rivista anarchica
anno 46 n. 405
marzo 2016





Due obiezioni di coscienza, anzi tre

1.
La decisione relativa al comprare o al non comprare qualcosa non sempre affonda le proprie radici in mere questioni economiche. Spesso, ragioni politiche e ideologiche ci guidano in una direzione piuttosto che nell'altra. Per esempio, io sono tassativo nei confronti di tutti le merci i cui prezzi finiscono con i 99 centesimi: non le compro. Di principio, qualsiasi cosa costi x virgola 99 centesimi escludo che possa interessarmi e l'argomento potrebbe anche valere nel caso i centesimi siano 95 o 90. Mi ribello all'idea che un essere umano possa considerare vantaggioso comprare qualcosa a un centesimo in meno dell'unità superiore e ritengo poco corretto – al limite del truffaldino – il comportamento di chi vende fissando questo prezzo. In ciò, vedo il segno di un'asimmetria offensiva: il venditore che ritiene il compratore tanto cretino da non accorgersi di ciò che paga, dicendo a se stesso di aver pagato l'unità inferiore in luogo di quella superiore meno un centesimo. C'è una logica di classe a monte di questa proposta di scambio.

2.
Non con la stessa tassatività, ma con qualche sospetto guardo anche all'Outlet. Mi spiego. Potremmo considerare l'outlet come la deriva americana dello spaccio aziendale. Roba vecchia, in fin dei conti, roba da primo Novecento diffusasi poi epidemicamente in Europa dagli anni Settanta in avanti. In quanto soluzione di vendita non è difficile riconoscerle una ragione: se l'azienda vende direttamente al consumatore la propria merce, per il solo fatto di evitarne i costi di distribuzione, questa merce può costare di meno. In teoria, considerando il guadagno del negoziante e di chi gliela consegna, anche intorno al cinquanta per cento – forse di più, a seconda delle categorie merceologiche. Perlopiù l'outlet concerne l'ampio settore dell'abbigliamento, ma ci si può imbattere facilmente anche in outlet dedicato alle attrezzature sportive, ai cosmetici o ai prodotti casalinghi. Quando ero bambino – e quando, allora, se ne parlava ancora come di uno spaccio aziendale – andavo all'Alemagna e, passando per un ingresso sul retro, mi compravo un chilo di “sanagola” mal riuscite. Ma, per l'appunto, lo spaccio era connesso anche fisicamente all'azienda. Ora, il fatto che tra outlet e azienda produttrice a volte intercorrano chilometri, mi induce al sospetto che si tratti di un negozio come un altro, una messa in scena destinata a persuadere l'acquirente di aver fatto un “affare” eliminando, di fatto, scorte di magazzino e prodotti invecchiati. Anche il nome, l'americanata di turno, mi conferma l'ipotesi: Out–let sta propriamente per il “punto di uscita”, ma, per l'appunto, questo punto di uscita presuppone tutta una serie di altri punti – di entrata e di elaborazione – di cui si è perso la traccia.

3.
Una metafora minacciosa che sentivo usare molti anni fa è quella dell'“uscirne con i piedi in avanti”. Voleva dire: entra e ne esci morto. Ora, posso cercare di sottrarmi più a lungo possibile a questa mia futura condizione, ma sottrarmene per sempre non posso. Tuttavia, vorrei sottrarmi per sempre – lo chiedo espressamente a quei miei cari cui capiterà la bisogna – a quell'azienda che, definendosi “Outlet del funerale”, vanta a caratteri cubitali il prezzo di 1.099 euro. Alle ragioni politiche già espresse, posso aggiungere una ragione “semantica” che mi spinge a rifiutarmi in quanto eventuale cliente. Un funerale è già per conto suo un “punto di uscita” – il punto di uscita per eccellenza, oserei dire, il punto di uscita dalla vita stessa – e il punto di uscita del punto di uscita, sinceramente, mi sembra un'iperbole di cui si può fare a meno, una cinica americanata che non dovrebbe rimanere impunita.

Felice Accame

P. s.: a Milano, ho trovato anche l'outlet dei “Kasalinghi”, scritto con la kappa. Anche qui, avrei i miei dubbi. Se dovessi applicare la medesima logica in base alla quale negli anni Settanta si scriveva sui muri “Kossiga” con la kappa, dovrei concluderne che i “casalinghi” sono nemici del popolo – popolo che, pertanto, dovrebbe star bene attento a non entrarci. Il che risulterebbe contraddittorio con la “mission” (si dice così, no?) dell'impresa. Ne concludiamo che, sommersi e boccheggianti nel mar dei sargassi dei segni, stiamo perdendo contezza dei significati delle parole che usiamo e della loro storia? Che pur di introdurci in questo onnivoro mercato, siamo disposti a dimenticare, ignorare e tradire? Sì – per quanto doloroso sia ammetterlo –, perché no?
P. p. s.: Nei mesi scorsi, avevo dato l'autorizzazione al mio editore di predisporre e mettere in vendita la versione e-book di tre miei libri. Poi non me ne sono più occupato. È soltanto dopo aver scritto queste note che mi è capitato di subire, in rete, una sorta di immediata vendetta del mondo nei confronti del mio pensiero critico. I miei tre libri, infatti, sono rispettivamente offerti a 5,99, 6,99 e 16,99 euro.