rivista anarchica
anno 46 n. 406
aprile 2016





Sorprese lungo l'asse del tempo

1.
Spiega Max Jammer nella sua Storia del concetto di spazio che, nella maggior parte delle lingue antiche, molte parole “mostrano chiaramente la tendenza a passare dalle qualificazioni spaziali a quelle temporali” – che, per esempio, “prima”, etimologicamente significa “davanti a” e che, infatti, la parola ebraica corrispondente è “lifney” il cui significato originario è “di fronte a”. Parole che un tempo hanno designato lunghezze – può essere un altro esempio –, in un secondo momento, hanno finito per designare parti del giorno. Nella prefazione al libro, Albert Einstein confermava questa tesi riassumendola in termini di genealogia della mente umana: il concetto di spazio è stato preceduto da quello di luogo. In quella circostanza come in molte altre, Einstein dice anche che “spazio” e “tempo” sono “libere creazioni dell'immaginazione umana” e come possa poi coniugare questa sua convinzione con la fisicalizzazione di uno “spazio-tempo” come quarta dimensione – così come fa nella sua teoria della relatività – a me sfugge ora come è sfuggito sempre. Sono portato a pensare che ad una cosa assegno uno statuto o fisico o mentale e che se contemporaneamente glieli assegno tutti e due cado in contraddizione – e se cado in contraddizione come minimo mi inquieto –, ma, evidentemente, Einstein dormiva sonni tranquilli lo stesso.

2.
C'è stato anche chi ha tentato di ricondurre a operazioni mentali precisamente individuate quelle “libere creazioni dell'immaginazione umana”. Ne La mente vista da un cibernetico, Silvio Ceccato, per esempio, analizza il “tempo” come il risultato dell'aggiunta della categoria di “plurale” a quella di “cosa” – mentre lo “spazio”, inversamente, risulterebbe costituito dalla categoria di “cosa” aggiunta a quella di “plurale”. In virtù del primo – del “tempo” – ci sarebbe pertanto permesso di operare pluralisticamente su ciò che si considera singolo (vedere noi stessi o qualcun altro, per esempio, in un momento successivo considerandolo la stessa persona di prima) e, in virtù del secondo – dello “spazio” – ci sarebbe permesso di operare unitariamente su ciò che si considera plurimo (considerare un insieme di mobili e di altri oggetti, per esempio, come il nostro “salotto”, o una “mano” l'insieme delle nostre dita).

3.
Articolando il nostro cammino in qualcosa che ci sta davanti, in qualcosa che ci sta dietro e nel proprio corpo in movimento come punto divisorio – come discrimine – fra i due, otteniamo anche il modello dell'evoluzione temporale. C'è un passato – dietro –, un futuro – davanti – e c'è una relazione in essere che categorizziamo come presente. Diciamo che da ciò il palinsesto della nostra vita ne viene avvantaggiato: ordiniamo gli eventi lungo un asse che, entro certi limiti – piuttosto modesti – possiamo tenere sotto controllo e possiamo costruire così storie nostre e storie altrui con un criterio che, se applicato collettivamente, ce le fa condividere.

4.
Della modestia dei limiti in cui riusciamo a tenere sotto controllo gli eventi che ordiniamo sull'asse del tempo si occupa con la consueta acutezza dolente Anatole France in Sulla pietra bianca, scritto nel 1905. Con procedimento analogo a quello che, tre anni prima, aveva utilizzato nel racconto titolato Il procuratore di Giudea, mettendo di fronte non più Pilato a Gesù Cristo (o, meglio, a quanto si diceva vagamente di lui) ma Gallione a Paolo di Tarso (o, meglio, a quanto si diceva vagamente di lui), France distrugge tutta la storia scritta con il Senno di Poi. Riscrive con sapienza filologica il passato per dimostrare quanto chi lo ha vissuto non avrebbe mai e poi mai potuto rappresentarsi adeguatamente il futuro – una tesi che non concerne tanto il mondo dei fenomeni fisici – che so, un'eclissi –, quanto, piuttosto, il mondo dei fenomeni mentali – che so, l'evoluzione di un'idea. La storia – la storia che si è sviluppata poi – è letteralmente “incredibile” agli occhi di chi, su quell'asse immaginario del tempo, se la trova davanti.

