marina e Minos Gori, 150,00; Milena Soldati (Clermont Ferrand – Francia) 150,00; Fabrizio Fazio (Serrastretta – Cz); Andrea Della Bosca (Morbegno – So); Silvano Montanari (san Giovanni in Persiceto - Bo). Totale 2.300,00.