rivista anarchica
anno 46 n. 406
aprile 2016






Un caso a parte: i Kina

L'ultima canzone che trovate in questo libro riassume perfettamente il groviglio di frustrazioni, malessere, rabbia e rimpianti che ci si porta ancora dentro oggi, qui, adesso. È “Questi anni”, scritta da Gianpiero dei Kina, una canzone che occupa un posto del tutto speciale nel cuore e nella testa di tanti compagni. È una canzone di ieri che canta di oggi, un'altra porta aperta da attraversare per non dimenticare. È la canzone che secondo noi, più e forse meglio di altre, è riuscita ad andare dritta fino in fondo nel cuore della bestia.
Stefano Gaggione, Nel cuore della bestia

Stefano Giaccone ed io descrivevamo così in “Nel cuore della bestia” (ed. Zero in Condotta, 1996) una canzone dei Kina: l'avevamo sentita e cantata tante e ancora tante volte, da soli e in compagnia, versione elettrica oppure unplugged. Nel libro raccoglievamo i nostri punti di vista, le nostre riflessioni ed esperienze nel mondo della musica bastarda, aggiungendo al mucchio dei pensieri una raccolta di ritagli da cassette, fanzine, dischi e volantini. Desideravamo documentare e discutere sul cortocircuito socioculturale innescato in Italia negli anni Ottanta tra punk ed anarchia, e proprio quella l'abbiamo chiamata una canzone speciale. Perché per noi era così: un pizzico di tristezza, mista a consapevolezza e orgoglio. La conoscete senz'altro anche voi, fa:

So ancora guardare in alto e perdermi nel cielo
mentre vibro assieme ad un torrente
e penso all'acciaio che ci stringe
Questi anni stan correndo via come macchine impazzite
li senti arrivare, ti volti e sono già lontani
ti chiedi cosa è successo
La rabbia di quei giorni brucia ancora dentro
ma forse tanto veleno poi è tornato dentro di noi
Gli altri stanno ancora ridendo e noi qui, a guardarci dentro
No, sono sempre io
non mi cambierete quello che ho dentro
forse ho un'altra faccia, ho più cicatrici di prima
sorrido un po' meno, forse penso di più
Non mi chiedere se ho vinto o se ho perso
non mi chiedere se ho vinto o se ho perso

Che sensazione strana incontrare Gianpiero Capra l'altro giorno: mi sembrava di essere dentro a una di quelle storie televisive con le macchine del tempo, dove ci si rivede da ragazzi per qualche ora. È stato divertente: non certo il nostro uno di quegli incontri dove ci si abbraccia occhi umidi sospirando al cielo: “oh, com'eravamo giovani, allora!”, neanche ci siamo messi lì a raccontare la strada disseminata di sfighe e l'imbarazzo dei capelli bianchi, né a sorridere ebeti davanti alle foto dei figli dentro lo smartphone.
Forse chi ci stava a guardare vedeva solo due ultracinquantenni ingrigiti che scodinzolavano, ciascuno con i suoi sogni più o meno infranti e le belle idee ancora accatastate nella cantina sotterranea personale, ben chiusa a chiave. Lui suonava il basso con i Kina, nel gruppo anche Alberto Vetrella chitarra e Sergio Milani batteria; una trentina abbondante d'anni prima si era tutti insieme a Torino, complici dell'incontro i Franti, poi al Virus occupato a Milano per un concerto.
Di lì a breve i tre avrebbero registrato e fatto circolare una cassetta con una dozzina di pezzi “Nessuno schema nella mia vita”, la prima di molte uscite a venire.
Era roba davvero difficile da incasellare in un genere musicale specifico: anarcopunk senz'altro come atteggiamento tiramenti e sonorità, eppure ogni loro disco costituiva un episodio decisamente a sé, un oggetto solare e speranzoso e luminoso in quel periodo di dischi neri urlati desolatamente uguali, i bambini morti di fame in copertina e il rumore delle bombe dentro i solchi.
Del primo incontro, oltre al suono di quei pezzi semplici che puntavano dritto al cuore mi era rimasta impressa la loro maniera di muoversi, di parlare, di guardarti in faccia: eravamo differenti, ma anche no. Forse era perché venivano dalla montagna, da Aosta, e io invece dalla riva del mare. Oppure era solo perché, anche se di poco, erano tutt'e tre più giovani di me e il fatto di suonare era per loro proprio una questione di sopravvivenza, mentre io invece avevo già dovuto imparare, pagando cara la lezione, come ammorbidire gli spigoli. Collaboravo già con la A/Rivista e mi è venuto spontaneo e naturale proporli per un concerto collettivo con Franti e Contrazione al convegno internazionale anarchico a Venezia; poi la cosa come sapete s'è fatta, una serata memorabile di gioia ruvida ed eccitazione. Me la sogno ancora ogni tanto, quella sera.
Come dicevo qualche riga fa, i Kina sono stati davvero un caso a parte nel panorama punk anarchico italiano: mentre il grosso del giro si sfaldava mettendosi in ginocchio davanti ai nuovi miti hardcore americani oppure pogando all'antica gli anthem inglesi, loro sono andati avanti per anni, dritti per la loro strada. E non è stata solo una questione di canzoni da inventarsi e dischi da fare: i Kina hanno mandato avanti fino al 1997 il gruppo e Blu Bus, con ogni probabilità l'etichetta discografica indipendente italiana più attiva, hanno preso parte e/o fatto da colonna sonora praticamente a tutte le manifestazioni e hanno suonato per chiunque gli abbia offerto ospitalità e un po' di spiccioli per la benzina. Blu Bus ha significato un sostegno forte e concreto a decine di gruppi, non solo punk, che sono riusciti a pubblicare e diffondere materiale che diversamente sarebbe potuto soltanto rimanere sommerso. Senza Blu Bus e senza i Kina, senza Impact, Ariadigolpe, Tempo Zero, Eversor, Inzirli, Teatro Quotidiano, Snowdrops, Detriti …saremmo stati un paese senz'altro più triste, più grigio, più silenzioso e spento.

Un passaggio di testimone

In metà del libro “Come macchine impazzite” (ed. Agenzia X, 2015) Gianpiero racconta i Kina, cioè quella che per lui e compagni era la vita normale, e che invece per noi assomiglia di più a un'avventura.
Nell'altra metà del libro c'è pressappoco la stessa storia ambientata in pressappoco gli stessi posti, raccontata però da Stephania Giacobone, che ha 25 anni meno di Gianpiero (e direi trenta meno di me). Non so quanto l'incastro tra le due versioni sia naturale o artificiale, frutto cioè di un qualche ragionamento redazionale, ma l'insieme funziona: Stephania scrive assai bene una storia che comincia con un vecchio volantino attaccato su un muro, storia che scopri essere “bella” senza essere necessariamente esposta in uno stile “carino”, e che trovo sarebbe potuta restare in piedi anche in maniera autonoma.
Forse lo scritto da Gianpiero, preso da solo, sarebbe stato sufficiente a realizzare un libretto smilzo (e veloce, diretto, senza smarronamenti e giri inutili di discorsi: ecco, proprio come le canzoni dei Kina). Mettiamo che ci sia stata l'intenzione di creare un ipotetico passaggio di testimone nelle mani di una generazione successiva, ma sta ultima frase quasi quasi la cancello perché mi convince poco anzi niente. Se leggete il libro capite il perché della pistola in copertina.

Marco Pandin
stella_nera@tin.it