5.
Gallione era il fratello di Seneca (e di Anneo Mela – tre fratelli, lo dico per la cronaca, che finiranno la propria esistenza costretti al suicidio) e Seneca – un grande maestro, un saggio da cui non potrà che uscir saggezza – era il maestro di Nerone. Come non poter cogliere un momento – almeno un momento – in cui Gallione, intellettuale e potente amministratore romano di territori occupati, non dichiari quanto di buono ci si aspettasse da quest'ultimo?
Gallione è chiamato in tribunale, obtorto collo, per giudicare di una lite, tra uno straccione visionario e alcuni ministri del culto locale. Nulla gli può fregare di meno. E, infatti, se ne torna a chiacchierare di profondità filosofiche con il fratello e con gli amici senza neanche avere un'idea ben chiara di come sono andate a finire le cose. Come fare a individuare – in quel momento – in quel Paolo di Tarso il fondatore di una religione che avrebbe sconvolto la storia del mondo? A Gallione, presumibilmente, poteva anche sembrare difficile che le proprie opere, poi, andassero perdute – come, di fatto, è avvenuto –, ma quanto poi davvero è accaduto doveva per forza sembrargli assolutamente impossibile. Sia per chi si faceva portavoce di questa nuova religione che per i tratti costitutivi della religione stessa – monoteista, estranea alla tradizione, fatta propria da pochi disperati che né nella società romana né in quella ebraica contavano meno di nulla.
Questa costernazione stupita di fronte agli eventi, però – e qui sta tutta l'intelligenza dell'argomentazione di Anatole France –, non toccherebbe soltanto a chi “sta dall'altra parte del tavolo” – ovvero a chi osserva il soggetto storico che agisce –, ma toccherebbe anche direttamente a quest'ultimo. “Chi fonda una religione non sa quello che fa” e Paolo di Tarso medesimo – San Paolo – non riconoscerebbe nelle dottrine odierne praticate nel suo nome alcunché di suo.

6.
Nel sogno finale – un racconto di “fantascienza socialista” –, France estende la tesi fino a comprendere la tragedia che stiamo vivendo noi tutti. Il colonialismo e le sue derive più e meno mascherate da messaggeri di civiltà sono la barbarie, la competizione industriale nel nome del capitale porta alla guerra, “lo sterminio è il risultato fatale delle condizioni economiche nelle quali si trova oggi il mondo civilizzato”. Altro che, come vorrebbe il San Paolo delle varie “epistole” che gli han fatto scrivere (pullulavano, tra i cristiani, i falsari e, presumibilmente, pullulano ancora), sottomettersi alle “potenze regnanti”, è urgente operare per la salvezza dell'umanità e ciò è possibile soltanto nel nome del collettivismo.
Occorre abolire la proprietà individuale dei mezzi di produzione e instaurare una dittatura del proletariato. Lo dice nel 1905 e prelude al suo entusiasmo per la rivoluzione sovietica del 1917, ma lo dice, anche, senza illusioni. Sogna una società talmente collettivista da poter sopportare anche gli anarchici suoi irriducibili nemici, ma è ben consapevole del fatto che, una volta giunto al potere, “il collettivismo sarebbe tutt'altra cosa di quel che noi immaginiamo”, perché “ogni partito, qualunque esso sia, si trasforma così completamente nella lotta, che dopo la vittoria non resta che il nome ed alcuni simboli del pensiero di un tempo”. Valga per Nerone, per Gesù Cristo, per Paolo di Tarso, per Lenin e per chiunque altro che, in cammino lungo l'asse del tempo, si lascia alle spalle qualcosa essendo atteso, innanzi a sé, da qualcos'altro. È già tanto se riusciamo ad essere padroni delle nostre categorie, figuriamoci se possiamo qualcosa sulle categorie altrui; è già tanto – tanto e doveroso – se possiamo qualcosa sulla storia nostra, figuriamoci su quella altrui.
Ma la consapevolezza del fatto che queste categorie dipendano dal proprio operare mentale e non costituiscano ineluttabilità a sé stanti, nell'indurci a non sottrarsi alle proprie responsabilità individuali, può ingenerare una relazione più costruttiva con gli altri.

Felice Accame

Nota
Storia del concetto di spazio di Max Jammer è pubblicato da Feltrinelli, Milano 1963. La mente vista da un cibernetico di Silvio Ceccato è pubblicato da Eri, Torino 1972. Sulla pietra bianca di Anatole France è pubblicato da Gwynplain, Camerino 2011. Il procuratore di Giudea di Anatole France è pubblicato da Sellerio, Palermo 1984.