rivista anarchica
anno 46 n. 405
marzo 2016






Ta-pum

“...Ritengo che le canzoni popolari, sia tradizionali che contemporanee, siano espressione della storia, segno di come la gente comune vive quegli eventi che spesso ci coinvolgono profondamente. Sono le cose che succedono attorno a noi e che ci vedono come spettatori o magari come vittime, incapaci di intervenire. Alcuni di noi si esprimono scrivendo e cantando, ed è in questo senso che la canzone popolare si fa portatrice della storia: è la storia raccontata da quelli che c'erano, dai testimoni diretti. Più del 90% delle cose che conosciamo ci sono state raccontate. Prendiamo questa conoscenza dalle nostre famiglie, dalla scuola, dai libri, dai giornali, dai film, dalla radio, dalla televisione, dai vicini di casa e dagli amici. La nostra esperienza diretta è minima. Chi deve salvaguardare questa cultura sono le istituzioni, e chi comanda dentro a queste istituzioni ha un potere enorme sulle nostre vite. Le canzoni popolari sono un antidoto prezioso: portano in sé i racconti della gente ed offrono una visione alternativa del mondo: il mondo lo vedono dal di dentro. E queste canzoni o le si mantiene vive, o saranno perdute...”.
Sono proprio le parole giuste. Queste del vecchio cantastorie socialista inglese Roy Bailey sono anche le parole più affilate e roventi, quelle più difficili da “gestire”. Ma come fa la gente a raccontare la guerra? L'unico modo è cantarla. Voi che leggete questa rubrica penso che di Paola Sabbatani già ne avrete sentito parlare: avrete ascoltato e magari apprezzato quel suo bel lavoro “Non posso riposare” fatto in tandem con Roberto Bartoli (vedi “A” 331, dicembre 2007), e quell'altro suo lavoro su Francisco Ferrer (“A” 353, maggio 2010). Scrivo questa segnalazione con la speranza di catturare l'attenzione degli altri: se non vi accontentate della solita minestra e vi piace incuriosirvi e investigare, come mi auguro e vi auguro, ecco una buona occasione.
Questo cd, manco a dirlo, non lo trovate nei negozi (richiedetelo all'autrice via Facebook, oppure scrivendole a paola@unacitta.org, in cambio di un'offerta libera e consapevole). Contiene una selezione di canzoni registrate dal vivo al teatro Due Mondi di Faenza lo scorso aprile, con Paola c'erano sul palco ancora Roberto Bartoli al contrabbasso e Daniele Santimone alla chitarra.
Quel concerto potrebbe essere facile da raccontare: c'era la voglia forte di scappare lontani dalla retorica che accompagna le celebrazioni per i cento anni della prima guerra mondiale, da quella catasta di spiegazioni e ignobili giustificazioni, di analisi e cifre, corone di fiori e fanfare. C'era la voglia altrettanto forte di cantare forte l'assurdità e la disumanità di tutte le guerre. Certo c'era tutto questo eppure, ascoltando attentamente, avverto che nelle teste e nel cuore dei musicisti abita la determinazione sì, ma convive con il dubbio, la paura, la confusione, il disorientamento. Per raccontare la guerra si ha bisogno di compagnia perché resistenza e lotta significa avere mani da stringere e sguardi intorno dove rispecchiarsi. Io, per me, ho deciso. Faccia pure, mandi i suoi sgherri a cercarmi, egregio presidente: io non andrò a fare la guerra, non andrò ad ammazzare la gente più meno come me. E griderò a tutti di non partire, di non obbedire.
Racconta Paola: “Il tempo che è passato non passerà mai: ecco perché questi canti non hanno addosso la polvere degli scavi, ma una nuda, netta, forte e talora dolcissima carica di verità e di vita”.

da sinistra: Daniele Santimone, Paola
Sabbatani e Roberto Bartoli
Quel mostro grande della guerra

Se “guerra mondiale” l'hanno chiamata, Paola e compagni sono andati in cerca d'aiuto in giro per tutto il mondo: col francese disertore e senz'armi, in ottima compagnia, ritroviamo l'argentino Leon Gieco, quello che chiede a dio che che la guerra non gli sia indifferente, guerra come un mostro grande che calpesta feroce tutta la povera innocenza della gente. C'è il nostro caro compagno Faber col suo girotondo di migliaia di ragazzi rimasti senza nome costretti a partire per andare a morire, per non importa chi.
Mi ha colpito molto la versione di “Christmas in the trenches” di John McCutcheon, che racconta della “tregua di natale” del 1914, un episodio sottaciuto, nascosto, fatto sparire: se se ne fosse saputo in giro avrebbe forse insegnato oggi una storia diversa da quella di una guerra che alla fine contò quasi nove milioni di morti. Ne riporto di seguito la traduzione.

Mi chiamo Francis Tolliver, vengo da Liverpool
due anni fa la guerra mi stava aspettando alla fine della scuola
dal Belgio, dalle Fiandre, dalla Germania fino a qui
ho combattuto per il re e il paese che amo
era natale in trincea, dove il gelo ci abbracciava duramente
i campi gelati della Francia erano immobili, non c'erano canti di natale
le nostre famiglie in Inghilterra stavano brindando a noi in quel giorno
ai loro coraggiosi e gloriosi amici così lontani
ero sdraiato con il mio compagno sul terreno roccioso e freddo
quando attraverso le linee di battaglia è arrivato un suono strano
dice: “Adesso ascoltatemi ragazzi!” e ogni soldato si sforzava di ascoltare
mentre una giovane voce tedesca cantava così chiara.
Sta cantando dannatamente bene, sai!” - mi ha detto il mio compagno.
Presto a una a una, ogni voce tedesca si è unita a quel canto.
I cannoni sono rimasti muti
le nubi di gas non si sono alzate
e il natale ha portato una tregua alla guerra.
Qualcuno viene verso di noi!” - ha gridato la sentinella in prima linea.
Tutti gli sguardi erano fissi su una alta figura che arrancava nella nostra direzione
con la sua bandiera bianca, come una stella cometa
che sventolava luminosa sulla pianura
e lui coraggiosamente disarmato avanzava a grandi passi nella notte.
Ci siamo scambiati cioccolato, sigarette e fotografie di casa
figli e padri lontani dalle loro famiglie
il giovane Sanders ha suonato la fisarmonica e loro avevano un violino
Una curiosa e strana banda di uomini.
Presto la luce del giorno è sorta su di noi
e la Francia è stata di nuovo la Francia
con tristi addii ci siamo preparati di nuovo alla guerra
ma una domanda era nel cuore di chi aveva vissuto quella notte meravigliosa:
Quale famiglia ho visto con i miei occhi?”
Era natale in trincea, dove il gelo ci abbracciava così duramente
i campi gelati della Francia erano riscaldati dal canto di canti di pace
i muri che hanno eretto tra di noi per il mestiere delle armi
erano stati frantumati e cancellati per sempre.
Mi chiamo Francis Toller, vivo a Liverpool
ogni natale che è venuto dopo la prima guerra mondiale
ho imparato bene la lezione:
quelli che volevano sparare non sono tra i morti e i feriti.
Da entrambi i lati del fucile noi siamo tutti uguali”.

Marco Pandin
stella_nera@tin.it